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chinazione la vedova e l’orfanello di Giuseppe Monti, conducendoli fuori dello Stato Pontificio.

Questa piccola impresa non era punto agevole. La povera donna era sorvegliata continuamente da gendarmi, da poliziotti e da spie, che aveva intorno perfino tra le vicine di casa. Di Lucia Monti si volea conoscere ogni passo, ogni parola; e, se possibile, pur ogni pensiero. Tutti questi ostacoli, invece di disanimarci, acuivano la nostra volontà di riuscire. Era, anche questo, un lottare contro l’odioso ed odiato regime papale.

Io interessai all’impresa delle donne, le quali potevan dar meno nell’occhio. Fra queste, prima di ogni altra, mia nipote Adele Narducci, la quale mi aveva di recente dato ben altre prove della sua accortezza, della sua coraggiosa devozione alla nostra causa. E, pure, con premura accettarono di aiutare la signora Placidi e la moglie dell’amico pittore William Richmond, la quale avea un piccolo bambinello; e questo pure giovò al nostro intento.


Queste generose donne fecero opera preziosa. Specie nel mantenersi in continuo contatto con la Lucia Monti, ispirandole fiducia, sostenendone in ogni occorrenza l’animo.

I Gesuiti serravano da presso la giovine vedova. Un giorno questa non potè sottrarsi dall’andare nella Chiesa del Gesù dove erasi chiamata. Ma essa, prima di recarvisi, non dimenticò di farne avvertite le signore amiche, indicando l’ora in cui sarebbe andata al Gesù.

Quando Lucia Monti fu al Gesù, la menarono nella sagrestia; dove un padre Gesuita, molto commiserandola, con melate parole prima, e con severità dopo, tentò di farle rivelare i nomi dei mandanti del marito; contro i quali egli tentava di voltar l’animo della donna dicendole, ad ogni momento, di ricordarsi che costoro erano stati a mandare il marito suo al patibolo.

La poveretta, che era una onesta e sveglia marchigiana, non cedette ostinandosi nel silenzio. Il reverendo padre, allora, mutò registro. Facendo mostra di crederla molto bisognosa,