Quel che vidi e quel che intesi/Capitolo VI
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VI.
«GRAN DIO, BENEDITE L’ITALIA!...»
ALLA GUERRA.
Durante questi primi miei passi nell’Arte, moriva Gregorio XVI. Veniva innalzato al Pontificato Papa Mastai. Di costui si conosceva il carattere ambizioso e vanitoso, lo spirito giovanile e fresco. Si sperava che egli, lusingato dagli applausi, dimenticasse di essere Papa. A forza di applausi, di fiaccolate, di grida, di evviva di migliaia e migliaia di cittadini, nelle belle sere di estate lo si induceva a presentarsi al balcone del Palazzo del Quirinale. Appena, sorridente e benigno, Pio IX appariva, il popolo domandavagli a gran voce l’amnistia dei detenuti politici; ed egli l’accordava. Un’altra bella sera di nuovo si andava ad acclamarlo e gli si domandava la Guardia Nazionale; e si aveva. Un’altra bella sera italiana piena di stelle luccicanti, nuovi evviva di una folla immensa sotto il Quirinale. — Evviva Pio IX! Evviva l’Italia! Fuori lo straniero!...
Comparve sul balcone la bellissima persona del Pontefice ed aperte le braccia, con voce forte ed inspirata, esclamò:
— Gran Dio, benedite l’Italia!
Non si può immaginar, nè descriver l’intensa commozione di quel gran momento! Delirante la folla non cessava di gridare:
— È santo! È santo!...
Questa fu l’origine prima del bene che oggi godiamo.
A me, come a tanti altri giovani, parve l’avvento di Pio IX inizio di una nuova éra per il nostro paese. E fui tra coloro, cui sembrò opportuno di effettuar anche qualcosa di nostra iniziativa. Per parte mia compiei il mio primo atto politico con lo andare a svellere, con amici del mio Trastevere, i cancelli del Ghetto, con i quali al tramonto vi si chiudevan dentro gli abitanti. Questo avveniva il 17 aprile del 1847.
L’anno dopo con Nino Castellani, Gaspare Finali ed altri amici, atterrammo lo stemma Imperiale Austriaco dalla fronte del Palazzo Venezia.
Parve però a Nino Castellani ed a me che fosse tempo di far qualcosa di più positivo che sbandierar e manifestare. Andati in Ghetto comprammo un sacco militare per ciascuno che mettemmo in spalla e, montati in una vettura, in piedi, girammo come trionfatori, per tutta Roma, gridando, specie ai giovani, che non bastava gridar «Evviva l’Italia», ma che bisognava andare a combattere per essa.
Per le vie incontrammo un vecchio, certo Pippo Anzani, che ci fermò, e, dopo averci abbracciati e baciati con le lacrime agli occhi, montò a cassetta della nostra vettura, inalberando in cima ad un bastone di canna d’India un fazzoletto bianco rosso e verde e ci accompagnò per tutto il resto del nostro giro attraverso Roma.
In tal modo, Nino Castellani ed io, avemmo l’onore di dar per i primi ai Romani il segnale della partenza per la guerra contro l’Austria.
Pochi giorni dopo, nel cortile del Belvedere in Vaticano, si formò con volontari la Legione Romana, la quale contò duemilatrecento volontari; e venne formata su due battaglioni, sotto il comando del colonnello Tommaso Del Grande, mercante di campagna. Come ufficiali v’erano, tra gli altri, Bartolomeo Gallettì, droghiere, Angelo Tittoni mercante di campagna, Agneni pittore. Quantunque ventunenne in Trastevere volevan farmi capitano. Ma non accettai che il grado di caporale per il desiderio di compier qualche ardita impresa isolata, in compagnia di altri sette od otto amici con i quali io m’era collegato, sapendoli uomini pronti a tutto. Eran questi Annibale Lucatelli, i due fratelli Berretta, i due fratelli Valentini, Aloisi, Sebastiani e Paolo Peretti.
Con questi e col grado di caporale entrai nella quarta compagnia comandata da Cesare Moneta uno dei grandi paini romani.
Questo è singolare: a quel tempo il paino romano era fannullone. Ad altro non pensava, tutto al più, che a far mostra di sè a cavallo. Smontatone si appoggiava ad una delle colonnette che erano, allora, dinanzi ad ogni portone sul Corso e vi si indugiava lunghe ore ad occhieggiar le dame che passavano in carrozza. Ebbene, questi paini si son portati in guerra tutti quanti valorosamente. Ed erano pieni di intelligente ardire e di buon senso, sopratutto quelli della classe dei mercanti di campagna, come i Tittoni, i Silvestrelli, Del Grande, Silvestri, De Angelis, Grandoni ed altri che non rammento.
Una bella sera dissi a mia madre che io andavo al teatro. Invece andai alla adunata della quarta compagnia della Legione Romana per partire da Roma. Il giorno dopo mia madre, saputo ch’io era partito per la guerra, forte si inquietò con i miei fratelli perchè non mi aveano impedito di partire; chè, anzi, mi avean dato un po’ del mio danaro, trenta napoleoni d’oro, come viatico.
La prima tappa fu di quindici miglia per la Campagna Romana, con sacco e fucile in spalla. Io ero lungo e sottile come uno sparagio che si piega per il peso della capocchia; ma il sacco militare, che mi spianava le spalle, mi fece molto bene raddrizzandomi. Tanto è vero che quando tornai a Roma dalla campagna ero tanto mutato che mi dicevano che sembravo un romagnolo.
Purtroppo la nostra marcia fu, fin da principio, trionfale. Trovavamo archi di trionfo nei paesi che attraversavamo, finestre pavesate, pioggie di fiori. I contadini venivano fuor delle loro case con bigonci pieni di vino per dissetarci. Eravamo i primi che marciavamo contro un nemico oppressore, duro, odiato, e benedetti dal Vicario di Cristo, Padre Santo.
Durante il giorno si marciava, la notte si ballava. Arrivati a Foligno di sera, i due Berretta, Peretti ed io fummo rapiti da alcuni Perugini, messi in una carrozza, rapidamente trasportati a Perugia in una villa, non saprei or dir quale, dove si passò il resto della notte cenando e ballando. Alla mattina dopo i nostri ospiti ebber cura di riportarci a Foligno in tempo per la partenza della Legione.
Nella terza compagnia c’era un tenente bellissimo giovane, dal portamento militare, severo e di poche parole; egli era inglese, si chiamava Federico Mason ed era fratello di Giorgio, col quale io mi dovea, più tardi, legare della più intrinseca amicizia ed artistica fraternità.
Nella mia compagnia c’era il principe Galitzine, e nella terza compagnia c’erano don Bartolomeo Ruspoli, padre dell’attuale 1 Sindaco di Roma e due fratelli marchesi Patrizi semplici legionari.
Partiti da Sinigaglia per andar a Pesaro, ci parve che i Pesaresi non fosser per noi abbastanza festosi; ci parve che negli archi trionfali essi avesser mescolato il cipresso con le mortelle; epperciò vi passammo sotto con i cappucci calati sulla testa e senza fermarci a far la prestabilita tappa, tirammo avanti fino a Rimini, percorrendo quarantasette miglia in ventiquattro ore.
Sull’ultimo della lunga marcia si faceva, in prossimità delle città e paesi di tappa, a correre onde assicurarci da mangiare e da dormir bene nelle locande. Accadde, una volta, che don Bartolomeo Ruspoli, trovandosi all’avanguardia, avrebbe voluto impedir di passargli avanti. Essendo notte, però, egli incespicò cadendo bocconi lungo disteso in terra col suo fucile, ed io con i miei vincemmo la gara.
Giungemmo finalmente al Po. Passato il gran fiume mettemmo il piede nel territorio che, allora allora, l’Austriaco nemico avea abbandonato per ritirarsi nelle sue fortezze. Giunti che fummo a Padova, per la prima volta prendemmo la via di ferro che trasportò tutta la Legione a Venezia.
Pareva che tutta Venezia fosse ad attenderci alla stazione. Eran pronte sul Canale grandi zattere tutte pavesate e coperte di tappeti per trasportarci a Piazza San Marco. I Veneziani che erano venuti ad incontrarci ci scortarono lungo il Canal Grande in centinaia delle lor gondole, una grande orchestra galleggiante suonava durante il tragitto; dalle finestre e dai veroni, parati ed imbandierati, le Veneziane ci gettavan fiori acclamando. E così, lentamente, si arrivò in Piazza San Marco, dove si mise piede su tappeti orientali con i quali era stata coperta. Da allora in poi mai non c’è stato, per me, alcun spettacolo che, più di quello che vidi quel giorno, mi abbia mai toccato il cuore e l’immaginazione.
Pensate che noi vedevamo quel popolo ricco di tanta storia e di tante glorie, che fu padrone dei mari, mentre splendeva il più bel sole d’Italia, tornato in libertà dopo la bestiale tirannide del bastone croato, ebro di gioia e fremente in quel sogno di città sorta dal mare!...
Noi ci accampammo al Lido; ma quanti della Legione avean mezzi tenevano ai loro comandi una gondoletta che ad ogni momento libero li trasportava a Venezia. Ai minori ufficiali che di tutte queste sparizioni si lagnavano con lui, invariabilmente rispondeva il colonnello Del Grande:
— Lasciateli fare sti ragazzi. AI momento di battersi li troverete tutti. A che ora del giorno si squaiano? Alla sera.... Embè, chiudete gli occhi!...
Si capisce bene che questi fuggitivi erano accolti in Venezia con cene e con balli. Cosa eran di gentile le Veneziane con «quei bei tosi dei roman!...»
- ↑ Si noti che questi ricordi Nino Costa dettava nel 1893, in cui, appunto, era Sindaco di Roma Don Emanuele Ruspoli principe di Poggio Suaso.