Quel che vidi e quel che intesi/Capitolo V

Capitolo V

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Capitolo IV Capitolo VI

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V.

IN LIBERTÀ.


Finalmente in libertà, miei amici e miei compagni di collegio mi dicevano che un figlio di buona famiglia e della mia età doveva far all’amore con qualche ragazza; ciò che mi avrebbe fatto più considerare. AI che io obiettavo:

— Ma io non sento amore; e, poi, nemmeno so come si fa.

— Eh! Diavolo!... — riprendeva qualche amico. — Si fa così: si passeggia sotto le finestre di una ragazza che piaccia, lanciando sguardi. Se quella corrisponde un poco, allora le si scrive una lettera nella quale si dice che non si può viver senza di lei e tante altre belle cose.

Io, allora, mi misi subito all’opera punto disgustosa, quantunque le risate sarcastiche della signora Apolloni mi avesser levato il gusto delle cose di amore. Però, ripensando a quelle risate, fui inclinato a trovar naturale che vedere un giovine in marsina, cappello a cilindro e cravatta bianca arrampicarsi per inferriate come un ladro aristocratico, avea dovuto [p. 24 modifica]naturalmente, per lo strano caso, suscitar il riso di colei di cui io avea disturbato il sonno.

E questo alquanto mi confortava.

Ma c’era poi, a rendermi timido, selvaggio, non intraprendente, l’educazione avuta in famiglia. In questa io non ero stato mai considerato come un essere. Deriso, battuto anche malato in letto, oppresso lo spirito, abbandonato, tutto ciò mi avea fatto ripiegare in me stesso; rendendomi taciturno e riottoso, riscattando la mia inerzia, in certi momenti, con eccessi. Infine io non mi credevo degno di amore ritenendomi al di sotto di tutti, senza personalità. In fondo, però, il mio cuore era buonissimo. In casa dicevano di me:

— Giovanni ha buon cuore, ma carattere impossibile. È anche di talento, è peccato che non si possa metter negli affari perchè ha delle idee così strane.... È un vero originale!...

Questa parola «originale», in una casa fratesca come la mia, era un qualificativo da condanna dell’Inquisizione.


Alla uscita dal collegio il mio danaro mi fruttava, presso i fratelli, il cinque per cento; la retta in famiglia era di venticinque scudi mensili, ed io, così, mi trovavo con più di ottanta scudi al mese da sprecare. La qual somma era vistosa per quei tempi e per un giovanotto, come io era, senza educazione, senza conoscenze di famiglia, senza nessuna nozione di affari. Nulla me ne aveano appreso, perchè degli affari, di proposito, nemmeno si parlava alla presenza dei minorenni; nè mai eravamo ammessi in computisteria.

Il fratello maggiore, Antonio, tornato ch’io fui a casa dal collegio, con una certa aria di paternità, mi diceva:

— Adesso, Giovanni, per voi bisognerà che cerchiamo un impiego al di fuori delle cose di famiglia.

A questo discorso io risposi ringraziando e dicendo al fratello ch’io, per me, sentivo un avvenire al di fuori di un impiego e della famiglia.

[p. I 4 modifica]Sepolcro di Maria Chiappi Costa in San Francesco a Ripa (Roma) [p. I 5 modifica] Antonio Costa [p. 25 modifica]Mi rivedo, a quel tempo, girando per Roma, come un cane cucciolo, col naso in aria, colle spalle un po’ curve, non sapendo proprio dare una direzione alle mie gambe, sventolando un amplissimo carrick di panno azzurro senza saper dove posarmi.

Eppure andavo con una lettera amorosa sempre in tasca, diretta ad una stella, che brillava per me e che io non conosceva ancora, senza la quale non potevo più vivere, nè muovermi, nè star fermo.

Finalmente vidi ad un balcone al primo piano in Via della Mercede, certe signorine Lattanzi, le quali, a me che passavo e ripassavo, parve facesser viso sorridente. Eran tre sorelle; una avea capelli castagni, una gli avea biondi ed una neri. Allora cambiai il tono della mia lettera e scrissi:


Alzai gli occhi al cielo,
Vidi brillar tre stelle.
Quale sarà, tra quelle,
Che brilla in ciel per me?
Sarà, forse, la prima,
Ovvero la seconda?
Sarà la bella bionda,
Che brilla in ciel per me?


Era di sera, mostrai la lettera alle fanciulle, fissandole; esse fecer cenno, col capo, di aver capito. Calarono un filo al quale io raccomandai il foglio, che fu presto tirato su. Era di primavera e le finestre eran tutte aperte e da queste uscivano torrenti di luce, tanto più che, a quel tempo, le vie eran quasi buie, cosicchè tuttora vi si vedeva qualche can barbone precedere il padrone con la lanterna in bocca. Io ansioso attendeva l’esito della mia poetica missiva paludato nel mio carrick, col naso in aria. Quand’ecco che me la sento leggere ad alta voce, chiosandola con sonore risate in coro da vecchi, donne e bambini, che poi principiarono a cantar le mie poetiche [p. 26 modifica]parole.... ed io me la diedi a precipitosa fuga. E non so per quanti anni non son più ricapitato per quella via.


All’uscita dal collegio, divenuto padrone di me, non pensai solo alle amorose imprese; bensì anche, e con assai maggior fervore, all’Arte. Nella quale tutto mi rifugiai dopo tanta delusione.

Appena fuor del collegio, dopo aver avuto qualche consiglio artistico dal barone Camuccini, che allora nella pittura andava a Roma per la maggiore, frequentai lo studio del pittore Coghetti il bergamasco; ed in questo conobbi i pittori Agneni e Massabò. Entrai, poi, nello studio di quest’ultimo, perchè mi pareva che colorisse meglio del Coghetti. Ma, non soddisfacendomi nemmen lui, più tardi, e fu nel ’48, andai nello studio di Francesco Podesti.

Ciò avveniva nei primordii dei miei studi artistici. Ma, nello stesso tempo, andando l’estate con la madre in villeggiatura per i Castelli Romani, io cercava di disegnare e dipingere la natura. Ed, in ciò, io mi trovava in contradizione con tutto quanto mi avevano insegnato nelle scuole. Fin da allora comprendevo che non erano le discipline insegnatemi adatte a trovar fondo all’universo. Compresi che il cielo dovea avere il suo fondo, l’aria la sua leggerezza, le cose lontane il mistero, quelle davanti la chiarezza.