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gli un vitello vivo e più mise a nostra disposizione la sua cantina.

La generosa offerta venne da noi accettata. Non fu difficile trovar tra i compagni chi a colpi di daga abbattè la povera bestia. Come se la cavasse per farla scuoiare e macellare non so. Questo ben so: che ci portò dei bei pezzi di carne nei quali, arrostitili, affondammo i denti.


Man mano che avanzavamo miglior accoglienza, sempre più, si trovava nelle popolazioni. Venivamo acclamati e forniti di mezzi di trasporto per il feretro e per noi.

A Ferrara entrammo in chiesa con lo stesso carro funebre e vi facemmo celebrar un sontuoso funerale. Non volevan permetterci di pronunciare una orazione funebre nella chiesa. Ma Valentini, infischiandosi del divieto, montò in pulpito e parlò dicendo cose dell’altro mondo su la chiesa moderna, sullo spirito del Vangelo, su la umanità del Papato, su la ipocrisia che non concedeva di far la guerra a chi trattava la civile nazione italiana col bastone e col capestro per cupidigia di possesso. E terminava:

— Guai a colui che tolse la mano dall’aratro dopo aver cominciato il solco!


Questo Valentini era uomo di gran torace, molto alto della persona, usciva fuor del pulpito per più che metà del suo corpo. Tipo del ’500. Rubicondo, grandi baffi, occhi da domator di belve, voce stentorea, vero tipo di capitano di ventura.

Un giorno in Spagna avendo la ballerina Cerrito sotto braccio, volle forzar la consegna all’ingresso di una gran festa, per la quale non avea pensato a provvedersi di invito. Un soldato di fazione avendo messo la mano sul petto della dama per impedirle il passo, il Valentini lo freddò.

L’influenza della Cerrito e la cavalleria degli Spagnoli lo fecero salvo.