Prose campestri/Pane egeo
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Pane egeo, jam mellitis potiore placentis.
Orazio ep. x, lib. i
Niccolò Perotti di Sasso-Ferrato, uno de’ più illustri Letterati del secolo decimoquinto, godea d’una sua villa deliziosa molto, ch’ei chiamava Fuggi-cura. Così fu giustamente detto Posilipo, cioè Cessa-affanni, come suona la voce Greca Παυσίλυπος, quel colle bellissimo presso a Napoli. Ma non sembra egli, che il gran Federico dalla Fuggi-cura di Niccolò avesse tolto il nome del suo celebre Sans-souci? Non voglio io già rassomigliarmi a tai personaggi: ma una simile denominazione converrebbe a questa mia villa, e forse anche meglio. Perchè, quanto al Sans-souci, chi può creder placido costantemente e tranquillo il giorno d’un Re? Non sarebbe più falso il dire, che v’ha un mare senza burrasche. Rispetto poi alla Fuggi-cura, sappi ora che il Perotti fu sempre avvolto in affari, fu Governator dell’Umbria, di Spoleti, e di Perugia, ed Arcivescovo di Manfredonia, e tutto ciò non è senza molti pensieri; e forse pensiero eragli tormentoso quel detto del Cardinal Bessarione, di cui fu conclavista dopo la morte di Papa Paolo secondo, ed a cui si crede avess’egli innocentemente fatto mancare il Papato: per la diligenza tua a contrattempo, hai tolto a me la Tiara, e a te stesso il Cappello. Non sono questi gli elementi, di cui la pace dell’anima si compone. Più tranquillamente si dee credere, che se ne stesse nella sua villa di Codevico quel celebre Luigi Cornaro. La vita sobria, che a ristabilirmi in salute io conduco qui, e della quale ciascun sa ch’egli scrisse, mi rende ancor più cara la memoria di quel degno uomo. Nè già l’uomo, come troppo spesso veggiamo, era diverso dallo scrittore: fu temperantissimo. Cibavasi quattro volte il giorno, ma non andava al di là delle dodici oncie, come nel bere le quattordici di vino non trapassava. Cominciò questo dopo gravissima malattia, che l’assalì nell’anno quarantottesimo dell’età sua; e visse un secolo quasi, e sanissimo sempre. E quello tra i proverbj era il suo favorito, che il cibo, che a mensa restiam di mangiare, giova più del cibo, che abbiam mangiato. Fu riversato un giorno dalla carrozza, che è fatalissimo ai vecchi massimamente, ma di che nulla sofferse, in grazia, dic’egli, della sua vita sobria; e certamente può far molto anche in ciò la buona tempera degli umori. Diceva ancora, che si è men soggetto alle melanconie e alle avversità, sobriamente vivendo. Ed è veramente lepida cosa ove loda sè stesso, dicendo ch’è uomo piacevole, che canta bene, che ha composto una Commedia piena d’onesti risi e di piacevoli motti ecc. Più apertamente ancora lodasi in una sua lettera all’illustre amico suo Sperone Speroni, il qual per ischerzo ed accademicamente confutati aveva i suoi pensamenti intorno alla temperanza, e fattone poi anche la palinodia. Gli vien mostrando il Cornaro in quella sua lettera, come ha saputo correggere la sua mala fortuna con la molta prudenza sua. Gli dice, che nacque di complession debolissima ed infermiccia, e riebbe colla vita sobria la forza e la sanità: che nacque ignobile, benchè i suoi fossero stati gran Senatori e Principi, ed egli riacquistossi la nobiltà, di cui stato era spogliato un suo ascendente, per grave colpa sbandito: che nacque povero, sebbene i suoi fossero ricchissimi, perchè confiscati furono i beni, ed egli si pose nell’agiatezza col miglior mezzo e più lodevole d’ogni altro, che è il mezzo della santa agricoltura, e non col mezzo d’armi e sforzi e danni altrui, nè col mezzo di passare i mari con infiniti pericoli della vita. Nè ciò per accumulare: ma spese non poco in erezione di nobil tempio, in fabbriche nella città di Padova, e nella sua villa di Codevico, e in aver liberata la stessa dal mal aere e dall’acque paludose, e ridottala a coltura e popolazione di selvaggia e deserta; onde solea dire, che diede a Iddio non solamente chiesa, ma popolo ancora: oltre la magnificenza, con cui ricevea gli amici ed i forestieri, e giovava ai letterati, agli architetti, ai pittori, agli artisti d’ogni maniera. Compiaceasi ancora del genero, e della figliuola, che pare vivesser con lui, ma non a mensa probabilmente, e di tre nipotini, ch’erano tre angioletti nell’effigie. E queste cose dice, che le godrà molti e molti anni: tanto si tenea certo d’una lunghissima vita, e di morire non di malattia, ma per risoluzione, come in fatti gli avvenne. Possedea veramente la scienza difficile d’esser felice; il che là vedesi ancora, ove scrive di sentire allegrezza, che i Signori del Magistrato delle acque gli abbiano fatto un notabile danno, perchè altrimenti non diveniva liberatore della patria; perchè questo torto è stato cagione, ch’egli abbia trovato il modo della conservazion della laguna, e così della patria sua. Questo è convertir tutto in oro, come quel Mida della favola. Nè merita picciola lode, per quel tempo, il suo trattato delle acque, ove insegna appunto a preservar quelle di Venezia, dette da lui le sue fortissime e sante mura, e insieme i suoi lidi, che sono una sua seconda muraglia, fatta non già di pietre, nè di altra materia frale, ma di due perpetui elementi acqua, e terra. Anche dell’architettura era non mediocremente perito, ed il suo gusto eguagliava la sua magnificenza, come massimamente si scorge in quella lettera di Francesco Marcolini, che va innanzi al libro quarto del Serlio. Vi si dice, che chi vuol sapere come si dee fabbricare in città, venga a casa Cornara in Padova, e se vuoi edificar in villa vadi a vedere a Codevico e a Campagna, e chi vuoi fare un palazzo da Principe, pur fuor della terra, vada a Luvigiano; ed aggiungesi, che toglier dee il modello da lui chiunque piantar voglia ed ornare un giardino. L’architettura pertanto, l’agricoltura, e l’idraulica erano i principali suoi studj, co’ quali accompagnò sempre la musica, e la letteratura più amena: perciocchè nell’età d’anni 83 compose quella commedia, che ho detto, e non è a noi pervenuta, vantandosi sopra Sofocle, che per aver tessuta in età d’anni 78 la tragedia dell’Edipo a Colone fu riputato sano e gagliardo, e dicendo ch’egli era più sano e più giocondo, che non fu Sofocle, con dieci anni meno. Perchè poi nulla mancasse alla fama di lui, ebbe un censore in certo Signor de la Bonaudiere, che pubblicò nel 1702 un Anti-Cornaro. Ma i discorsi del nostro Luigi stampati più volte, e tradotti in Francese, in Inglese, e in Latino, piacquero universalmente; e veramente scorgesi in quel semplice ed ingenuo stile una contentezza di cuore, una calma, ed un senso per la virtù, che amar fa lo scrittore, ed allontana ogni voglia, per poco che l’animo sia gentile, di censurarlo. So bene, e dissimularlo non vuolsi, che alcuni si sono scandolezzati di quelle parole sue, che la morte dei parenti ed amici non gli dava noja che nel primo moto. Ma quanto ai parenti, abbiam già veduto che assaissimo amava il genero, la figlia, e i nepoti. Nè era men tenero verso gli amici, un de’ quali, cioè il Ruzzante, visse lungamente in sua casa, come anche il Falconetto, di cui servivasi nelle sue fabbriche; e sappiamo ch’egli voleva esser sepolto insieme con loro, acciocchè, scrive il Temanza nella vita del Falconetto, i corpi di coloro non fossero nè meno dopo morte disgiunti, gli animi de’ quali l’amicizia e la virtù aveano legati insieme vivendo. E parlando allo Speroni della felicità sua, dichiara; che sol lo rende infelice il non badar che fan gli uomini ai suggerimenti suoi, perchè gli amici perderebbe più tardi, se ci badassero. Sicchè, a conchiudere, io non ho altro contrario, se non la morte degli amici, che mi tengono in continua infelicità. Così egli stesso. Ciascun vede come quest’ultima frase discordi dall’altra che la morte de’ parenti ed amici non gli dava noja che nel primo moto: onde pigliandole ambedue con la debita discrezione, e l’una con l’altra temperando, diremo; ch’egli sapea rammaricarsi, ma vincersi ancora, ed usar fortezza; sapea farsi filosofo senza cessar d’esser uomo: che è la più bella d’ogni filosofia.