Prometeo legato/Primo episodio
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PRIMO EPISODIO
coro
Svelaci, tutta esponici l’istoria:
in quale fallo te cogliendo, Giove
di cosí dure obbrobrïose pene
ti oltraggia: dove non ti noccia, narralo.
prometeo
M’è pur doglia narrar simili eventi,
doglia tacerli: una miseria è tutto!
Come prima scoppiò l’odio fra i Numi,
e in due parti li scisse una contesa,
questi, volendo abbattere dal soglio
Crono, perché regnasse appunto Giove,
gli altri, tutto al contrario, adoperandosi
perché mai Giove non avesse il regno,
io mi pensai convincere pel meglio
i figliuoli del Cielo e della Terra,
i Titani; e non seppi. Essi, superbi
della lor forza, le sottili astuzie
disprezzarono; e senza stento, a forza,
conquistare il dominio immaginarono.
A me, però, non una sola volta,
mia madre Temi, e Gea che nomi ha varî
ed una forma sola1, avean predetto
l’evento già delle future sorti:
che vinto avrebbe chi vincer doveva,
non con la gagliardia, non con la forza,
ma con l’astuzia. E tutto questo udirono
dalle parole mie, né lo degnarono
d’alcun riguardo. In tali eventi, il meglio
mi parve allor trarre con me mia madre,
e spontaneo prestar soccorso a Giove
che lo bramava. E pei consigli miei,
il negro abisso del profondo Tartaro,
Crono l’antico e i suoi compagni asconde.
Ebbe da me tal beneficio; ed ora
con queste pene turpi il re dei Numi
me ne compensa: è mal della tirannide
questo di non prestar fede agli amici.
Or poi rispondo alla dimanda vostra,
per qual ragione egli cosí m’offenda.
Seduto appena sul paterno soglio,
subito Giove a compartir si diede
doni ai Celesti, a compartire uffici,
a chi questo, a chi quello. E dei mortali
non fe’ parola alcuna: anzi distruggere
tutta quanta volea la stirpe loro.
ed una nuova seminarne. E niuno,
se togli me, si oppose al suo disegno.
Io n’ebbi ardire. E gli uomini salvai
dal piombare nell’Ade, allo sterminio.
Per questo in tali pene io son fiaccato,
dure a soffrire, misere a vedere.
Perché pietà degli uomini sentii,
indegno io stesso parvi di pietà;
e in questi lacci dolorosi stretto,
offro tal vista miseranda a Giove.
coro
Ha cuor di ferro, o Prometèo, tagliato
è nella roccia, chi pietà non sente
dei mali tuoi! Veduti, oh!, non li avessi:
or che li ho visti, tutto il cuor mi duole.
prometeo
Sí, per gli amici è gran pietà vedermi.
coro
Non sei forse trascorso ad altro eccesso?
prometeo
Dal fissare il destin distolsi gli uomini.
coro
Quale farmaco a tal morbo trovasti?
prometeo
Nei lor petti albergai cieche speranze.
coro
Gran beneficio fu questo per gli uomini.
prometeo
Ed oltre a questo, il fuoco a lor donai.
coro
Il fuoco, occhio di fiamma, ora posseggono?
prometeo
E molte arti dal fuoco apprenderanno.
coro
E Giove, dunque, per queste ragioni...
prometeo
Cosí m’offende, e il furor suo non placa.
coro
Né della pena è a te prefisso il termine?
prometeo
Quando a lui piaccia: il sol termine è questo.
coro
Potrà piacergli mai? Come lo speri?
In fallo sei, non vedi? Oh!, non m’allegra
ricordare il tuo fallo, onde ti crucci.
Ma tralasciam questi discorsi. Indaga
che spedïente i mali tuoi disciolga.
prometeo
A chi tien fuori dai cordogli il piede,
dare consigli a chi patisce è facile.
Tutte io sapevo queste pene. Io stesso
volli peccare, non lo negherò:
io stesso volli: gli uomini soccorsi,
ed a me stesso procacciai tormenti.
Ma non credeva a strazio tal, che in vetta
d’aeree rocce io macerar dovessi
su questa balza inospite deserta.
Ma non piangete il mio presente male:
scendete al suolo, e le sciagure udite
che incombono su me, sí che sappiate
compiutamente il tutto. Esauditemi,
compatite al dolente, esauditemi,
ché la sciagura, ciecamente errando,
ora su questo piomba, ora su quello.
coro
Non a gente incresciosa
la tua parola, Prometèo, si volge.
Sí che ora dal cocchio veloce
e da l’ètere limpido, tramite
degli augelli, con l’agile piede
scenderò su la terra: ché bramo
per intero ascoltar le tue pene.
Il cocchio delle Oceanine sparisce. Su un cavallo marino alato giunge Oceano.
oceano
Giungo a te, Prometèo: questo augello
dalle penne veloci, diressi
col voler, senza freni. Ben lunga
fu la via che m’addusse a la mèta.
Sappi ch’io di tua sorte doloro:
mi vi astringe la stirpe comune,
io mi penso: ma, oltre alla stirpe,
niun v’è la cui doglia
io partecipi piú che la tua.
Tu saprai che sincero è il mio labbro,
che dir vane parole e lusinghe
mio costume non è. Dimmi dunque
in che cosa giovare io ti posso;
e dovrai convenir che nessuno
piú d’Oceano t’è fido amico
prometeo
Ahimè, che avviene? A contemplar mie doglie
anche tu giungi? E come ardisti mai,
lasciando il flutto che da te si noma,
e le volte di roccia, onde Natura
i tuoi spechi inarcò, sopra la terra
madre del ferro, il pie’ muovere? Giungi
a veder le mie pene, a pianger meco?
Ecco ciò che veder tu puoi: l’amico
di Giove, quei che seco estrussi il regno,
sotto che strazi, sua mercè, mi fiacco.
oceano
Prometèo, ben lo veggo; e consigliarti
vo’ pel tuo meglio, benché tu sei scaltro.
Rientra in te: nuovi costumi adotta,
ché il Signore dei Numi anch’egli è nuovo.
Se parole cosí scabre e taglienti
tu scaglierai, t’udirà certo Giove,
se ben tanto alto siede, e allora, un gioco
ti parrà da fanciullo, il mal presente.
Su’ via, tapino, bandisci la furia
che t’empie il seno, e alle tue pene cerca
qualche riscatto. A te forse parranno
triti vecchiumi le parole mie;
ma della lingua tua troppo superba
è questa, Prometèo, la triste mancia.
Ma tu non sai farti umile, non sai
cedere ai mali; ed altri procacciartene,
oltre ai presenti, vuoi. Se un mio consiglio
ti piace udir, non calcitrare al pungolo:
vedi che aspro, che assoluto è Giove.
Adesso io vado, e tenterò la prova
se ti posso scampar da queste pene.
Tu rimani tranquillo, e audace troppo
il tuo labbro non sia. Sempre il castigo
s’appiglia a troppo temeraria lingua:
sei tanto sapiente, e questo ignori?
prometeo
Felice te, che la mia doglia ardisci
partecipare, e fuor di colpa resti!
Ma lasciami or, di me cura non darti.
Modo non v’è che tu possa convincermi.
Bada a te stesso, fa’ che il tuo viaggio
non ti debba fruttar qualche cordoglio.
oceano
Molto piú vali a dar consiglio a quanti
ti son vicini, che a te stesso. I fatti,
non le parole, me ne danno prova.
Accinto io sono già: né trattenermi
ti piaccia: io mi lusingo, io mi lusingo
che Giove il dono di mandarti libero
da queste pene a me voglia concedere.
prometeo
Io ti son grato, e sempre ti sarò,
che del tuo buon voler nulla risparmi.
Ma pur, non affannarti: affanno vano
il tuo sarebbe, e senza utile mio.
Sta tranquillo, e da me tien lunge il piede.
Non perché sono io misero, vorrei
che sciagura incogliesse ad altri molti.
No, che mi rode anch’essa il cuor, la sorte
d’Atlante fratel mio, che ritto sta
nelle contrade d’Espero, e con gli òmeri
la colonna del cielo e de la terra
sostiene, immane pondo. E il cuor mi pianse,
quando il figlio di Gea, l’abitatore
degli spechi Cilicî, orribil mostro
che spira furia da cento cerèbri,
mirai domato da la forza. Ei stette
a faccia a faccia contro i Numi tutti,
sibilando terror da le mascelle
spaventevoli; e vampo mostruoso
folgoreggiavan gli occhi, e a viva forza
prostrar credea di Giove la tirannide.
Ma di Giove su lui l’insonne dardo,
il folgore piombò, che dal ciel cade
spirando fiamma; e dai superbi vanti
giú l’abbatté. Colpito entro nei visceri,
ei fu converso in cenere, e disfatto
il poter suo fra l’ululo dei tuoni.
Ed or, salma disutile, rovescio
giace nei pressi del marino stretto,
e le radici d’Etna su lui gravano.
E sta sopra le cime ultime Efesto,
e batte il ferro incandescente; e quindi
fiumi di fuoco eromperanno un giorno,
con selvagge mascelle, e struggeranno
le piane valli e gli opulenti frutti
de la Sicilia, coi roventi strali
d’un implacabil turbine di fiamma.
Tanto furor, se bene dalla folgore
converso in bragia, ebollirà Tifone.
Ma tu ciò non ignori, e non hai d’uopo
ch’io t’ammaestri. Or, come tu sai, sàlvati:
io la sciagura mia sopporterò,
sin che di Giove non declini l’ira.
oceano
O Prometèo, non sai che le parole
son medicina all’animo che soffre.
prometeo
Quando in buon punto un cuor molci, non quando
reprimi a forza un animo che scoppia!
oceano
Nel prevedere, nel tentar, tu scopri
che ci sia qualche danno? E quale? Mostralo!
prometeo
Superflua pena e vana dabbenaggine.
oceano
Lasciami pur tal morbo. E’ gran vantaggio
sembrar privi di senno, ed esser saggi.
prometeo
Sembrerà mio retaggio un tal difetto!
oceano
Chiaro è! Le tue parole mi congedano.
prometeo
La tua pietà potrebbe inviso renderti.
oceano
A chi sul trono sommo or ora ascese?
prometeo
Bada che il cuor di lui mai non si crucci!
oceano
La sorte tua, m’è, Prometèo, maestra!
prometeo
Va’, torna, serba questi tuoi propositi.
oceano
Parli a chi sta già sulle mosse. I tramiti
schiusi dell’aria questo augel quadrupede
rade con l’ali già. Nei suoi presepî
il ginocchio piegar lo farà lieto.
Oceano parte.