Prometeo legato/Prefazione

Prefazione

Prometeo legato ../Personaggi IncludiIntestazione 31 ottobre 2019 100% Teatro

Eschilo - Prometeo legato (V secolo a.C.)
Traduzione dal greco di Ettore Romagnoli (1922)
Prefazione
Prometeo legato Personaggi
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Accanto al Prometeo legato, rimangono il titolo e frammenti di altri due Prometei: il portatore del fuoco, e il disciolto: né sembra dubbio che costituissero una trilogia. E certa parrebbe anche, sebbene anche qui furono sollevate eccezioni, la rispettiva disposizione dei tre drammi. Primo, Prometeo che reca agli uomini il dono fatale del fuoco: secondo, la punizione di Giove: terzo, Ercole che libera l’antichissimo avolo glorioso.

Del Prometeo portatore del fuoco rimane un sol verso, di carattere sentenzioso e generico (208 Nauck):

Favellando e tacendo a tempo debito,


e la notizia, riferita dallo scoliaste al Prometeo legato, che il Titano rimase avvinto alle rupi del Caucaso trentamila anni. Inutile tentare una ricostruzione con questi miserrimi avanzi.

Numerosi frammenti rimangono invece del Prometeo disciolto. E qui è veramente legittimo il tentativo d’indagare l’ordine originario, per risalir poi da questo ad una immagine, sia pure sommamente generica, del dramma completo.

Tre frammenti (190-92 Nauck) sono in metro [p. 226 modifica] anapestico: e per questo, e per il loro contenuto, si vede chiaro, che appartennero alla pàrodos. Dunque, o aprirono l’azione1, o vennero súbito dopo un prologo. Erano affidati ad un coro di Titani, che salutavano il loro consanguineo:

190


Siamo giunti....

a veder, Prometèo, le tue pene,

e il tormento di questi legami.


Poi descrivevano le terre viste nel loro lungo viaggio:

191


Dove scorre, fra l’Asia e l’Europa,
il gran termine duplice, il Fasi.


192


E le sacre fluenti purpuree

del Mar Rosso, e, vicina all’Ocèano,
degli Etíopi l’altrice palude,
che riflessi ha di rame, ove il Sole
che tutto contempla,
le membra immortali al riposo
adduce e gli stanchi cavalli

nei calidi gorghi dell’acqua soave.

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Certo súbito dopo la pàrodos venne la risposta di Prometeo ai Titani, che non possediamo nel testo greco, bensí nella versione di Cicerone, che sembra riecheggiar fedelmente le parole eschilèe:

193
O dei Titani consanguinea stirpe
generata dal cielo, a questa rupe
me contemplate avvinto e stretto, come
nave che, nel fragor d’orrido mare,
a notte i marinai pavidi ormeggiano
Giove Saturnio qui cosí m’infisse,
che la mano d’Efesto al proprio cenno
volle congiunta. Con travaglio atroce
attraverso alle membra ei questi cunei
mi conficcò, me le spezzò. Da quella
perizia sua, misero me, trafitto,
dimora in questo campo ho dell’Erinni.
Ed ogni terzo giorno, ahi, giorno infesto!,
mi vola presso l’aquila di Giove,
con l’unghie adunche mi lacera e sbrana,
fa di mie carni orrido pasto, e poi,
rigonfia e sazia del mio pingue fegato,
leva alte strída, al ciel s’innalza, e sfiora
il sangue mio con la pennuta coda.
E come poi s’è rinnovato il fegato
per empito di bile, al tetro pasto
essa, novellamente avida, accorre.
Del mio triste martirio io cosí nutro
questa custode, che me vivo insozza
con travaglio perenne: ch’io, di Giove

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stretto nei lacci, come pur vedete,
lungi scacciar dal petto mio non posso
l’aligero feroce. Onde cosí
patisco, orbato di me stesso, questi
mali d’angoscia; e degli affanni il termine
chiedo, la morte imploro; e tien la morte
lungi da me la volontà di Giove.
Tale vetusto luttuoso strazio
accumulato in mille orridi secoli
è nel mio corpo; e dall’ardor del sole
liquefatte, pei sassi aspri del Caucaso,
perennemente stillano le gocce.


     Anche ai Titani, parrebbe, era diretto un altro brano, in cui Prometeo enuncia i benefizî largiti agli uomini:

194
E carri inoltre ad essi diedi, tratti
dai cavalli e dagli asini, e le stirpi
dei tauri, che ai travagli si sobbarcano.


Poi sopraggiungeva Ercole. Ercole doveva recarsi nei paesi d’Occidente, per togliere a Gerione la famosa greggia. E Prometeo gli insegnava le principali tappe del suo viaggio:

195
Prendi per questa via diritta; e prima
giungerai presso gli aliti di Borea.
Dall’irruento strepito dei venti
guàrdati quivi, che a rapir non t’abbiano
col tempestoso repentino soffio.

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196
A un popol quindi perverrai, giustissimo
piú d’ogni gente, ed ospitale, ai Gabî,
dove né aratro né tagliente zappa
fende le zolle, e, in gran copia, spontanei,
recano i solchi nutrimento agli uomini.


     Anche degli Sciti era lodata la giustizia:

197
 .... e i giusti
Sciti, che cacio di giovenca pascono.


     Era poi descritta la lotta di Ercole coi Liguri, che, quando l’eroe tornava coi bovi di Gerione, tentarono di rapirglieli:

199
All’intrepido stuol verrai dei Liguri,
dove, per quanto sii vago di pugne,
dir non potrai che tu n’abbia penuria.
È destino per te ch’ivi ti manchino
sino le frecce; né potrai da terra
raccattar pietra, ché il suol tutto è molle.
Quando Giove però ti vegga privo
d’armi cosí, mosso a pietà, protesa
alta una nube, oscurerà la terra
con un profluvio di rotonde pietre.
E tu, scagliando queste, agevolmente
respingerai dei Liguri l’esercito.

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Ed ecco apparire, nel sommo ètere, l’aquila, e calare verso la vittima. Ercole afferra l’arco, e rivolge una pre- ghiera ad Apollo:

200
Diríga il dardo Apollo cacciatore!

E qui credo si trovassero anche i due versi2 riferiti da Galeno:

206
Vedi che stilla non ti spruzzi il labbro:
è sangue amaro: aura di morte esala.

Avrà parlato del sangue dell’aquila. Un verso, infine, diceva:

201
D’infesto padre figlio a me carissimo

Parole di Prometeo ad Ercole; e, quasi certo, dopo la liberazione, e, dunque, verso la fine del dramma.

* * *

Saltano agli occhi le analogie tra il Prometeo disciolto e il Prometeo legato. I Titani sono un replica delle Oceanine. Il racconto dei loro viaggi riecheggia le predizioni di Prometeo ad Io. I lamenti e il racconto delle sciagure

________ [p. 231 modifica]ai Titani, continuano i lamenti e il racconto alle Oceanine; e anche qui, risaliva nel tempo, ed enumerava i benefizi largiti agli uomini: vero doppione. E doppione della predizione ad Io, quella in cui predice ad Ercole le varie tappe del suo viaggio.

E nessun dubbio che, se crescesse il numero dei frammenti, crescerebbero le analogie. Dovute, in gran parte, alla forzata immobilità del protagonista; e questa, alla fondamentale concezione eschilea del dramma e del mito di Prometeo.

Se, infatti, sottraendoci al fascino della poesia, esaminiamo con la fredda critica, vediamo facilmente che nel Prometeo, non solo non esiste azione, ma anche mancano veri caratteri drammatici.

Colpa o deficienza di Eschilo? Non credo.

Che cosa è infatti, nel suo piú profondo significato, il mito di Prometeo? È la rivolta contro la divinità, che ha creati gli uomini e poi li ha abbandonati, ludibrio agli elementi, alle fiere, ai morbi, alle cieche passioni. È la lotta dell’uomo contro queste forze indifferenti e nemiche, l’ansia di ascendere, a dispetto di queste, e della stessa volontà di Giove, in una sfera di civiltà. Goethe ha inteso e mirabilmente espresso questo concetto nei suoi versi giovanili:

          Hat nicht mich zum Manne geschmiedet
          Die allmächtige Zeit
          Und das ewige Schicksal,
          Meine Herrn und deine?

Ora, un personaggio nel quale s’incarni questo concetto, non è un personaggio drammatico. Non è dramma, nel senso corrente, questa lotta contro l’invisibile, questa aspirazione [p. 232 modifica]a un ordine superiore di giustizia e di bene. È contrasto, è problema e soluzione filosofica, tanto piú alto, quanto piú conserva la sua pura essenza.

Ora, a un dramma occorrono azioni o caratteri. Ma un’azione, cioè una vicenda di lotta fra Prometeo e Giove, ridurrebbe il terribile contrasto al livello d’una lotta umana. E, d’altra parte, perché una passione filosofica non basta ad informare un carattere scenico, a meno che questa passione non venga ad urtare contro passioni umane (come, p. e., ne La Recherche de l’absolu di Balzac), per drammatizzare il Prometeo, occorrerebbe introdurvi elementi estranei. Ma tali superfetazioni sono il peggior morbo che possa corrodere qualsiasi opera d’arte; e specie nel Prometeo, turberebbero e umilierebbero senza riparo la purissima altezza, l’adamantina unità del mito. Non sarà inopportuno ricordare che un altro sublime artista, Beethoven, volendo riesprimere l’antico mito, sentí anch’egli quest’obbligo di non frangerne l’unità, e compose il suo preludio quasi unicamente di quartine, che si rincorrono con insistenza fiera e selvaggia.

Prodigiosa è pertanto l’antichissima figurazione mitica, ripresa fedelmente da Eschilo. Prometeo rimane immoto, avvinto da una forza materialmente tanto superiore, per centinata e centinaia di secoli. Ma, crocefisso alla rupe, straziato dal perenne martirio, non piega d’una linea dinanzi a quella forza. In questo simbolo grandioso, il mito serba e svela con perfetta trasparenza tutta la purezza originaria. Non piú legato ad una tecnica, ad un popolo, ad un tempo, varca i secoli radioso d’una perenne giovinezza. Il Prometeo non è vero dramma: è, comunque vogliate chiamarlo, opera di poesia, che simboleggia, con colori ed immagini ed armonie affascinanti, il piú [p. 233 modifica]segreto contrasto della coscienza umana. Cosí si spiega il fascino profondo che esercita ed eserciterà sempre in tutti gli spiriti.

* * *

Trascurato e quasi eliminato ogni elemento drammatico, ad Eschilo rimanevano due risorse.

Innanzi tutto, la pittura della vita e dell’incivilimento primevo. Pittura che, o accenni da poche linee d’Orazio, o si svolga nel ricco quadro di Lucrezio, o sfolgori dall’apocalittico abbozzo di Vico, ha sempre virtú di commuovere profondamente gli animi, spingendoli a contemplare e quasi rivivere quell’antico periodo della loro esistenza.

E, senza esitazione, si può dire che la rievocazione di Eschilo, anche nel solo Prometeo legato, rimane la piú ricca e mirabile che sia balenata a genio umano.

La seconda risorsa consisteva nello sfondo che naturalmente si offriva alla rappresentazione teatrale del Prometeo.

Una delle principali note del genio di Eschilo, era, l’abbiamo visto, il sentimento cosmico: o, meglio, il sentimento delle origini cosmiche. Eschilo non si sentiva contemporaneo degli uomini che gli vivevano attorno, e che pure, nell’arte e nella vita, compievano prodigi; e neppure degli antichi eroi che prodigi piú mirabili avevano compiuto, ma pure erano vissuti uomini fra uomini, in un mondo nel quale gli Dei scendevano solo di rado. Eschilo si sentiva uomo d’un mondo anche piú remoto, assai piú grandioso e terribile, e del quale rimanevano ancora sulla terra visibili tracce. Atlante, agli estremi confini d’Occidente, reggeva ancora il cielo sugli omeri possenti. In Sicilia, sotto [p. 234 modifica]le radici dell’Etna, rugghiava ancora Tifone; e sui vertici, Efesto batteva il ferro incandescente.3 E sotto l’Etna, a poca distanza dalla spiaggia, si vedevano tra l’azzurro dei flutti le immani rupi scagliate dai Ciclopi feroci4.

Ma questi avanzi erano fossili, quelle creature divine e mostruose erano scomparse da secoli e secoli. E vetuste e scomparse dovevano considerarsi in ogni rievocazione di gesta eroiche, per quanto lontana si volesse respingerla nel tempo. E se apparivano, apparivano appunto come rievocazioni di un tempo trascorso.

Ma nell’epoca in cui si svolge il mito di Prometeo, quel processo di eliminazione non era ancora compiuto. La lotta fra Giove e i Titani non era finita. Atlante, Tifone, Prometeo erano debellati e puniti; ma tutta una schiera di Titani, non sappiamo da quale regione misteriosa, veniva a soccorrere l’afflitto fratello. Gli uomini, scossi appena dal loro torpore di bruti, ancora sotto la minaccia di una intera distruzione, non sono ancora i dominatori della terra. Qui è come un interregno, una epoca di transizione, nella quale respirano la propria aria creature cosmiche grandiose, bellissime, mostruose. Oceano e il suo cavallo aligero, le Oceanine, Io, non sono rievocazioni, non sono ospiti, ma vive realtà, creature che vivono e si muovono nella loro propria sede. E cioè nella terra, ancora troppo arsa dalla formidabile potenza dei suoi fuochi interni,


_______ [p. 235 modifica]madre di creature terribili e mostruose, teatro di spettacoli sublimi, e di terribili sconvolgimenti, evocati con tanta potenza nei versi meravigliosi che chiudono il Prometeo legato.

Queste profonde suggestioni ispirarono ad Eschilo la visione scenica del Prometeo, e non già la superficiale aspirazione ad una scenografia spettacolosa (Christ). Anche qui, la rappresentazione d’un mito speciale, legato ad un tempo e ad un popolo, trascende alla lucida evocazione d’una vita primitiva, orrida e prodigiosa, il cui ricordo e il raccapriccio dormono nei piú segreti anfratti della nostra sensibilità nervosa. Il Prometeo tocca quella sensibilità, risuscita quei ricordi. Perciò ha sui nostri spiriti un effetto veramente magico.

* * *

La vivace pittura dell’eruzione dell’Etna sembra provare con certezza che il Prometeo sia posteriore al 475. Fissare una data precisa, non è però possibile. È notevole la scarsità della parte corale; e si è pensato che sia dovuta ad una riduzione, forse effettuata per alleggerire la esecuzione dinanzi a un pubblico, forse il siciliano, meno disposto di quello d’Atene a udire i lunghissimi brani cantati. L’ipotesi è tutt’altro che inverosimile. Certo, questa scarsità non deve essere assunta come indice d’una eccessiva modernità del Prometeo, che pel carattere artistico sembrerebbe appartenere alla piena maturità del genio di Eschilo.


Note

  1. È questa l’ipotesi piú probabile, perché il dramma arcaico incominciava appunto con una pàrodos anapestica. Vero è che nell’Agamennone una simile pàrodos è preceduta dal prologo della scolta; ma l’Orestea appartiene ad un periodo tardo, quando le forme originarie erano molto alterate. Né mi sembrano senza peso le parole di Procopio, che, riferendo due di questi versi (fram. 191), dice: Αἰσχύλος ἐν Προμηθεῖ τῷ λυομένῳ εὐθὺς ἀρχόμενος τῆς τραγωδίας.
  2. Nauck li attribuisce al Προμηθεὺς πυρκαεύς, dramma satiresco. Impossibile risolvere con sicurezza il quesito: però l’accento dei versi mi sembra piuttosto tragico. Galeno, riferendoli, dice solo: ὁ αὐτὸς (Eschilo) φησὶν ἐν Προμηθεῖ.
  3. Cfr. pag. 260, v. 8 sg. E si veda il libro, disprezzato dalla scienza ufficiale, e ricco di mirabili intuizioni, di Victor Bérard: Les Phéniciens et l’Odyssée, pg. 242 sg.
  4. Si chiamano ora i faraglioni; e la tradizione è tuttora viva in Sicilia.