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PROMETEO LEGATO | 227 |
Certo súbito dopo la pàrodos venne la risposta di Prometeo ai Titani, che non possediamo nel testo greco, bensí nella versione di Cicerone, che sembra riecheggiar fedelmente le parole eschilèe:
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O dei Titani consanguinea stirpe
generata dal cielo, a questa rupe
me contemplate avvinto e stretto, come
nave che, nel fragor d’orrido mare,
a notte i marinai pavidi ormeggiano
Giove Saturnio qui cosí m’infisse,
che la mano d’Efesto al proprio cenno
volle congiunta. Con travaglio atroce
attraverso alle membra ei questi cunei
mi conficcò, me le spezzò. Da quella
perizia sua, misero me, trafitto,
dimora in questo campo ho dell’Erinni.
Ed ogni terzo giorno, ahi, giorno infesto!,
mi vola presso l’aquila di Giove,
con l’unghie adunche mi lacera e sbrana,
fa di mie carni orrido pasto, e poi,
rigonfia e sazia del mio pingue fegato,
leva alte strída, al ciel s’innalza, e sfiora
il sangue mio con la pennuta coda.
E come poi s’è rinnovato il fegato
per empito di bile, al tetro pasto
essa, novellamente avida, accorre.
Del mio triste martirio io cosí nutro
questa custode, che me vivo insozza
con travaglio perenne: ch’io, di Giove