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le radici dell’Etna, rugghiava ancora Tifone; e sui vertici, Efesto batteva il ferro incandescente.1 E sotto l’Etna, a poca distanza dalla spiaggia, si vedevano tra l’azzurro dei flutti le immani rupi scagliate dai Ciclopi feroci2.

Ma questi avanzi erano fossili, quelle creature divine e mostruose erano scomparse da secoli e secoli. E vetuste e scomparse dovevano considerarsi in ogni rievocazione di gesta eroiche, per quanto lontana si volesse respingerla nel tempo. E se apparivano, apparivano appunto come rievocazioni di un tempo trascorso.

Ma nell’epoca in cui si svolge il mito di Prometeo, quel processo di eliminazione non era ancora compiuto. La lotta fra Giove e i Titani non era finita. Atlante, Tifone, Prometeo erano debellati e puniti; ma tutta una schiera di Titani, non sappiamo da quale regione misteriosa, veniva a soccorrere l’afflitto fratello. Gli uomini, scossi appena dal loro torpore di bruti, ancora sotto la minaccia di una intera distruzione, non sono ancora i dominatori della terra. Qui è come un interregno, una epoca di transizione, nella quale respirano la propria aria creature cosmiche grandiose, bellissime, mostruose. Oceano e il suo cavallo aligero, le Oceanine, Io, non sono rievocazioni, non sono ospiti, ma vive realtà, creature che vivono e si muovono nella loro propria sede. E cioè nella terra, ancora troppo arsa dalla formidabile potenza dei suoi fuochi interni,


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  1. Cfr. pag. 260, v. 8 sg. E si veda il libro, disprezzato dalla scienza ufficiale, e ricco di mirabili intuizioni, di Victor Bérard: Les Phéniciens et l’Odyssée, pg. 242 sg.
  2. Si chiamano ora i faraglioni; e la tradizione è tuttora viva in Sicilia.