Prefazioni e polemiche/I. Lettere di Giuseppe Baretti torinese ad un suo amico di Milano sopra un certo fatto del dottor Biagio Schiavo da Este (1747)/Lettera seconda

Lettera seconda

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LETTERA SECONDA


Ora che vi ho detto l’oltraggio che mi ha fatto prete Biagio, sentite mò la piacevole vendetta che ne ho fatta io. Ma sono certo che la non vi farà tanto ridere, quanto vi avrebbe fatto ridere se foste stato presente alle due commedie che mi dispongo a raccontarvi. Oh se vi foste stato, vi so dir io che anche voi vi sareste scompisciato dalla risa, come hanno fatto alcuni che vi furono presenti.

Quando io ebbi ben bene squadernato il sonetto critico e fattolo squadernare da alcuni, come già vi dissi nell’altra mia, e che da tutti fu conchiuso che era sicuramente dello Schiavo, la sera seguente me ne andai alla bottega di Menegazzo, dove trovai la solita conversazione dello Schiavo, d’un suo cherichetto che si chiama Zanetti (il quale mangia, bee e dorme con esso lui) e di sei o sette altri. Fatti che io ebbi i convenevoli con tutti, mi posi a sedere a faccia a faccia al molto reverendo prete, e cavata fuori la lettera orba — Signori — dissi, — ve ne voglio raccontare una bella; ed anche Vossignoria, signor dottore Schiavo, si compiaccia sentirla. Ella che s’intende di queste cose di poesia. Caro il mio dottissimo signor dottore, vediamo un po’ insieme se potessimo conoscere allo stile l’autore di certi versi che stanno scritti in questa carta. — Il buon vecchio, sentendo intuonare questo salmo e già indovinandosi il gloria, cominciò a impallidire e a stringere le labbra, e mi volle dire non so che parole d’un mio amico che gli aveva scritto da Roma; ma la voce gli tremolava in modo che né Farinello né Salimbeni non fecero mai più lunghi trilli di que’ ch’e’ fece dicendomi quelle poche parole; ed io, che non voleva per allora quella zolfa e che non mi voleva lasciar interrompere, interruppi lui dicendo: — Eh! già lo so, già lo so, che quell’amico le ha scritto: ora senta anch’Elia, signor dottore, quello che [p. 16 modifica]a me viene scritto in questa lettera, e s’apparecchi a darmene il suo parere, come istantemente ne la prego. — E qui, fatto un pochino di preambulo, feci ricordare alla brigata siccome io per due volte avevo detto che quel mio sonetto per monaca che cominciava «Angioli santi» ecc. era cattivo e che io non ne teneva conto. Ed avendo quasi tutti detto che se ne ricordavano benissimo che io avevo detto quelle parole, soggiunsi: — Or bene, signori, sappiate che quel mio sonetto è qui in questa lettera trascritto a sillaba per sillaba, e di sopra più vi ha un altro sonetto di critica al mio, che è un capo capone d’opera, come voi tutti sentirete. Drizzate gli orecchi, ch’io leggo. — E letti ch’io gli ebbi entrambi — O signori — dissi, — che ve ne pare? E Ella, signor dottor Biagio mio padron venerato, che ne die’ Ella di questo critico tanto dotto in «lettre umane e divine »? — Il dottore non apri bocca malgrado le mie replicate interrogazioni assai cuculievoli; ma gli altri (eccetto il cherichetto dello Schiavo, che questo asinelio non conta) mi fecero istanza che io lo rileggessi; ed io, fattomi da capo e rilettili entrambi, feci sopra l’uno e sopra l’altro alcune annotazioni poco più poco meno ne’ termini che vi scrissi nell’altra. E quando io ebbi finito, tutti della brigata (eccetto il dottore e lo scuolarino, questo s’intende) incominciarono a dir cose di fuoco contro l’autore di quella critica; e chi gli diceva: — Oh che bestia! — e chi: — Oh che ignorante! — ed altri: — Oh che becco con l’effe! — e altri: — Oh che viso di. . . eccetera! — e vi so dire che per due ore si andò dietro cantando tutti a coro questa canzone. — E’ si vede bene che costui è un dottore de’ miei ... — così diceva uno, — poiché invece di prendere a criticare alcuna delle cose dal Baretti fatte in età più matura, e di quelle delle quali egli dà copia a chi ne vuole, va a pigliare un suo vecchio sonetto già da lui anche più del dovere battezzato per cattivo e da nulla. — E fra gli altri Sua Eccellenza il signor Daniele Farsetti disse: — Oh! io me l’indovino chi è costui: gli è un certo impostore, il quale va sempre in traccia del malanno e si vuole immortalare a forza di farsi scriver contro da questo e da quell’altro, e vuol dir mal di tutti, come il suo santo padre Aretino. [p. 17 modifica]Ma — soggiungeva il Marcellotto — il poveraccio è molto più ignorante, come è più bestia dell’Aretino, il quale almeno aveva in mezzo alla sua ignoranza un po’ di brio, di vivacità, e gli riusci pur talvolta di far qualche cosa di mediocre; ma il nostro critico, che anch’io conosco l’asino agli orecchi, maladetta quella cosa mediocre che gli è mai venuta fatta. — E il fiorentino saltava su tratto tratto anch’egli e andavagli sfibbiando de’ suoi riboboli, che la era cosa da morir dalle risa. Insomma, amico, ne furono dette tante ch’e’ ve ne sarebbe da far un libro.

Ora voi imaginatevi quale piacevol cosa poteva essere il vedere messer Biagio con le labbra cucite, stralunar gli occhi addosso al suo povero scuolarino che, anch’egli imitando il suo venerandissimo maestro, non apriva bocca. Imaginatevi un uomo fll mediocre statura, con una pancia sufficientemente pingue, un mostaccio largo e rotondo come un mellone, due occhiacci larghi, bianchicci, cisposi e foderati di prosciutto; un nasetto a ogni poco increspato sul mezzo; due guancie stracche e cascanti sotto le mandibule delle ganascie; un labbro di sotto alquanto rovesciato in fuora; un capo assai guernito di capegli mezzi neri, mezzi bianchi e mezzi giallognoli, e ritti ritti e distesi distesi, con un totale di ceffo che giurereste preso in prestito da Merdocai rabbino: imaginatevi, dico, una figura con tutte queste belle parti in un uomo di settantadue anni, ed eccovi tale e quale sputato sputatissimo il dottore prete Biagio Schiavo da Este. Imaginatevelo poi in mezzo a cinque o sei giovini tutti collo scilinguagnolo molto ben rotto, che lo proverbiavano e lo strapazzavano e lo trafiggevano senza misericordia sotto nome dell’incognito critico; e poi giudicate se la era commedia veramente da ridere. Oh che increspamenti di naso! oh le strane bocche ch’e’ faceva! Il ritratto del suo Zanni non monta il pregio di far’elo: basta dirvi che ha un visetto stretto e bislungo, quattro capegli rossigni e una fisonomia da stolido e da spav’entato. Dopo di aver riso a crepapelle e di aver fatti stare zitti zitti un paio d’ore il maestro e lo scuoiare, la compagnia si disciolse, ed augurata da me e da qualch’altro molto cuculievolmente la felice notte al molto reverendo Schiavo, ognuno se n’andò pe’ fatti [p. 18 modifica]suoi. Ma la non fu mica finita qui la commedia, sapete. Oh ci resta ancora il più bello da raccontare! Leggete, leggete, che sentirete.

Il seguente giorno io incontrai il signor Adamante Martinelli, il quale mi ebbe appena veduto che cominciò a gridarmi a quanto n’aveva in gola: — Olà, olà, compare, lo sappiamo, S’gnor si, lo sappiamo il nome di quel tartaro che ti ha scritto e mandato nella lettera orba il sonetto contro. Sai tu chi egli è, lo sai tu? Oh, compare, non te ’l vo dire, se non mi preghi: indovinalo, te lo do alle tre, alle quattro, alle quarantaquattro. — E avremo noi a far venire l’astrologo Rosacelo? — rispos’io. — Dunque — disse il Martinelli — chi ere’ tu ch’e’ sia? — Ed io: — Oh gli è barba Schiavo! Ci vuol e’ ’l cannocchiale per distinguere quest’asino agli orecchi, come diceva quell’altro? — Cosi lo colga pure il morbo, come gli è egli — rispose il Martinelli. — Ma tu, Baretti, come lo sai tu? — Già te l’ho detto — rispos’io, — agli orecchioni ho riconosciuto l’asino; forse che quel sonetto non è in quello stesso asinesco stile dell’altre sue poesie? Ma tu, Martinelli, che non hai visto, cred’io, il sonetto critico, come sai tu che gli è di pre Biagio? — Se non l’ho veduto io — disse il Martinelli — lo ha ben veduto un gentiluomo a cui lo Schiavo lo ha letto prima di mandartelo, e quantunque quel gentiluomo lo sconfortasse a non far tal cosa, ha saputo (e me l’ha detto non ha mezz’ora) che te l’ha mandato, e che anzi ier sera gli avete dette le sue alla bottega di Menegazzo. — Cosi mi disse il Martinelli e mi nominò anche il gentiluomo, che io non posso qui nominare in iscritto, perché, sendo ora questo cavaliere in villa, non posso chiedergliene licenza.

Quando io ebbi questa notizia, andai la medesima sera al caffè, e lo Schiavo, puntuale come un creditore, ebbe coraggio di lasciarsi trovare nella solita compagnia. Ma non andò a Roma a pentirsene, perché io, rivolgendomi sogghignando a lui: — Oh, signor dottore dabbene — gli dissi, — oh io l’ho saputo il nome dell’autore di quel sonetto da ier sera; non l’ho dett’io ch’io lo conosceva quel babbione, signor dottor riverito? Gli è proprio quello ch’io supponeva: l’ha detto Sua Eccellenza [p. 19 modifica]il signor tale — e lo nominai; — e questo sciocco non si è vergognato di leggerlo ad un gentiluomo e farsene bello, e di dire anzi che non si curava che si sapesse anco chi ne fosse l’autore. — Il povero prete, sentendo quel nome, venne di cinquanta colori, e quantunque fosse d’agosto, cominciò a tremare come chi è assalito dalla quartana e batté i denti pel brivido. Ben si faceva forza per nascondere la sua confusione, ma Cimabue, che aveva gli occhi di panno, gliel’avrebbe vista scritta in sul viso. — Costui — ripresi io — costui è im certo ser Cotale, signor dottore mio caro, il quale, già sono alcuni anni, essendo io in Milano, se la voleva prendere con me, perché io aveva costretto il Balestrieri, per onore della sua Raccolta del gatto, a non ci cacciar dentro un tal ladrissimo sonetto che costui aveva mandato. Dico che sin d’allora e’ se la volle prendere con me; poi, per consiglio di quell’accademico di Belvedere già menzionato, pose le pive in sacco e non fece altro. E mi ricordo che mentre ancor bolliva quella faccenda, io in un capitolo ad un mio amico scrissi alcuni pochi terzetti in lode di questo pedante, signor Biagio mio, che lo rappresentano molto al vivo. Senta, senta, signor dottore, que’ terzetti, che le so dir io che son beili e fanno molto a proposito, e son questi: 

     Egli mi viene una stizza bestiale,
quando taluno la giornea s’allaccia
e sputa tondo e in zucca non ha sale.
     Conosco un uom che cerca e si procaccia
le brighe, e comperandole a contanti
dell’Aretino va su per la traccia.
     Costui si tien sempre il Petrarca avanti,
e col cucchiaio te lo sgrana in guisa
ch’e’ può in bigoncia montar co’ pedanti.
     Di tòsco e greco porta la divisa;
nella toscana lingua granchi prende,
ed io me ne smascello dalle risa.
     La greca, che a ritagli compra e vende,
la trascrive da Pindaro e da Omero,
e quando poi l’ha scritta non l’intende.

[p. 20 modifica]Ecco il vero ritratto di quell’asino. Signor dottore, che gliene pare di questi terzetti? Questo è ben altro che «nulla», che «scevro», che «giure», che «lettre», ah? Li senta di grazia un’altra volta, che, torno a dire, fanno al proposito. — E glieli replicai, e i circostanti me li fecero poi dire di nuovo, ed egli taceva, e le risa erano grandi. E chi diceva: — Vello vello, quel pazzo chiosator del Petrarca; anch’io da questo ritratto lo conosco. Oh maledetto, gli è quel cattabrighe che ha poco meno che rovinato un buon uomo di stampatore qui di Venezia, che gli stampò per sua disgrazia due tomi di noiosissimi e pedanteschissimi dialoghi, comprati da pochi e letti da nessuno. Oh che pittura al naturale! oh che pennellate! — Ma no — interrompeva un altro, — mancano molte cose a questo ritratto; bisognava dipingere ancora quella sua natura di mulo, che lo fa tirar calci ad ognuno che gli passa vicino: voglio dire eh ’e’ la vuole con tutti. Se la prese già col prevosto Muratori, il quale però non gli volle far l’onore di scrivergli contro, e così fece anche il Facciolati da Padova, e così la buona memoria dell’abate Verdani, e così il tale, e così il tal altro; — e chi uno e chi un altro ne nominava. — Non gli fu altri che gli scrivesse contro che un certo fraticello con certi suoi nuovi pesci d’amici, veramente suoi degni rivali, che come lui tanto sapevano di poesia quanto i porci di lavar i bicchieri; e fu bella cosa per alcuni anni vedere costui e il frate darsi mazzate da ciechi alle spese de’ loro sventurati stampatori. — Piano — ripigliava un altro, — anche il Facciolati fece la parte sua, non con iscrivere, no, ma sibbene con gli sgherri, da’ quali fu condotto in prigione come un furfante. Guarda pazzo gusto, di farsi cacciare in prigione per iscrivere delle cattive ottave! — E che dite voi — diceva un altro — di quell ’altra castronaggine della Ropelleide, cioè quel sonetto da lui cosi intitolato, con una codaccia di tante centinaia di versi contro quel cristiano di don Domenico Repelli? Guarda contra chi andò a scriver versi! contra uno che non ha mai saputo a’ suoi di cosa sia poesia.

Questi furono a un di presso i discorsi che gli si fecero in sul viso quella seconda sera; e si parlò, come vedete, cosi [p. 21 modifica]chiaro, che non era punto bisogno nominarlo perché ognuno conoscesse che di lui a lui si parlava. Ed egli e il suo pecorino non belarono punto; e quando fummo stanchi di pestarlo e di ridere, ognuno lo piantò e lasciollo col Zanetti a mordere i catenacci a suo bell’agio e a maladir l’ora che aveva fatto il sonetto. Noi uscimmo tutti, motteggiando tuttavia e ridendo, della bottega, nella quale egli non si lasciò più vedere, imperciocché sparsa la fama di queste due comiche scene fatte a sue spese, ognuno gli rideva sul viso, sino i garzoni del caffettiere quando il vedevano passar di colà.

Che ne dite, amico, di questa mia leggiadra vendetta? parvi egli che si potesse far meglio? Ma basta per oggi: non vo’ scriver altro. Con un’altra saprete alcune altre coserelle del nostro eroe su questo medesimo argomento. Intanto state sano.

    Di Venezia, a di 9 settembre 1747.