Prefazioni e polemiche/I. Lettere di Giuseppe Baretti torinese ad un suo amico di Milano sopra un certo fatto del dottor Biagio Schiavo da Este (1747)/Lettera terza

Lettera terza

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I. Lettere di Giuseppe Baretti torinese ad un suo amico di Milano sopra un certo fatto del dottor Biagio Schiavo da Este (1747) - Lettera seconda II. Prefazioni alle tragedie di Pier Cornelio tradotte in versi italiani (1747-8)
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LETTERA TERZA


Sparsasi per Venezia in pochissimo tempo questa faccenda, e mostrata da più di dieci, mossi più che dall’amicizia loro per me dal puro amore della verità, infinita l’ignoranza dello Schiavo e di più la sua bricconesca maniera di procedere, e reso la favola di molti e di molti che gli andavano a ridere sul viso sino in piazza Sammarco e a rallegrarsi corbellevolmente seco del piacere che avevano di conoscerlo, il buon pre Biagio si dispose in qualche modo di rifarsi, e cominciò a ronzare intomo alle botteghe di caffè e a dir male de’ fatti miei, accusandomi fra l’altre cose d’aver io nimicizia col Petrarca, e che io sapeva ben l’arte di canzonare qualche poco in prosa, ma che al suo sonetto non mi sarebbe mai dato l’animo di rispondere, non sapendo io in che consistesse il vero stile bemiesco in cui egli me l’aveva fatto. Oh povero Bemi, oh il bel seguace che tu hai! Ahi, ahi, ahi, ahi! e quel fusto di quel suo Zanettino, con quella sua vocina piccina e tenerina, anch’egli andava dicendo: — Eh! sono cicale, cicale, e la vogliono pigliare col molto reverendo mio signor maestro, e non si ricordano ch’egli è una bestia quando e’ si caccia fra le dita quella penna e ch’e’ comincia a scrivere. Dio ne scampi i cani, quand’e’si fa a schiccherar carta, che de’ sonetti ne fa quaranta il giorno, e tutti con quattrocento versi di coda. Si alla fé, eh ’e’ li fa e li sa fare; e quello ch’e’fece di critica al Baretti, io sono stato testimonio di -ista che lo fece in men che non si dice amen, e poi io lo trascrissi di mia mano insieme con quello del Baretti, e poi li mandammo in una lettera ad un amico lontano da Venezia, e lo pregammo di mettere quella lettera alla posta, ed il Baretti se l’ha avuta. Ed appena l’ebbe, non so come diavol mai abbia saputo fare, è venuto francamente da Menegazzo a canzonare il molto reverendo signor maestro, e parlava tanto chiaro che sin io m’accorsi che parlava [p. 24 modifica]di lui, quantunque non lo nominasse per nome, e gli disse e gli fece dire da più d’uno della compagnia e asino e bufolo e peggio. E il molto reverendo mio signor maestro mi toccò con un piede che io tacessi; e certo quel Baretti, non mei sarei mai pensato, non so come abbia fatto a indovinar cosi subito che il molto reverendo mio signor maestro era l’autore di quel sonetto. Ma il Baretti ha bello e conoscere gli stili, che il molto reverendo mio signor maestro ha settantadue buoni anni e va pe’settantatré, ed il Baretti ne ha, cred’io, vintisette o vintiotto, onde non si può far paragone della poesia dell’uno con quella dell’altro, e solamente dagli anni si vede chiaramente che il molto reverendo mio signor maestro debb’essere tre volte quasi tanto poeta, come lui, avendo quasi tre volte tanti anni, come lui.

In questa o poco diversa maniera andava lo scuolarino secondando il molto reverendo suo signor maestro. E perché la schiera degli sciocchi è infinita, trovò pure alcuno ne’ primi giorni che gli prestava orecchi e che gli menava buona quella gran ragione de’ settantatré anni; ma noiate in pochi di quelle buone persone che gli ascoltavano, a forza di replicare sempre la medesima cantilena, il gran pre Biagio si risolvette di far qualche altro tentativo per racquistare quell’onore ch’egli aveva perduto, s’egli è pur vero ch’e’ n’abbia avuto mai.

Se ne andò dunque dal signor cappellano della chiesa San Gallo a pregarlo ch’e’ dicesse una parola al piovano di San Paterniano, poiché San Paterniano è la chiesa in cui serve il signor Lionardo Marcellotto, e la parola che lo pregò di dire al signor piovano era che interponesse e l’amicizia e l’autorità sua presso il Marcellotto perché questi cessasse dal canzonarlo, avendo sempre, diceva Biagio, sempre mostrata altissima stima del medesimo Marcellotto e parlato con lode delle sue poesie toscane e latine; e che non bramava d’essere stuzzicato e deriso ed obbligato a dover pigliare la penna in mano, perché quando e’ la pigliava, buona notte, gli si oscurava la mente e perdeva la ragione. (Qui diceva il vero il s&lvatico dottore in «lettre divine»: basta leggere il Filalete, la Ropelleide, la Facciolateide [p. 25 modifica]e l’altre cose sue che finiscono in «eide»). Ma il signor cappellano di San Gallo e il signor piovano di San Patemiano, inteso dal Marcellotto come la bisogna stava, non vollero più ascoltare lo Schiavo, e come uomini di senno e come veri religiosi altamente lo biasimarono (e il povero Schiavo s’avvide che neppur questa non era buona via), massimamente quando intesero la risposta data alla presenza di moltissime persone dal Marcellotto a que’ due religiosi: la qual fu ch’egli non solamente aveva sempre avuto tanto in dispregio lo Schiavo che non aveva mai voluto incontrar amicizia con esso lui, benché il lodasse; ma che da quest’ultimo sonetto al Baretti era mosso a pregargli entrambi di dirgli che non solamente avrebbe continuato ad averlo in quel dispregio ch’e’ meritava e per un solennissimo ignorante pedante, ma ancora per peggio che un pezzo d’asino senza creanza, e che su questi due punti sarebbe sempre stato disposto a scrivere il panegirico dello Schiavo.

Pochi giorni dopo quest’altro piccolo intermezzo, Io Schiavo andò a far visita ad un altro religioso; e perché il dente gli doleva, gli corse tosto su colla lingua, e volle cominciare a infinocchiarlo con alcune delle sue solite palpabili bugie; ma aveva che fare con uno, che oltre all’essere un uomo dabbene, era anche valente poeta e conosceva molto bene il carattere di pre Biagio e di sopra più era molto bene informato del suo furfantesco tratto; onde, con una dolcezza che è sua particolare e che è infinita, cominciò a fargli una predichina da missionario, e soavemente gli disse che le lettere ed i sonetti sporchi ed ingiuriosi non gli parevano punto da lodarsi, e che malissimo si conveniva, giusta il suo intendere, ad un uomo con un piede nella sepoltura e coli ’altro sull’orlo, e molto meno ad un sacerdote, il pensarne non che lo scriverne e mandarne a’ galantuomini; e che lo consighava anzi a procurare di spegnere il fuoco, prima che fosse grande, con qualche scusa; che non solamente cosi facendo avrebbe fatto il dovere d’un uomo onesto, il quale, quando ha la disgrazia d’errare, non debbe vergognarsi di confessare il suo errore e chiederne perdono; ma che ne avrebbe avuto ancora consolazione all’anima nell’ora della morte [p. 26 modifica]sua, che stante la soverchio avanzata età non poteva troppo essere lontana. — E come potete voi, caro il mio signor Biagio — gli soggiungeva, — farvi a celebrar la messa ogni giorno con di questi agnusdei sulla coscienza? Io mi vergogno di dirvi quello che vi dico, essendo voi tanto più vecchio di me che a voi toccherebbe far la lezione a me, e non a me il farla a voi; ma giacché la mala sorte vuole che voi ne abbiate bisogno, ricevetela di buon animo, fatevi coraggio e riparate, come già vi dissi, con qualche scusa, o in voce o in iscritto, al male che avete fatto, che io non ci vedo altro mezzo né via per acchetare questo vespaio troppo inconsideratamente da voi stuzzicato, e quello che più importa, per acchetare la vostra coscienza, che io suppongo non possa esser troppo tranquilla dopo d’avere cosi a sproposito detto in quel sonetto quello che non dovevate né potevate mai dire.

Questo fu il sermoncino che gli fece quel suo e mio dabbene amico; ma l’ostinato vecchio peccatore gli voltò le spalle, borbottando che sapeva tante cose del Baretti che ne avrebbe avuto da scrivere sei tomi in folio, e che gli avrebbe tosto tosto fatto sentire altro che lettere orbe e sonetti sporchi ed ingiuriosi. E scese le scale sbuffando e gittando fuoco dal naso e dalla bocca, infuriato come un asino di maggio.

Staremo ora ad aspettare que’ sei tomi in folio, che probabilmente saranno dialoghi, contra i fatti miei. Questo certamente sarà un gran regalo che il dottor da Este farà agli amatori delle lunghissime lunghissime lunghissime leggende, e li forbiculari non mancheranno più in eterno, se il suo buon genio fa che e’ trovi uno stampatore in qualche parte del mondo che gli stampi questa sua famosa futura opera, nella quale non si sdimenticherà fra le altre cose di porre in bocca agl’interlocutori, o sia a’ dialoghisti, un verso di Petrarca ogni quattro parole. E qui, giacché mi viene nominato Petrarca (giù il cappello, pre Biagio, che qui è Petrarca un’altra volta), egli bisogna che io vi dica che questo pazzo lodatore del Petrarca va gracchiando che io sono nimico di quel gran poeta, perché alcuna volta che io ho parlato o seco o con altri del Petrarca, ho detto, come dirò sempre, [p. 27 modifica]che in Petrarca v’hanno de’ pensieri e delle frasi e de’ versi ch’io ho per cattivi, come sarebbe a dire:

E mia giornata ho co’ suoi pie fornita. —
                         Le trist’onde
del pianto di che mai tu non se’ sazio. —
Con l’aura de’ sospir. —
Tal d’armati sospir conduce stuolo. —
                         Obblio nell’alma piove
d’ogn’altro dolce, e lete al fondo bibo. —
Io chiedere’ a scampar non arme, anzi ali. —
Tal che infiammar devria l’anime spente. —
Di pensier in pensier, di monte in monte. —
Fra la spiga e la man qual muro è messo. —
Dolce del mio pensier ora beatrice. —
Fior, frond’, erb’, ombr’, antr’, ond’, aure soavi. —
Ogni smeraldo avria ben vinto e stanco. —
Amor che a’ suoi le piante e i cori impenna. —
E duro campo di battaglia il letto. —
E Laura mia co’ suoi santi atti schifi. —
Con le ginocchia della mente inchine. —
Se Amore e Morte non dà qualche stroppio. —
Chi vuol far d’Elicona nascer fiume. —


Questi versi di Petrarca, verbigrazia, e non pochi altri della stessa lega, sono troppo palpabilmente o stracchi o affettati o viziosi nella espressione o falsi nel pensiero o che so io, e ad altri non possono piacere se non ad alcuno ignorante leggitore di quel poeta; e lo Schiavo, che si spaccia tanto petrarchista, è veramente un ignorante leggitore ed imitatore del Petrarca, se imitatori chiamar debbonsi, axizi che ladri, quei che rubano i centinaia di versi ad un autore per cacciarli nelle loro mal cucite poesie, come fa egli, che non sa fare un sonetto se non vi ficca dentro, o per amore o per forza, almeno almeno un verso del Petrarca. E manco male se il facesse più di rado e se sapesse scegliere il molto buono dal poco cattivo dal suo assassinato poeta: signor no, e’ va proprio a cavar fuori uno de’ peggiori versi [p. 28 modifica]del Canzoniere, e lo appicca collo sputo agli altri suoi, che per lo più non hanno che fare con quello, perché sono d’un ’altra sorte di cattiva poesia sua particolare. E mi ricordo d’aver già veduto in due de’ suoi sonetti quel verso citato di sopra:

Con le ginocchia della mente inchine;

tanto questa sguaiata metaforaccia gli è piaciuta, che due volte l’ha voluta rubar al Petrarca. Questa maniera d’imitar quell’autore ed i suoi cattivi versi è quello che io non approvo; che le bellezze del Petrarca, se qui fosse il luogo, molto meglio che messer Biagio io sapre’ notare, e molto meglio di lui e più a proposito laudarle; ma egli mò vorrebbe che si lodasse tutto, e per questo mi va spacciando nemico d’un poeta da me avuto in quel pregio che merita. Su questo particolare io potre’ ancora soggiungere che io sono scuoiare d’un miracoloso amator del Petrarca, il quale me ne fece sin da’ primi miei anni gustare le bellezze e scoprire i non pochi nei, benché poi pochissimi sieno in paragone delle moltissime bellezze; e potrei anco dire che e in verso e in prosa io ho lodato Petrarca, per sempre più mostrare che lo Schiavo mente per la gola quando dice che io sono nemico del Petrarca. Non voglio però portar altre prove di questa sua maligna poedca calunnia, perché basta leggere le cose mie, sieno in verso sieno in prosa, per esserne chiaramente convinto: parlo di chi ha studiato lettere toscane e se n’intende veramente, e non parlo di que’ balordi, che sentendo a rimenare tutto di Petrarca dallo Schiavo credono lo Schiavo un buon petrarchista, e sentendo me alcuna volta criticar qualche verso del Petrarca, benché nel medesimo tempo io poi lo lodi, mi vogliono pur credere nimico di quell’autore quando lo Schiavo il dice loro. Or lasciamo il Petrarca da una banda e torniamo allo Schiavo, contro del quale, se io volessi scriver prose o versi, avrei altro da dire che non dirà egli ne’ sei tomi in folio. Oh la bella storia che si farebbe, raccontando a minuto da quanti luoghi fu cacciato come un tristo, per quella sua linguaccia maldicente e per quelle sue non meno sciocche che bestiali poesie, che gli hanno guadagnata la malevolenza [p. 29 modifica]e rodio di tutta la gente veramente dotta e dabbene! E se volessi poi metterlo in ridicolo, non sarebb’egli un bell’argomento d’un capitolo alla berniesca il lamento che probabilmente e’ faceva nella prigione, dove il signor Facciolati lo fece stare tanti di a pane ed acqua? E se io volessi farmi imitatore del suo mal costume e scrivere sporcamente, come egli è solito scrivere, non si potrebbe e’ dire qualche galanteria sopra quella frasca merdosa del suo Zanettino, che mangia, bee e dorme seco lui? E potrei cavar fuori anch’io su questo particolare delle belle erudizioni greche, che forse farebbono più al proposito che noi fanno que’ testi greci ch’egli va citando di qua e di là, veramente da pedante come egli è, per ispacciar sempre l’erudito appresso gl’ignoranti. Ma viva pure quieto e dorma pure tranquillo le sue notti, che io non gli scrivo per Dio un verso contro s’è’ me ne prega, che io non voglio immortalare di questi gaglioffi animali. Addio, amico. Addio.