Polemiche relative al De antiquissima italorum sapientia/II. Prima risposta del Vico/II. Che la nostra metafisica è compita sopra tutta la sua idea

II. Che la nostra metafisica è compita sopra tutta la sua idea

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II. Che la nostra metafisica è compita sopra tutta la sua idea
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Che la nostra metafisica è compita sopra tutta la sua idea.

Idea compita di metafísica è quella nella quale si stabilisca l’ente e ’1 vero, e, per dirla in una, il vero Ente, talché non solo sia il primo, ma l’unico Vero, la meditazion del quale ci scorga all’origine e al criterio delle scienze subalterne; e che questo unico Vero si fermi contro i dogmatici, se mai in altra cosa il ripongono, e contro gli scettici, che non ammettono vero alcuno; — vi si tratti dell’idee che empirono tutte le pagine della metafisica platonica, e degli universali, materia perpetua della metafisica aristotelica; — e, perché in questa scienza si va investigando la prima causa, vi si fondi quale la sia; — e, trattandovi delle cose eterne ed immutabili, vi tenga il maggior e miglior luogo il ragionamento delle essenze e della sostanza, e vi si dimostri qual sia quella del corpo, quale quella della mente, e, sopra all’una e all’altra, qual sia la sostanza che tutto sostiene e muove. E. perché questa è la scienza che ripartisce i propri soggetti o le particolari materie a tutte le altre, da lei si derivino le prime definizioni nelle matematiche; i principi nella fisica; le proprie facoltá, per usar bene la ragione, nella logica; l’ultimo fine de’ beni, per unirvisi, nella morale. Queste sono tutte le linee che abbozzano il disegno di una intera metafisica, nella quale, come per buona proporzion del disegno, richiedesi che, scrivendosi da cittadino di repubblica cristiana, le materie si trattino acconciamente alla cristiana religione. Le origini delle voci volgari latine mi han messo avanti questo disegno, sopra il quale ho cosi meditato. Primieramente stabilisco un vero che si converta col fatto, e cosi intendo il «buono» delle scuole che convertono con l’«ente», e quindi raccolgo in Dio esser l’unico Vero, perché in lui contiensi tutto il fatto; e per questo istesso Iddio è il vero Ente, ed a petto di lui le cose particolari tutte veri enti [p. 208 modifica]

non sono, ma disposizioni dell’Ente vero. E, facendo servire questa sapienza de’ gentili alla cristiana, pruovo che, perché i filosofi della cieca gentilitá stimarono il mondo eterno ed Iddio sempre operante ad extra, essi convertivano assolutamente il vero col fatto. Ma, perché noi il credemo creato in tempo, dobbiamo prenderlo con questa distinzione: che in Dio il vero si converta ad intra col generato, ad extra col fatto; e che egli solo è la vera Intelligenza, perché egli solo conosce tutto, e che la divina Sapienza è il perfettissimo Verbo, perché rappresenta tutto, contenendo dentro di sé gli elementi delle cose tutte, e, contenendogli, ne dispone le guise o siano forme dall’infinito, e, disponendole, le conosce, ed in questa sua cognizione le fa. E questa cognizione di Dio è tutta la ragione, della quale l’uomo ne ha una porzione per la sua parte (onde fu detto da’ latini «animai partecipe di ragione»); e per questa sua parte non ha l’intelligenza, ma la cogitazione del tutto, che tanto è dire non comprende l’infinito, ma bene il può andar raccogliendo. Formata questa idea di vero, a quella riduco l’origine delle scienze umane, e misuro i gradi della lor veritá, e pruovo principalmente che le matematiche sono le uniche scienze che inducono il vero umano, perché quelle unicamente procedono a simiglianza della scienza di Dio, perché si han creato in un certo modo gli elementi con definir certi nomi, li portano sino all’infinito co’ postulati, si hanno stabilito certe veritá eterne con gli assiomi, e, per questo lor finto infinito e da questa loro finta eternitá disponendo i loro elementi, fanno il vero che insegnano; e l’uomo, contenendo dentro di sé un immaginato mondo di linee e di numeri, opera talmente in quello con l’astrazione, come Iddio nell’universo con la realitá. Per la stessa via procedo a dar l’origine e ’l criterio delle altre scienze e dell’arti. Quindi confuto non giá l’analisi, come voi ragguagliate, con la quale il Cartesio perviene al suo primo vero. Io l’appruovo, e l’appruovo tanto, che dico anche i Sosi di Plauto, posti in dubbio di ogni cosa da Mercurio, come da un genio fallace, acquetarsi a quello «sed quom cogito, equidem sani». Ma dico [p. 209 modifica]

che quel «cogito» è segno indubbitato del mio essere; ma, non essendo cagion del mio essere, non m’induce scienza dell’essere. Poi mi volgo contro gli scettici, e li meno lá dove gli sforzo a confessare darsi la comprensione di tutte le cause, dalle quali provengono gli etTetti che sembra loro vedere : la qual comprensione delle cagioni tutte io pongo per primo vero. Passo quindi a ragionare de’ generi o guise o modificazioni o forme, come si voglian dire, e delle specie o simulacri o apparenze, come appellar le volete ; e pruovo forme metafisiche esser le guise con le quali ciascheduna cosa particolare è portata all’attual suo essere da’ suoi principi, fin donde da prima si mossero e da ogni parte onde si mossero. E cosi la guisa vera di ciascheduna cosa è da rivocarsi a Dio; e per conseguenza i generi sono non per universalitá, ma per perfezzione infinid; e questo essere il brieve e vero senso del lungo ed intricato Parmenide di Platone; e questo intendimento doversi dare alla famosa «scala delle idee», onde i platonici pervengono alle perfettissime ed eterne. Confermo ciò dagli effetti, numerando strettamente i beni che le idee, i mali che gli universali portano all’umano sapere. Pruovo che le forme fisiche sono formate dalle metafisiche; e, poste al paragone, queste vere, quelle false si truovano; queste simulacri ed apparenze, quelle salde ed intere. Ma, perché gl’impronti poitano evidenza di sé, raziocinio di ciò che significano: perciò, mentre io considero la mia forma particolare posta nel mio pensiero, non ne posso dubitare in conto alcuno; ma, addentrandomi nella forma metafisica, truovo esser falso che io penso e che in me pensa Dio; e cosi intendo in ogni forma particolare esser l’impronto di Dio. Ma, riflettendo che i generi sono nelle scuole detti «materia metafisica», osservo esser ciò detto sapientemente, se il detto in questo sentimento si prenda: che la forma metafisica consista in esser nuda di ogni forma particolare, cioè a dire che ella riceva tutte le particolari forme con tutta la faciltá ed acconcezza; e quindi raccoglio la forma a cui debba il saggio conformar la sua mente. Prosieguo il cammino e pruovo che vera, anzi unica causa è quella che per produrre l’effetto non ha di altra bisogno, [p. 210 modifica]

come quella la qual contiene dentro sé gli elementi delle cose che produce, e gli dispone, e si ne forma e comprende la guisa, e, comprendendola, manda fuori l’effetto. Questa definizione della causa, non istabilita in metafisica, ha fatto cader molti in moltissimi errori, che hanno opinato Dio oprar come un fabro e le cose create esser d’altre cose cagioni, e non piú tosto parti delle guise che comprende la mente eterna di Dio. Ma non è da trallasciarsi quello: che, per non essersi considerata la vera causa, comunemente sono stimate le matematiche essere scienze contemplative, né pruovar dalle cause; quando esse sole tra tutte sono le vere scienze operatrici e pruovano dalle cause, perché, di tutte le scienze umane, esse unicamente procedono a simiglianza della scienza divina. Infin qua si è formato il capo della nostra metafisica: ora succede il corpo, per cosi dire, ed entro nel vasto campo dell’«essenze», e col lume delle veritá geometriche, acceso al fonte d’ogni lume dell’umano sapere, dico la metafisica, fo vedere l’essenza (perocché il nulla non può cominciare né finire ciò che è, e ’l dividere è in certo modo finire), fo vedere, dico, l’essenza consistere in una sostanza indivisibile, e che altro non è che una indefinita virtú o uno sforzo dell’universo a mandar fuori e sostener le cose particolari tutte; talché l’essenza del corpo sia una indefinita virtú di mantenerlo disteso, la quale a cose distese, quantunque disugualissime, vi sia sotto egualmente; e questa istessa sia indefinita virtú di muovere, che egualmente sta sotto a moti quanto si voglia inuguali ; la qual virtú eminentemente è atto in Dio. Onde proviene che con somma proporzione si corrispondano, quinci Dio, materia e corpo; quindi quiete, conato e moto; e Iddio, atto semplicissimo, perché tutto perfezzione, gode vera quiete; la materia è potenza e sforzo; i corpi, perché costano di materia che in ogni punto e, in conseguenza, in ogni istante si sforza, e, impedendosi l’un l’altro gli sforzi per la continuitá delle parti, si muovono: talché moto altro non è che sforzo impedito, che, se esplicar si potesse, anderebbe nell’infinito a quietarsi, e si ritornerebbe a Dio, donde è uscito. Per tutto ciò la sostanza dagli antichi filosofi [p. 211 modifica]

italiani, in quanto è virtú di sostenere il disteso, fu detta «punctum»; in quanto di sostenere il moto, «momentum»: l’uno e l’altro da essi preso per una cosa stessa, e per una cosa stessa indivisibile. Ed in si fatta guisa vendico alla filosofia d’Italia i punti di Zenone, e li sincero da’ sinistri sentimenti dati loro da Aristotele, seguitato in ciò da Renato; e gli fo vedere essere di gran lunga altra cosa da quella che finora è stata intesa: che non giá il corpo fisico costi di punti geometrici (onde fu ricevuta con tanto credito l’obbiezzione: «Punctum addiium puncto non facit extensum»); ma, come il punto geometrico, perché è stato definito non aver parti, ci dá le dimostrazioni che le linee altrimente incommensurabili si tagliano eguali ne’loro punti; cosi in natura siavi una sostanza indivisibile, che egualmente sta sotto a’ saldi stesi inuguali: talché il punto geometrico sia un esempio o somiglianza di questa metafisica virtú, la quale sostiene e contiene il disteso, e perciò da Zenone fu «punto metafisico x> nominata; peroché, con questa similitudine, e non altrimente, possiamo ragionare dell’essenza del corpo, perché non abbiamo altra scienza umana che quella delle matematiche, la qual procede a simiglianza della divina. La serie di queste cose mi mena a ragionare de’ «momenti» e de’ «moti», per quanto a metafisico s’appartiene. E pruovo non isforzarsi le cose stese, ma bensí muoversi; perché i punti sono i principi de’ moti, e i principi de’ moti sono i momenti. Che non si diano moti retti in natura, ma che gli sforzi siano a’ moti retti, e che i moti sono composti di sforzi a’ retti. E immaginare i corpi muoversi drittamente per lo vano, è di mente imbevuta dell’errore degli spazi imaginari ; perché non solo non si moverebbero a dirittura nel vano, ma non si moverebbero, anzi non sarebbero affatto, perché in tanto i corpi costano e sono corpi, in quanto l’universo col pieno suo gli sostiene, nel pieno suo gli contiene. Che in natura non si dia quiete, perché gli sforzi sono la vita della natura, e ’l conato non è quiete. Finalmente, che i moti non si comunicano; perché, essendo il moto corpo che si muove, il comunicarsi i moti sarebbe [p. 212 modifica]

quanto che i corpi si penetrassero; e ’1 fingere il corpo mosso portarsi dietro, tutto o in parte, il moto del corpo movente, è molto piú che finger l’attrazzione. Ragionato della «sostanza distesa» e del «moto», passo alla «cogitante», e tratto dell’«anima» o della vita, dell’«animo» o sia del senso, e dell’aria o etere, detta da’ latini «anima»; e pruovo che l’aere del sangue è il veicolo della vita, quel de* nervi del senso; e che non giá (come ragguagliate) il moto de’ nervi si debba al sangue, ma il moto del sangue a’ nervi, dovendosi al cuore, che è un intiero muscolo e un’opera reticolata, moltiforme d’innumerabili nervicciuoli. Tento che l’opinione dell’anima de’ bruti fosse conosciuta ed approvata dagli antichi filosofi d’Italia, che appellarono «brutum» l’immobile. Ragiono della sede deU’animo, cioè dove principalmente faccia i suoi uffici, e l’allogo nel cuore. Cosi, compita la dottrina dell’una e dell’altra sostanza, passo a vedere della mente o sia del pensiero; e qui noto Malebrance, che vuole Iddio creare in noi l’idee, che è tanto dire quanto che Iddio pensa in noi, e dá nel primo Vero di Renato, ed ammette per vero che «ego cogito». Ragiono della libertá dell’arbitrio umano e della immutabilitá de’ divini decreti, e come insieme compongansi. Come appendici di queste cose mi si offeriscono le facultá dell’animo; ed essendo la facultá una prontezza di operare, ne raccolgo che l’animo con ciascuna facultá si faccia il suo proprio soggetto: come i colori col vedere, gli odori col fiutare, i suoni con l’udire, e cosi delle altre. Ragiono della memoria e della fantasia, e fermo che sono una medesima facultá. Poi, derivando da si fatti principi la particolar facultá del sapere, dico esser lo ingegno, perché con questa l’uomo compone le cose, le quali, a coloro che pregio d’ingegno non hanno, sembravano non aver tra loro nessun rapporto. Onde l’ingegno umano nel mondo delle arti è, come la natura nell’universo è l’ingegno di Dio. Con ciò discorro delle tre operazioni della [p. 213 modifica]

mente umana, e do tre arti per regolarle: topica, critica e metodo: «arti», io dissi, e non «facultá» (come voi ragguagliate), perché la facultá è quella che è indrizzata, regolata ed assicurata dall’arte. E qui, del metodo ragionando, propongo i vantaggi della sintesi sopra l’analisi, perché quella insegna la guisa di far il vero, questa va tentone trovandolo. Finalmente mi fermo in contemplare il sommo Facitore; e fo vedere che lo sia «Nume», perché col cenno o, per meglio dire, con l’istantaneo operare vuole, col fare parla: talché le opere di Dio sono i suoi parlari, che dissero «Fati»; con le uscite delle cose fuor della nostra opinione, è «Caso»; e, perché tutto ciò che fa è buono per l’universo, è «Fortuna». E da questa metafisica fo sparsamente vedere qualmente la geometria e l’aritmetica ne prendono certi finti indivisibili: quella il punto che si disegna, e questa l’uno che si multiplica: sopra le definizioni de’ quali due nomi la matematica appoggia tutta la gran mole delle sue dimostrazioni. Similmente la meccanica ne ha preso l’indivisibil virtú del muovere, il momento o il conato; e, fingendolosi ne’particolari corpi, vi innalza sopra le sue macchine. La fisica ne prende i punti metafisici, cioè l’indivisibil virtú dell’estensione e del moto; e da’ punti e da’ momenti per termini di meccanica, o sia di macchine, procede a trattare del suo proprio soggetto, che è il corpo mobile. La morale ne prende l’idea della perfetta mente del saggio: che sia informe d’ogni particolare idea o suggello, e che con la contemplazione e con la pratica dell’umana vita si meni come pasta, e si renda mollissima, per cosi dire, a ricevere facilmente gl’impronti delle cose con tutte le ultime lor circostanze. Onde provenga quella inditTerenza attiva del saggio, quella capacitá in comprendere molti e diversi affari, quella destrezza nell’operare, quel giudizio delle cose secondo il loro merito, e finalmente quel dire e quel fare cosi proprio, che, per quanto altri vi pensi, non possa piú acconciamente né dir né fare; onde tanto si commendano i detti e i fatti memorabili degli uomini sapienti. [p. 214 modifica] 214 IV - polemiche: relative al «DE antiquissima» Da questi stessi principi di metafisica si asserisce e si conferma la veritá alle matematiche, e si esplica la cagione perché gli uomini communemente si acquetano alle sue dimostrazioni ; perché in quelle essi sono l’intera causa degli effetti che operano, essi comprendono tutta la guisa come operano, e si fanno il vero in conoscerlo. E da questi stessi principi, e non altronde, nasce la ragione onde gli uomini pur si acquetano a quella fisica, la quale fa vedere le cose meditate con gli sperimenti, che ci diano apparenze simili a quelle che ci dá la natura: sicché la fisica si contenta delle apparenze, delle quali la metafisica sa le cagioni ; e la razionai meccanica, promossa da fior d’ingegno, si studia lavorarvi le simiglianze. Ma, quel che sopra ogni altra cosa piú importa, serve alla teologia cristiana, nella quale professiamo un Dio tutto scevero da corpo, nel quale tutte le virtú delle particolari cose si contengono, e in lui sono purissimo atto, perché egli solo è atto infinito, ed in ogni cosa finita, quantunque menoma, mostra la sua onnipotenza; onde è tutto in tutto, e tutto in quanto si voglia menoma parte del tutto. Questo è il ristretto, o, per meglio dire, lo spirito della nostra metafisica, tutto brievemente compreso, senza far bisogno ch’il ristretto uguagli la mole del libro. Dal quale ogni dotto può agevolmente fare adeguato concetto, come tutte le cose cospirino in un sistema di metafisica giá compiuta: e non, con un mozzo e confuso ragguaglio, porre altri, che non han letto il mio libricciuolo, in opinione che la sia piú tosto un’idea. Oltreché, dovean ritenervi a fare cotal giudizio le «innumerabili speculazioni, di che — voi medesimo dite — ogni linea, non che pagina essere affoltata»; e che dove io ho speso tanti pensieri, io non abbia avuto in animo darne un disegno, che, quantunque vasto, si può con poche linee abbozzare, ma che io abbia in effetto voluto dare un’opera giá compita. E mi perdoni pure che, senza che io il meriti, Ella mi tratti da uomo, che con titoli magnifici voglia destare la curiositá ne’ dotti, e poi fraudare la loro espettazione. Ma, cheché siane stata di ciò [p. 215 modifica]

la cagione, io devo e voglio, particolarmente con voi, pregiatissimo signor mio, prenderla in buona parte, e che a voi, per la picciolezza del libricciuolo, sia paruta un’idea. Ma era pur vostro il considerare che gli scrittori utili alla repubblica delle lettere si riducono a due sorti. Una è di coloro che vogliono giovare la gioventú; ed a costoro è necessario esplicar le cose da’ primi termini, esporre spianatamente le altrui opinioni, e rapportarne tutte le ragioni appuntino, o per fondarsi in quelle o per confutarle; indi addurre alcuna cosa del loro in mezzo, e farne vedere tutte le conseguenze, e raccórne sino agli ultimi corollari. E questi sono i voluminosi; e, in rapportargli, è lecito, anzi debito trasandare moltissime cose, cioè dire, tutto l’altrui. Altri sono che non vogliono gravare l’ordine de’ dotti di piú fatica, né obbligargli che, per leggere alcune poche lor cose, abbiano a rileggere le moltissime che hanno giá lette in altrui ; e costoro mandali fuori alcuni piccioli libricciuoli, ma tutti pieni di cose proprie. Io sonmi studiato essere in questa seconda schiera: se l’abbia conseguito, il giudizio è de’ dotti. Se non pure, perché il soggetto della nostra metafisica sono i punti metafisici, e voi avrete stimato poco o nulla appartenervi, onde nel ragguaglio ve ne passate seccamente, dicendo: «ragiona de’ punti metafisici», né altra parola ne fate; perciò a voi forse avrá partito un’idea. Ma in questa maniera che io fo, parlano gli uomini, non le cose; del che ormai punto non mi diletto: onde volentieri passo al terzo vostro dubbio.