Polemiche relative al De antiquissima italorum sapientia/II. Prima risposta del Vico/III. Che niuna cosa proposta manca di pruova

III. Che niuna cosa proposta manca di pruova

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II. Prima risposta del Vico - II. Che la nostra metafisica è compita sopra tutta la sua idea III. Secondo articolo del Giornale de' letterati d'Italia

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III

Che niuna cosa proposta manca di pruova.

Voi dite che vi sono moltissime cose che vi sembrano aver bisogno di pruova. È il giudizio in termini troppo generali; e gli uomini gravi non hanno mai di risposta degnato, se non le particolari e determinate opposizioni che loro sono fatte. Con tutto ciò, per l’onore in che devo avervi, voglio far la ricerca, e vedere delle moltissime incontrarne qualcuna. Un luogo può esser quello: che ciò che contiene gli elementi delle cose, e le guise come son fatte, e in conseguenza le cose stesse, non pruovasi che sia mente; ed un gentile filosofo potrebbe dire che Io sia un infinito corpo moventesi. Ma a costui sta risposto lá dove dico che, siccome l’uno, virtú del numero, genera il numero e non è numero; cosi il punto, virtú dell’estensione, fa il disteso, né è disteso. Al qual esempio or io aggiungo che ’l conato, virtú del moto, produce il moto, né però è moto. Ma replicherá costui: non aver altra idea che di estensione e di moto; e prima dell’estensione ha idea del suo pensiero, peroché il pensiero sia il moto particolare che ’l costituisca nell’esser uomo; e perciò non poter ragionare delle altre cose per altri principi che di estensione e di moto. E pure a ciò sta risposto ove notammo che tanto Aristotile pecca in trattare la fisica metafisicamente per potenze ed infinite virtú, quanto Renato, che tratta fisicamente la metafisica per atti e per forme finite. E la ragion dell’errore d’entrambi è una: perché amendue trattarono delle cose con regola infinitamente sproporzionata. Perciò Zenone non portò a dirittura l’una nell’altra, ma vi frappose la geometria, che sola è quella scienza che tratta infiniti ed eterni finiti, e col suo aiuto ne ragionò. Perché l’essenza è una ragion d’essere: il nulla non può cominciare né finir ciò che è, e in conseguenza noi può dividere, perché il dividere è in un certo modo finire. Dunque [p. 217 modifica]

l’essenza del corpo consiste in indivisibile; il corpo tuttavia si divide: dunque l’essenza del corpo corpo non è: dunque è altra cosa dal corpo. Cosa è dunque? è una indivisibil virtú, che contiene, sostiene, mantiene il corpo, e sotto parti disuguali del corpo vi sta egualmente; sostanza, della quale è solamente lecito ragionare per principi di quella scienza umana che unicamente si assomiglia alla divina, e perciò unica a dimostrare l’umano vero. Per questa via tentando ragionarne il gran Galileo nel primo Dialogo della scienza nuova , dalle amenissime dimostrazioni, che ne fa, è costretto a prorompere in si fatte parole: «Queste son quelle difficoltá che derivano dal discorrere che noi facciamo col nostro intelletto finito intorno agl’infiniti, dandogli quegli attributi che noi diamo alle cose finite e terminate: il che penso che sia inconveniente, perché stimo che questi attributi di maggioranza, minoritá ed egualitá non convengano agl’infiniti, de’ quali non si può dire uno esser maggiore o minore o eguale dell’altro». E, poco innanzi, ingenuamente confessa perdersi «tra gl’infiniti e gl’indivisibili». Mirò Galileo la fisica con occhio di gran geometra, ma non con tutto il lume della metafisica, e perciò stimò l’indivisibile altro dall’infinito, e parla di piú infiniti. Non sono piú infiniti, ma uno in tutte le sue finite parti, quanto si voglia inuguali, uguale a se stesso. Uno è l’indivisibile, perché uno è l’infinito, e l’infinito è indivisibile, perché non ha in che dividersi, non potendo dividerlo il nulla. Qui appunto costui mi aspetterá, come al varco, e risponderammi che tutto ciò ben si avvera in un corpo infinito; e che lo sia indivisibile, perché non vi sia vano o vuoto in che divider si possa. E questo varco pure è stato innanzi osservato da noi: perché, quantunque ci abbandoniamo nella vasta fantasia d’un infinito corpo, però il corpo di un picciolissimo granello d’arena non è infinito, e pure contiene una virtú infinita di estensione; per la quale voi, dividendolo, andarete all’infinito. Questo è quel che io dissi, dove ragiono che Aristotile sconviene da Zenone in cose diverse, conviene nel medesimo: egli parla di divisione [p. 218 modifica]

del corpo, che è moto ed atto; Zenone parla di virtú, per la quale ogni corpicciuolo corrisponde ad una estensione infinita. Dividete attualmente un granello d’arena: sempre vi resta a dividere; ma parla ciò che non pensa colui che per ciò dica: — Il granello di arena è un corpo d’infinita estensione e grandezza; — perché all’idea del granello sta attaccata una picciola estensione, e l’idea di una estensione indefinita è tutta ingombrata dall’universo. Questo è quel che io dico in piú luoghi: che sono mal consigliati coloro i quali le cose formate voglion far regola delle informi. Ma allo incontro è parlare alle cose conforme, il dire: — Nel granello di arena vi ha una cotal cosa, che, dividendo voi tuttavia quel picciolo corpicello, vi dá e vi sostiene una infinita estensione e grandezza; si che la mole dell’universo nel corpo del granello di arena non vi è in atto, ma in potenza, in virtú. — Questo io medito esser lo sforzo dell’universo: che sostiene ogni picciolissimo corpicciuolo, il quale non è né l’estensione del corpicciuolo, né l’estensione dell’universo. Questa è la mente di Dio, pura di ogni corpolenza, che agita e muove il tutto. Ma costui persisterá, dicendo aver piú evidenza del pensiero e dell’estensione che di qualunque dimostrazion geometrica; e, in conseguenza, queste idee dover esser regola di tutto l’umano sapere. Ed a ciò sta risposto ancora, ove si è detto che ’l conoscere chiara e distintamente è vizio anziché virtú dell’intendimento umano; ed ove si è pruovato che le forme fisiche sono evidenti, finché non si pongono al paragone delle metafisiche ; ed ove questo istesso si è confirmato, che, finché considero me, son certissimo che, «se io penso, ci sono», ma, addentrandomi in Dio, che è l’unico e vero Ente, io conosco veramente non essere. Cosi, mentre consideriamo l’estensione e le sue tre misure, stabiliamo nel mondo dell’astrazzioni veritá eterne; ma in fatti Caelum ipsum petimus stultitia, perché solamente l’eterne veritá sono in Dio. Tenemo a conto d’eterna veritá «il tutto è maggior della parte»; ma, ritornati a’ principi, ritroviamo falso l’assioma, e vediamo dimostrata [p. 219 modifica]

tanta virtú di estensione nel punto del cerchio, per cagion d’esempio, quanta ve ne ha in tutta la circonferenza, attraversando linee per lo centro, che da tutti i punti della circonferenza siano menate. Conchiudiamla: in metafisica colui avrá profittato, che nella meditazione di questa scienza abbia se stesso perduto. Sará forse altro luogo quello ove non sembri pruovata la libertá dell’umano arbitrio, posta l’infallibilitá de’ divini decreti. Ma non devo stimarlo del vostro grande ingegno, che, in leggendo lá dove io pruovo che i moti non si communicano, non abbia facilmente avvertito una simiglianza come ciò possa stare, poiché d’incomprensibil misterio non possiamo ragionare altamente. Onde credo bene eh’Ella agevolmente abbia rapportato ciò, che ragiono de’ movimenti de’corpi, a quel degli animi; e, come il movimento comune dell’aria diventa proprio e vero moto della fiamma, della pianta, della bestia, mercé delle particolari macchine onde ciascuna di queste cose particolari ha la propria sua forma; cosi il divin volere diventa proprio e vero moto della nostra volontá, mercé dell’anima nostra, che è la forma particolare di ciascun di noi: talché ogni nostro volere sia insiememente vero e proprio nostro arbitrio e decreto infallibile del sommo Iddio. Ma a ciò par che contrasti quel che i latini sentirono de’ bruti, che gli vollero «immobili». In risposta potrei dire che gli dissero «immobili», perché gli guardarono come mossi dall’aria, e non come moventisi da sé, ma, per quello che abbiamo poc’anzi ragionato, non perché mossi dall’aria, si toglie loro il muoversi per se stessi. Io però non entro a sostenere cota! sentenza, che i piú fidi interpreti della mente del Cartesio stimano essere una bellissima favola e solamente da commendarsi per l’acconcezza della sua tessitura. Ma certamente a voi avrá paruto proposto e non provato che i corpi non si sforzano. E vi avrá a ciò spinto la comune de’ cartesiani, che pongono per prima base della loro fisica «i corpi sforzarsi andar lontani dal centro». Ma uno è lo sforzo dell’universo, perché dell’universo, ed è l’indivisibile, centro che non è lecito truovare nell’universo, [p. 220 modifica]

e che, dentro le linee della sua direzzione, tutti i disuguali pesi sostenendo con egual forza, tutte le particolari cose sostiene insiememente ed aggira b). Questa è la sostanza che si sforza mandar fuori le cose per le vie piú convenevoli alla sua somma potenza, le brevissime, le rette; ed, impedita dalla continuitá de’ corpi, gli muove in giro; e, dovunque e comunque può esplicare la sua attivitá, forma proporzionata diastole e sistole, per la quale le cose tutte hanno le loro forme particolari : tanto che non è de’ corpi lo sforzo allontanarsi dal centro, ma è del centro sostenere a tutta sua possa le cose. Ma i meccanici s’han finto questo conato ne’ corpi, perché niuna scienza bene incomincia se non dalla metafisica prende i principi, perché ella è la scienza che ripartisce alle altre i loro propri soggetti, e, poiché non può darle il suo, dá loro certe immagini del suo. Onde la geometria ne prende il punto, e ’l disegna; l’aritmetica l’uno, e ’l moltiplica; la meccanica il conato, e l’attacca a’ corpi: ma, siccome né il punto che si disegna è piú punto, né l’uno che si moltiplica è piú uno, cosi il conato de’ corpi non è piú conato. Io non so ad altro pensare. Se non forse voi dubbitate di quello: come l’essenza sia metafisica e 1’esistenza fisica cosa. Confesso in veritá non averlo dedotto da’ principi della latina favella; ma egli in fatti da que’ principi deriva. Perché «existere» non altro suona che «esserci», «esser sorto», «star sovra», come potrei pruovarlo per mille luoghi di latini scrittori. Ciò che è sorto, da alcuna altra cosa è sorto; onde Tesser sorto non è proprietá de’principi. E per Tistessa cagione non la è lo star sovra; perché il sovrastare dice altra cosa star sotto, e i principi non dicono altra cosa piú in lá di se stessi. Per contrario. l’essere è proprietá de’ principi, perché Tessere non può nascer dal nulla. Dunque sapientemente gli scrittori della bassa latinitá dissero, ciò che sta sotto, «sostanza», nella quale noi abbiamo riposto la vera essenza. Ma in quella proporzione che la sostanza tiene ragion di essenza, gli attributi tengono quella (i) Le quali due azziuni i latini dissero, con un sol verbo, «torqueo»•. Axem humero torquet stellis ardentibus aptum. [p. 221 modifica]

dell’esistenza. L’essenza noi pruovammo esser materia metafísica, cioè virtú. Dunque può ciascun per sé trarne le conseguenze: la sostanza è virtú; gli attributi sono esistenza ed atti della virtú. E qui non posso non notare che con impropri vocaboli Renato parla, ove medita: «Io penso, dunque sono». Avrebbe dovuto dire: «Io penso, dunque esisto»; e, presa questa voce nel significato che ci dá la sua saggia origine, avrebbe fatto piú brieve cammino, quando dalla sua esistenza vuol pervenire all’essenza, cosi: «Io penso, dunque ci sono». Quel «ci» gli avrebbe destato immediatamente questa idea: «Dunque vi ha cosa che mi sostiene, che è la sostanza; la sostanza porta seco l’idea di sostenere, non di essere sostenuta; dunque è da sé; dunque è eterna ed infinita; dunque la mia essenza è Iddio che sostiene il mio pensiero». Tanto importano i parlari, de’ quali sieno stati autori i sapienti uomini, che ci fan risparmiare lunghe serie di raziocini. E per queste istesse ragioni egli è da notarsi ancora, quando dall’esistenza sua vuole inferire Resistenza di Dio. Impropriamente esplica la sua pietá; perché da ciò, che io esisto, Dio non esiste, ma è: e per li nostri ragionati principi di metafisica Resistenza mia si truova falsa, quando si è pervenuto da quella a Dio: perché ella non è in Dio, a ragione che Resistenza delle create cose è essenza in Dio. Iddio non ci è, ma è; perché sostiene, mantiene, contiene tutto; da lui tutto esce, in lui tutto ritorna. Questa è la ricerca che, per soddisfarvi, ho fatto delle moltissime cose che a voi sembrano aver bisogno di pruova. Non so vedere le altre: priegovi a farmene accorto, ma insiememente a considerare queste tre cose: 1. che per «vera cagione» intendo quella che per produrre l’effetto non ha di altra bisogno; 2. che la guisa, onde ciascuna cosa si forma, si ha a ripetere onde furono mossi gli elementi da prima e da tutte le parti dell’universo; 3. che la virtú è lo sforzo del tutto, col quale manda fuori e sostiene ogni cosa particolare. Veda non le vostre difficultá tutte si possano sciogliere, con farsi da capo ad una o a tutte e tre queste definizioni, e poi le mi scriva. E divotamente vi riverisco. [p. 222 modifica]