Poesie (Parini)/IV. Le odi/XVII. La gratitudine

XVII. La gratitudine

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XVII

LA GRATITUDINE

(Per il Cardinal Angelo Maria Durini)

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Magnimi hoc ego duco quod
     placui tibi.


     Parco di versi tessitor ben fia
che me l’Italia chiami;
ma non sará che infami
taccia d’ingrato la memoria mia.
5Vieni, o cetra, al mio seno;
e canto illustre al buon Durini sciogli,
cui di fortuna dispettosi orgogli
duro non stringon freno;
si che il corso non volga ovunque ei sente
10non ignobil favilla arder di mente.
     Me pur dall’ombra de’ volgari ingegni
tolse nel suo pensiero;
e con benigno impero
collocò repugnante in fra i piú degni.
15Me fatto idolo a lui
guatò la Invidia con turbate ciglia;
mentre in tanto splendor gran meraviglia
a me medesmo io fui:
e sdegnoso pudor il cor mi punse,
20che all’alta cortesia stimoli aggiunse.

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Solenne offrir d’ambiziose cene,
onde frequente schiera
sazia si parta e altera,
non è il favor di che a bearmi ei viene.
25Mortale a cui la sorte
cieco diede versar d’enormi censi,
sol di tai fasti celebrar sé pensi
e la turba consorte.
Chi sovra l’alta mente il cor sublima
30meglio sé stesso e i sacri ingegni estima.
Cetra il dirai; poi’ che a mostrarsi grato,
fuor che fidar nell’ali
de la fama immortali,
non altro mezzo all’impotente è dato.
35Quei, che al fianco de’ regi
tanto sparse di luce e tanto accolse,
fin che le chiome de la benda involse
premio di fatti egregi,
a me, che l’orma umil tra il popol segno,
40scender dall’alto suo non ebbe a sdegno.
E spesso i lari miei, novo stupore!
vider l’ostro romano
riverberar nel vano
dell’angusta parete almo fulgore:
45e di quell’ostro avvolti
vider natia bontá, clemente affetto,
ingenui sensi nel vivace aspetto
alteramente scólti;
e quanti alma gentil modi ha piú rari,
onde fortuna ad esser grande impari.
50Qual nel mio petto ancor siede costante
di quel di rimembranza,
quando in povera stanza
l’alta forma di lui m’apparve innante!
55Sirio feroce ardea:

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     ed io, fra l'acque in rustic’urna immerso,
e a le naiadi belle umil converso,
oro non giá chiedea
che a me portasser dall’alpestre vena,
60ma te, cara salute, al fin serena.
     Ed ecco, i passi a quello dio conforme
cui finse antico grido
verso il materno lido
dal Xanto ritornar con splendid’orme,
65ei venne; e al capo mio
vicin si assise; e da gli ardenti lumi
e da i novi spargendo atti e costumi
sovra i miei mali oblio,
a me di me tali degnò dir cose,
70che tenerle fia meglio al vulgo ascose.
     Io del rapido tempo in vece a scorno
custodirò il momento,
ch’ei con nobil portento
ruppe lo stuol che a lui venia d’intorno;
75e solo accorse; e ratto,
me, nel sublime impaziente cocchio
per la negata, ohimè! forza al ginocchio
male ad ascender atto,
con la man sopportò, lucidi dardi
80di sacre gemme sparpagliante a i guardi.
     Come la Grecia un di gl’incliti figli
di Tindaro credette
agili su le vette
de le navi apparir pronti a i perigli;
85e di felice raggio
sfavillando il bel crin biondo e le vesti,
curvare i rosei dorsi; e le celesti
porger braccia, coraggio
dando fra balte minacciatiti spume
90al trepido nocchier, caro al lor nume:

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     tale in sembianti ei parve oltra il mortale
uso benigni allora;
onde quell’atto ancora
di giocondo tumulto il cor m’assale:
95ché la man, ch’io mirai
dianzi guidar l’amata genitrice,
ahi! prima del morir tolta infelice
del sole a i vaghi rai,
e tolta dal veder per lei dal ciglio
100sparger lagrime illustri il caro figlio:
     quella man che gran tempo, a lato a i troni
onde frenato è il mondo,
di consiglio profondo
carte seppe notar propizie a i buoni:
105quella che, mentre ei presse
de le chiare provincie i sommi seggi,
grate al popol donò salubri leggi;
quella il mio fianco resse,
insigne aprendo a la fastosa etade
110spettacol di modestia e di pietade.
     Uomo, a cui la natura e il ciel diffuse
voglie nel cor benigne,
qualor desio lo spigne
l’arti a seguir de le innocenti Muse,
115il germe in lui nativo
con lo aggiunto vigor molce ed affina,
pari a nobile fior, cui cittadina
mano in tiepido clivo
educa e nutre, e da piú ricche foglie
120cara copia d’odori all’aria scioglie.
     Costui, se poi d’intorno a sé conteste
d’onori e di fortuna
fulgide pompe aduna,
pregiate allor che a la virtú son veste,
125costui de’ propri tetti

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suo ritroso favor giá non circonda;
ma con pubblica luce esce e ridonda
sopra gl’ingegni eletti,
destando ardor per le lodevol’opre
130che le genti e l’etá di gloria copre.
     Non va la mente mia lungi smarrita
co i versi lusinghieri;
ma per vari sentieri
dell’inclito Durili l’indole addita:
135e, come falco ordisce
larghi giri nel ciel, vólto a la preda;
tal, ben che vagabondo altri lo creda,
me il mio canto rapisce
a dir com’egli a me davanti egregio
140uditor tacque; ed al liceo diè pregio;
     quando, dall’alto disprezzando i rudi
tempi a cui tutto è vile
fuor che lucro servile,
solo de’ grandi entrar fu visto; e i nudi
145scanni repente cinse
de’ lucidi spiegati ostri sedendo;
e al giovane drappel, che a lui sorgendo
di bel pudor si tinse,
lene compagno ad ammirar sé diede;
150e grande a i detti miei acquistò fede.
     Onde osai seguitar del miserando
di Lábdaco nipote
le terribili note
e il duro fato e i casi atroci e il bando;
155quale all’attiche genti
giá il finse di colui l’altero carme
che la patria onorò trattando l’arme
e le tibie piagnenti;
e de le regie dal destiti converse
160sorti e dell’arte inclito esempio offerse.

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          Simuli quei, che piú sé stesso ammira,
fuggir l’aura odorosa
che da i labbri di rosa
la bellissima Lode a i petti inspira;
165Lode, figlia del cielo,
che, mentre a la Virtú terge i sudori,
e soave origlier spande d’allori
a la Fatica e al Zelo,
nuove in alma gentil forze compone;
170e, gran premio dell’opre, al meglio è sprone.
Io non per certo i sensi miei scortese
di stoico superbo
manto celati serbo,
se propizia giá mai voce a me scese.
175Né asconderò che grata
ei da le labbra melodia mi porse,
quando facil per me grazia gli scorse
da me non lusingata;
poi che tropp’alto al cor voto s’imprime
180d’uom che ingegno e virtudi alzan sublime.
     Pur, se lice che intero il ver si scopra,
dirò che piú mi piacque
allor che di me tacque,
e del prisco cantor fe’ plauso all’opra.
185Sorser le giovanili
menti, da tanta autoritá commosse:
súbita fiamma inusitata scosse
gli spiriti gentili,
che con novo stupor dietro a gl’inviti
190de la greca beltá corser rapiti.
     Onde come il cultor, che sopra il grembo
de’ lavorati campi
mira con fausti lampi
stendersi repentino estivo nembo;
195e tremolar per molta

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pioggia con fresco mormorio le frondi;
e di novi al suo piè verdi giocondi
rider la biada folta;
tal io fui lieto; e nel pensier descrissi
200belle speranze a la mia Insubria, e dissi:
     — Vedrò vedrò da le mal nate fonti
che di zolfo e d’impura
fiamma e di nebbia oscura
scendon l’Italia ad infettar da i monti;
205vedrò la gioventude
i labbri torcer disdegnosi e sellivi;
c ai limpidi tornar di Grecia rivi,
onde Natura schiude
almo sapor che a sé contrario il folle
210secol non gusta, e pur con laudi estolle.
     Questo è il genio dell’arti. Il chiaro foco
onde tutt’arde e splende
irrequieto ei stende,
simile all’alto sol, di loco in loco.
215II Campidoglio e Roma
lui ancor biondo il crine ammirar vide
i supremi del bello esempi e guide,
che lunga etá non doma;
e il concetto fervore e i novi auspici
220largo versar di Pallade a gli amici.
     Né giá, ben che per rapida le penne
strada d’onor levasse,
da sé rimote o basse
le prime cure onde fu vago ei tenne:
225o se con detti armati
d’integra fede e cor di zelo accenso
osò l’ardua tentar fra nuvol denso
mente de i re scettrati;
o se nel popol poi con miti e pure
230man le date spiegò verghe e la scure.

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     Però che dove o fra le reggie eccelse
loco all’arti divine
o in umil officine
o in case ignote la Fortuna scelse,
235ivi amabil decoro
e saggia meraviglia al merto desta
venne guidando, e largita modesta,
e de le Grazie il coro
co’ festevoli applausi, ora discinti
240or de’ bei nodi de le Muse avvinti.
     Anzi, come d’Alcide e di Tesèo
suona che da le vive
genti a le inferne rive
l’ardente cortesia scender poteo;
245ed ei cosí la notte
ruppe dove l’oblio profondo giace;
e al lieto de la fama aere vivace
tornò le menti dotte;
e l’opre lor, dopo molt’anni e lustri,
250di sue vigilie allo splendor fe’ illustri:
     tal che onorato ancor sul mobil etra
va del suo nome il suono
dove il chiaro polono
dell’arbitro vicino al fren s’arretra;
255dove il regal Parigi
novi a sé fati oggi prepara; e dove
l’ombra pur anco del gran tosco move,
che gli antiqui vestigi
del saper discoperse, e feo la chiusa
260valle sonar di cosí nobil Musa.
     È ver che, quali entro al lor fondo avito
i Fabrizi e i Cammilli
tornar godean tranquilli,
pronti sempre del Tebro al sacro invito:
265tal di sé solo ei pago

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lungi dall’aura popolar s’invola;
c mentre il ciel piú gloriosa stola
forse d’ordigli è vago,
tra le ville natali e l’aere puro
270da i flutti or sta d’ambizion securo.
     Ma i cari studi a lui compagni annosi,
e a i popoli ed all’arti
i benefici sparti
son del suo corso splendidi riposi.
275Vedi ampliarsi alterno
di moli aspetto ed orti ed agri ameni,
onde quei che al suo merto accesser beni
e il tesoro paterno
versa; e dovunque divertir gli piaccia,
280l’ozio da i campi e l’atra inopia caccia.
          Vedi i portici e gli atri ov’ei conduce
il fervido pensiere,
e le di libri altere
pareti, che del vero apron la luce:
285o ch’ei di sé maestro
nell’alto de le cose ami recesso
gir meditando, o il plettro a lui concesso
tentar con facil estro;
e in carmi, onde la bella alma si spande,
290soavi all’amistá tesser ghirlande.
Ed ecco il tempio ove, negati altronde,
qual da novo Elicona
premi all’ingegno ei dona;
e fiamme acri d’onore altrui diffonde.
295Ecco ne’ segni sculti
quei che del nome lor la patria ornáro,
onde sol generoso erge all’avaro
oblio nobili insulti;
e quelle glorie a la cittá rivela
300ch’ella a sé stessa ingiuriosa cela. —

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     Dove, o cetra? Non piú. Rari i discreti
sono: e la turba è densa
che giá derider pensa
i facili del labbro a uscir segreti.
305Di lui questa all’orecchio
parte de’ sensi miei salgane occulta,
si che del cor, che al beneficio esulta,
troppo limpido specchio
non sia che fiato invidioso appanni,
310che me di vanti e lui d’error condanni.
     Lungi, o profani. Io d’importuna lode
vile mai non apersi
cambio; né in blandi versi
al giudizio volgar so tesser frode.
315Oro né gemme vani
sono al mio canto: e dove splenda il merto
lá di fiore immortai ponendo serto
vo con libere mani:
né me stesso né altrui allor lusingo
320che poetica luce al vero io cingo.