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Esiodo - I poemi (Antichità)
Traduzione dal greco di Ettore Romagnoli (1929)
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NOTE ALLE OPERE E I GIORNI


Pag. 6. - Tutto quanto sappiamo della lite sostenuta da Esiodo col suo fratello Perse per l’eredità paterna, si ricava appunto da questi luoghi de Le opere e i giorni.

Pag. 6. vv. 40-41. - «Il mezzo val meglio del tutto», era espressione proverbiale che, su per giú, corrispondeva al nostro «il meglio è nemico del bene». Con «porro» traduco asfodeli: i cui bulbi, al pari della malva, servivano di nutrimento alla povera gente. Nel Pluto di Aristofane, i miseri campagnuoli chiamati in fretta da Carione, dicono che, per venire in fretta, hanno trascurato, strada facendo, πολλῶν θύμων ῥίζας (282), le radici di molti timi.

Pag. 7. - Il mito di Prometeo, verso 44 sg. - Come si vede è il medesimo concetto biblico. L’uomo è costretto a guadagnare il pane col sudore della fronte perché ha gustato il pomo della scienza. Il fuoco di Prometeo corrisponde all’albero della scienza del bene e del male.

Pag. 7, v. 54. - Non pare improbabile che la mitica Pandora adombrasse una donna reale, bellissima e scaltrissima, che forse davvero, subornata dai nemici dei Giapètidi, mandò in rovina lo stolto Epimeteo, ad onta dei buoni consigli del fratello. Questa storia sarebbe, in sostanza, una pasquinata, alla quale offrivano spontanei i colori le satire contro le donne che sono certo antiche quanto il genere umano.

Pag. 9, v, 96. - Con la perifrasi «Timor del futuro», rendo il greco Ἐλπίς. Tradurre Speranza, non ha senso, perché la speranza non può [p. 164 modifica]essere annoverata fra i mali, e perché se fosse rimasta dentro il vaso, non sarebbe fra gli uomini, dei quali invece è la piú tenace compagna. D’altronde il significato fondamentale di Ἐλπίς è appunto — come del latino sperare — aspettazione, sia di un bene, sia d’un male. Un’eco di questa immagine d’Esiodo si trova ne Le Grazie di Teocrito, dove le Muse si seggono in fondo alla madia vuota, chinando giú tra le fredde ginocchia la testa.

Pag 12, v. 180. Tutti i commentatori riconoscono che qui il racconto prende un tono d’oscura profezia, o, meglio, d’enigma. Io credo che la chiave ne vada cercata in un passo di Diodoro Siculo (V, 32), il quale dice che presso i Celti i bambini nascono per lo piú coi capelli bianchi. Bianchi sembravano ai bruni Greci i biondissimi fanciulli dei Celti e nelle parole di Esiodo è da ravvisare l’eco del terrore che le invasioni celtiche avevano gettato in cuore alle popolazioni autoctone. Quando nelle loro terre cresceranno bambini celti, sarà la fine. Questa interpretazione si è affacciata alla mia mente con assoluta indipendenza: poi ho visto che era già balenata al Goettling. Rilevo la coincidenza, che non mi sembra priva di valore.

Pag. 14, v. 203 sg. - È la prima favola che troviamo nella letteratura greca. In sostanza, la prima favola.

Pag. 15, v. 238. - Da questo verso appare quanta fosse la passione d’Esiodo pel mare.

Pag. 9, v. 314. - Qual che il tuo Dèmone sia. Intendo come intesero Proclo e Tzetze; ma certo il luogo può esser discusso.

Pag. 22, v. 369. - Perché, credo, i fondiglioli — massime quelli del vino, — si corrompono rapidamente.

Pag. 23, v. 376. - Sicuro indice della miseria dei tempi d’Esiodo questa massima, che tanto piú sorprende sulla bocca d’un campagnuolo. Quello che segue, in palese contrasto con la precedente, e tanto piú morale e ragionevole, potrebbe realmente essere una interpolazione.

Pag. 28, v. 524. - Il Senzossa (Ἀνόστεος) è creduto in genere il polpo (erroneamente tutti i commentatori dicono polipo, che è tutt’altro animale: anche il Wilamowitz; se non che pare che Polyp in tedesco significhi anche regolarmente polpo). Ma le parole che seguono sembrano indicare chiaramente che si parla di un animale vivente sulla terra, e non già nel mare. Intenderei quindi il bruco. [p. 165 modifica]Pag. 31, v. 605. - Il Dormidigiorno è il ladro. È uno dei nomignoli enigmatici di cui abbiamo parlato nella prefazione. Altri se ne possono ricordare nella letteratura e nella lingua greca: Λέπαργος, il Grigipelle, per l’asino, Σιμίας, il Camuso, per lo scimmiotto, Γλαυκή, l’Azzurrino, pel mare, Πλείων (Il Pieno, il Compiuto) per l’anno.

Pag. 31, - 612. - Il testo dice proprio cosí: esposti al sole dieci giorni e dieci notti; naturalmente, significa a ciel sereno.

Pag. 37, v. 742. - Il ramo a cinque branche (Πέντοζος) è la mano, il florido è la carne, il secco le unghie. Insomma, non bisogna tagliarsi le unghie a tavola.

Pag. 37, v. 744. - Il cratère era un vaso in cui si mescolavano l’acqua e il vino; e di lí si attingeva per offrirlo ai convitati. Porre il mestolo sul cratère equivaleva a troncare il festino: dunque, malaugurio.

Pag. 37, v. 750. - Séguito a intendere che ἀκίνητα sia una delle solite espressioni enigmatiche (e qui anche eufemistica) per significare tombe. Il Wilamowitz non lo crede, ma non specifica abbastanza le sue ragioni. Ricordo che a Roma è tuttora vivo il pregiudizio che non si debbano pesare i bambini, altrimenti non crescono piú.

Pag. 39, v. 778. - La Scaltra (Ἴδρις) è la formica: uno dei soliti nomignoli enigmatici.

NOTE ALLA «TEOGONIA»


Pag. 48. v, 35. - È un verso che ha dato e dà molto da fare agli interpreti. Pare che «cianciar di rupi e di querce» fosse una espressione simile, su per giú, alla nostra «menare il can per l’aia». Viveva fra gli antichi la credenza che i primi uomini fossero nati appunto da rupi e da querce. Quindi l’espressione proverbiale; parlar di rupi e di querce: 1) per chi narrando un fatto si rifacesse sempre dal principio, 2) per chi divagasse.

Pag. 54, v. 207. - Con un abuso etimologico il poeta fa derivare il nome Titani dal verbo titaíno, che vuol dire tendere, e poi sforzarsi a fare una cosa.

[p. 166 modifica]Pag. 56, v. 240. — Per evitare una una lunga sfilata di vocaboli privi in italiano di qualsiasi significato e necessariamente ostici, ho tradotto i nomi delle Nereidi secondo il significato etimologico, quasi sempre assai trasparente. I nomi greci sono: Protó, Eucràte, Saó, Anfitrite, Eudóra, Tètide, Galène, Glauca, Cymotòe, Speió, Talía, Melíte, Eulimène, Agavé, Pasitèa, Erató, Euníche, Dotó, Plotó, Fèrusa, Dynamène, Nesaia, Actìia, Protomèdea, Dóride, Panòpe Galatèa, Ippotóè, Ipponoè, Cymodòche, Cymó, Eióne, Alimède, Glauconòme, Pontopòrea, Leiagòra, Euagòra, Laomèdea, Polynóme, Autonoè, Lysiánassa, Euarne, Psamáthe, Menippa, Nesó, Eupómpe, Themistó, Pronòe, Nemerté.

Pag. 56, v. 259. — Giuradinò, Cosí rendo il greco Εὐάρνη, tenendo conto di un antico scolio secondo il quale il nome sarebbe derivato dal giuramento che faceva chi era scampato dalla burrasca di non tornar piú in mare (ἄρνησις). Il nostro «giuramento da marinaio».

Pag. 57, vv. 281-82. — Crisaore in greco vuol dire spada d’oro.

Pag. 60, v. 350. — Si veda la nota al verso 240. Anche qui non si deve credere che questi nomi siano inventati da Esiodo. Erano nomi di Ninfe protettrici delle varie località. Ed erano quindi numerosissimi. Tremila, dice Esiodo, ma erano certo di piú. E giustissima è l’osservazione che il poeta fa poco piú sotto, a proposito dei fiumi: tutti questi nomi li sa bene «chi ci abita vicino». I nomi greci delle Oceanine sono i seguenti: Peitó, Adméte, Iànthe, Elèttra, Dóride, Prymnò, Urania, Ippó, Clymène, Ròdeia, Calliròe, Zeuxò, Clytíe, Idyiá, Pasitòe, Plexàure, Galaxàure, Dióne, Melòbosis, Thòe, Polidóre, Chercheís, Plutó, Perseís, Iàneira, Acàste, Xànthe, Petràie, Menesthó, Európe, Métis, Eyryinòme, Telestó, Cryseís, Asia Calipsó, Eudòre, Tyche, Anfiró, Ochyroe, Stige.

Pag. 61, v. 384. — Nice (Nike) in greco vuol dire Vittoria, Zèlos ardore, poi emulazione, poi invidia. Crate (Kratos) il potere, Bia la forza. Questi ultimi due stanno sempre con Giove, ossia sono suoi attributi.

Pag. 68, v. 538. — Il ventre del bue era una parte spregiata, si dava ai mendichi (Odissea, 18, 44). Prometeo mette da una parte la carne, chiusa entro la pelle, e sopra il ventre, spregiato; e dall’altra l’ossa, coperte dall’omento, pregiatissimo. E lascia libera scelta a Giove, che cade in trappola. Nel mito c’è una palese intenzione di fronda, [p. 167 modifica]e inefficaci sono le parole del poeta che cercano di mascherarla. E c’è palese incongrenza nel dire a) che sapeva da prima la frode, b) che avvampò d’ira quando la scoperse.

Pag. 81, v. 886. - Metis in greco vuol dire Senno (dalla stessa radice di mens). L’allegoria è trasparente. Il Signore supremo deve aver la saggezza come sposa. Tutta quest’ultima parte del poemetto è stanca, piena di doppioni e di contraddizioni con la prima, e certo per gran parte interpolata.

P. 85, v. 967. Questa è proprio la forma della leggenda sulla quale s’impernia l’argomento del Pluto di Aristofane.

Pa. 87, v. 1004. - Psamatea vuol dire la sabbiosa: è la stessa il cui nome ho tradotto con Arena nel catalogo delle Nereidi.

Pag. 87, v. 1013. — Latino figlio di Circe.

Pag. 88, v. 1020. - Questi due versi sembrerebbero appartenere alle Eoe o Catalogo delle Donne. E forse anche tutto l’ultimo brano. Ma anche inoltrarsi in queste ricerche non può dare risultati né concreti né importanti.


NOTE A «LO SCUDO D’ERCOLE»



Pag. 93, v. 1. — Il principio sembra dimostrare che questo brano appartenne alle Eoe, vedi pag. 113. Però non si vede bene come in un poema che trattava principalmente di donne trovasse luogo questo luogo racconto, a cui non si può tribuir carattere di digressione, dell’impresa d’un uomo. Posto adatto vi troverebbe il principio, sino al verso 56.