Piccolo mondo moderno/Capitolo settimo. In lumine vitae/VI
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In lumine vitae
VI
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VI.
Il sacramento è amministrato, il male precipita, l’inferma non parla più, la speranza terrena esce a capo chino dalle camere silenziose, le speranze celesti entrano solenni e soavi, annunciando col dito alle labbra un angelo vicino, spirando pace e mansueta riverenza persino alle cose. In ogni volto è una compostezza grave, nulla si domanda più ai medici, essi pure hanno in viso il rispetto dei mistero; don Giuseppe legge, presso al letto, parole sante, non si ode altra voce, neppure si osa piangere. Dì fronte alla morente, all’arcano che si compie su quel letto, alla solennità delle sante parole, sola grandeggia la madre. Hanno studiato di prepararla, le hanno detto vagamente il presentimento della figliuola, tacendo l’ora; ed ella come se non volesse sapere o se già sapesse, neppure volse a chi le parlava i suoi grandi neri occhi sgomenti e severi, fissi nella divina volontà. Ha risposto in piedi, piegata sulla spalliera di una seggiola, alle preghiere del rosario che don Giuseppe disse nel salottino. Nessuna parola le esce più di bocca, non si move ad atti di dolore mai. La prima volta nella sua vita siede per lente, interminabili ore allo stesso posto e i medici, l’infermiera la guardano di tratto in tratto come un’augusta cosa, evitano di passarle troppo vicino e nel passare piegano la fronte.
L’inferma non parla più ma comprende ancora. Ha compreso dolcissime parole di letizia che don Giuseppe, subito dopo il sacramento, le ha dette all’orecchio; ha sorriso, ha cercato Piero con lo sguardo, lo ha visto ritto là davanti, le povere labbra si agitarono a più riprese per parlare, non lo poterono; gli occhi allora dissero tutto, la gioia, la tenerezza, persino un umile ossequio; si alzarono al cielo, ridiscesero; ancora le povere labbra si mossero invano. E a don Giuseppe, che lo guardava, il viso di Piero apparve trasfigurato, non dal dolore, da un’energia spirituale sovrumana, luminosa e muta.
Le ore passano lente, interminabili, brevi soste interrompono il cammino della morte, i medici tentano qualche penosa, inutile difesa; Piero li prega con autorità che lascino il bramoso spirito uscire in pace. Vengono lettere, vengono telegrammi chiedenti notizie, bene auguranti, nè la marchesa nè Piero li voglion vedere, sono messi da parte. Viene dalla stazione, alle cinque di sera, il fattore di casa Scremin col pretesto di prender notizie, in fatto perchè pensa che se la signora muore si avrà bisogno di lui. Domanda se si debba trattenere. Si trema, si evita di guardarsi, non si risponde. Quegli si ritira senza richiamo nè saluto ed è il Direttore che gli dice di restare, di aspettare all’albergo. Suonano le sei. Coloro che sanno, pensano:
"Forse un’ora, forse due, forse tre ancora, non più„.
Il Direttore insiste perchè la famiglia e don Giuseppe prendano qualche cibo ch’egli ha fatto preparar loro nel suo proprio quartiere. Don Giuseppe e il marchese si fanno portar qualche cosa nel salottino; Piero e la marchesa non si muovono dalla camera. Suonano le sette. Forse due ore ancora.
Per le finestre spalancate si vedono spegnersi nel settentrione ad una ad una le cime accese delle montagne, salire l’ombra. Le campane della chiesetta vicina, della città lontana, suonano l’Ave Maria della sera e posano. Stelle, stelle, stelle si accendono in oriente. La campana della chiesetta ricomincia a suonare, suona ad agonia.
Sono le otto e cinquanta minuti. Don Giuseppe recita ad alta voce le preghiere per i moribondi, accosta e riaccosta il crocifisso alle labbra smorte della travagliata che non ode, non vede più, tutti della famiglia e suor Eletta pregano ginocchioni, l’angelo di Dio entra. Si fa un silenzio sepolcrale, è udito il passo di un viandante, un canto lontano nei campi. Il medico si china sul volto più bianco del guanciale ove posa, illuminato da un sorriso, semiaperta la bocca e immobile; guarda don Giuseppe, tacendo. Don Giuseppe si china pure, giunge le mani, si rialza, dice con voce sommessa, devota come all’altare:
“Non è morte. È lume di vita eterna„.
Un solo fiore non perdette per lei l’ora sua breve, la madre non ne volle sul letto funebre.