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426 capitolo settimo.

VI.


Il sacramento è amministrato, il male precipita, l’inferma non parla più, la speranza terrena esce a capo chino dalle camere silenziose, le speranze celesti entrano solenni e soavi, annunciando col dito alle labbra un angelo vicino, spirando pace e mansueta riverenza persino alle cose. In ogni volto è una compostezza grave, nulla si domanda più ai medici, essi pure hanno in viso il rispetto dei mistero; don Giuseppe legge, presso al letto, parole sante, non si ode altra voce, neppure si osa piangere. Dì fronte alla morente, all’arcano che si compie su quel letto, alla solennità delle sante parole, sola grandeggia la madre. Hanno studiato di prepararla, le hanno detto vagamente il presentimento della figliuola, tacendo l’ora; ed ella come se non volesse sapere o se già sapesse, neppure volse a chi le parlava i suoi grandi neri occhi sgomenti e severi, fissi nella divina volontà. Ha risposto in piedi, piegata sulla spalliera di una seggiola, alle preghiere del rosario che don Giuseppe disse nel salottino. Nessuna parola le esce più di bocca, non si move ad atti di dolore mai. La prima volta nella sua vita siede