Piccolo mondo moderno/Capitolo ottavo. Senza traccia/I

Capitolo ottavo
Senza traccia
I

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CAPITOLO OTTAVO

Senza traccia


I.

Da tre giorni la gracile spoglia dello spirito asceso alla Vita posava dentro il piccolo cimitero bianco, fra le viti, gli ulivi e gli allori della terra gentile, poco sopra lo specchio del lago. La notte cadente era inquieta. Raffiche alternate a lunghi silenzi delle cose suonavano sul lago, per le rive, per gli oleandri e i rosai dell’orto Maironi, chini sulle onde; rombavano nel pino a ombrello sopra la panca dove Piero e don Giuseppe stavano a colloquio, curvavano le sottili aste nere dei cipressi allineati a monte dell’orto, lungo il muro di cinta. Il chiarore della luna traspariva per un latteo drappo di nuvole, teso dai profili morbidi della Galbiga e del Bisgnago alle rupi selvagge del picco di Cressogno e alla fronte uniforme del Boglia; e talvolta ne traspariva un momento la stessa velata immagine [p. 444 modifica]gine dell’astro imbiancando la neve degli oleandri in fiore, fogliami e rose, la ghiaia del viale, l’alto fianco della chiesetta di Oria, il vecchio rustico campanile imminente all’orto. Era una notte inquieta nel cielo come sulla terra; e anche il colloquio sotto il pino era interrotto da silenzi pieni di aspettazione, agitato da repentini soffi dello Spirito, illuminato da qualche cosa di nascosto che ora traspariva ora si ritraeva. Don Giuseppe di tratto in tratto pareva accasciato sotto un gran peso, oscurato nell’anima; di tratto in tratto si trasfigurava, si rialzava tutto acceso la gran fronte, gli occhi, l’accento, il gesto. Il contegno di Piero era invece costantemente grave; il fuoco de’ suoi occhi ardenti pareva più interno, le parole avevano un che di pacato e di fermo, affatto nuovo in lui. Sempre, quando tacevan le cose, don Giuseppe era il primo a rompere il silenzio in cui egli e Piero si accordavano quando esse rumoreggiavan più forte nel vento. E allora era quasi sempre una specie di soliloquio che gli usciva di bocca, un cruccioso ritorno del pensiero alle difficoltà di certo còmpito accettato irrevocabilmente, oramai. Cinque ore prima, mediante un atto rogato dal notaio di Porlezza, Piero gli aveva ceduto tutti i suoi beni; e la intelligenza fra loro era che don Giuseppe si sarebbe associate certe persone già designategli, le quali [p. 445 modifica]lo avrebbero aiutato a istituire una specie di Cooperativa di produzione agraria, capace di estendersi e aperta, entro certi limiti, ai volonterosi, nella quale la terra, considerata come uno strumento di produzione, finirebbe col diventare proprietà sociale e le norme statutarie avrebbero un carattere cristiano, cosicchè il fine cristiano dell’associazione compenetrerebbe in sè, dominandolo, il fine economico. Se l’esperimento non venisse approvato dai consiglieri di don Giuseppe o non riuscisse, la sostanza mobile e stabile verrebbe divisa in lotti, che si assegnerebbero prima in usufrutto e, dopo un certo periodo di prova, in proprietà, a famiglie scelte di contadini. Quest’ultima disposizione era stata suggerita da don Giuseppe che solamente così si era indotto ad accettare la cessione e l’incarico di un esperimento nel quale non aveva fiducia. Se Piero non lo aveva ben fatto persuaso della opportunità di creare un tipo di associazione aperta dentro i limiti del possibile dove il capitale sociale fosse essenzialmente la terra, lo aveva però fatto persuaso col tranquillo vigore del ragionare e con la gravità del contegno, che l’intelletto suo era ben solido e fermo. Gliene aveva dimostrato l’acume sereno anche con lo scrupolo espressogli che questo suo disporre dei beni ceduti per date opere fosse un trattenerne indebitamente la proprietà ideale; [p. 446 modifica]ciò che in coscienza don Giuseppe non aveva potuto ammettere.

“Mi perdoni„ uscì a dire il vecchio prete, “se ardisco farle una domanda indiscreta. Nella Sua visione, c’era questa idea?„

Mai non erasi accennato fra loro alla visione dopo il giorno doloroso e solenne. Nè don Giuseppe si era più avventurato a parlarne, nè Piero vi aveva alluso.

“No„ diss’egli, “quest’idea è frutto di un lungo lavoro mentale e si è ora come rinvigorita in me di sentimento cristiano perchè io penso che realmente la confisca della terra a beneficio di pochi sia una cosa ingiusta e che se si formassero dei nuclei così ordinati sarebbero elementi di risanamento sociale. Ma per me si tratta solamente di dare il mio ai poveri non a caso, di darlo secondo un’idea di giustizia. Ho avuto in mente un mese fa di spogliarmi, senza sentimento religioso, per una giustizia particolare, come Le ho raccontato. Adesso comprendo che non era cosa ragionevole e che faccio meglio a spogliarmi per una giustizia generale. La visione non riguarda che il mio avvenire dopo la rinuncia„.

“Mi pare„ osservò don Giuseppe, timidamente, “ch’Ella mi accennasse a due parti distinte della visione„.

[p. 447 modifica]“Sì„, rispose Piero, “ma nella seconda parte…„.

Rumore di remi e di voci. Una barca si appressava, passò lenta sotto il muro dell’orto. Ritornato il silenzio, Piero cinse d’un braccio il collo a don Giuseppe.

“Mi perdoni„, diss’egli, “preferisco non parlarne. Intendo della mia visione. Me ne sento anche indegno!„

“Una sola parola: Ella persiste a crederla soprannaturale?„

“Quello che m’appare oggi è che la visione sia soprannaturale in quanto si accorda con certe voci misteriose che mi hanno parlato di tempo in tempo, una volta; e in quanto mi addita una via di povertà, di penitenza e di preghiera. La credo anche soprannaturale in quanto mi addita un’azione futura, esterna. In quanto invece mi preannuncia dati avvenimenti, io non presumo niente, accetterò dalla mano di Dio quel ch’Egli vorrà. Ho però creduto debito mio di scrivere la visione. Sta già in un plico suggellato ch’Ella custodirà perchè si apra dopo la mia morte„.

Don Giuseppe sorrise, fece un gesto come per dire ch’egli morrebbe certamente prima.

“Ella sceglierà, in ogni caso„ soggiunse Piero, “la persona fidata che lo apra„.

Le ombre che il nome della morte sempre va[p. 448 modifica]pora, le ombre di un immaginato avvenire, solenne e tragico, avvolsero i seduti. Don Giuseppe venne ripensando e comparando certe parole dettegli da Piero subito dopo la visione, certe parole del colloquio presente. A quale missione nella Chiesa di Dio poteva essere chiamato quel giovine? Gli sorgevano nella mente profonda tante supposizioni diverse, vi si levavano tanti dubbiosi desideri antichi circa una riforma cattolica della Chiesa, non espressi mai chiaramente ad alcuno, forse neppure chiaramente concepiti, anche per impedimenti di ossequio e di umiltà. Uno stormir fischiante corse per la costa, uno strepito per le rive, una veloce ombra nera sul lago, cui l’alto fragore del pino rispose; e in pari tempo uscì la luna curiosa, irradiando le nevi degli oleandri in fiore, fogliami e rose, la ghiaia dei viali, l’alto fianco della chiesa, il rustico campanile imminente all’orto. Nel pensiero profondo di don Giuseppe, disposto alle intime comunioni con la natura come alle intime comunioni con Dio, il dramma del vento, della luna e delle onde, il dramma di quell’anima, prima oscurata dalle passioni, ora misteriosamente illuminata dallo Spirito, si confondevano, si compenetravano in uno solo.

Qualcuno entrò nell’orto. Il custode veniva a dire che le chiavi del camposanto, richieste dal signor [p. 449 modifica]padrone, erano state portate in casa e che vi era pure stato portato per lui da S. Mamette un pacco postale.

Passando, nell’avviarsi verso casa, presso il vecchio rosaio dalle rose incarnatine, Piero si fermò.

“Le lascerò scritto anche questo„, diss’egli, “ma Le raccomando pure a voce che le suore abbiano ogni cura degli oleandri che sono ancora quelli piantati da mio padre, delle rose e particolarmente dell’arancio e del mandarino, nel giardinetto„.

La villetta dove Franco e Luisa avevano tanto amato e sofferto, dove la epica bontà, la serenità magnanima dello zio Piero eran passate beneficando, dove la piccola Ombretta era morta, avrebbe accolto le suore convalescenti di un Ordine scelto da don Giuseppe, con una scuola di lavoro e di economia domestica per le giovinette del Comune di Albogasio.

“Ella potrà tenersene informato„, suggerì don Giuseppe. Il giovane, per tutta risposta, si chinò, posò le labbra sopra una rosa.

“Ah, don Giuseppe„, diss’egli uscendo dall’orto, “quanto posso dire al Signore: quaerens me sedisti lassus! Quante volte non mi ha richiamato [p. 450 modifica]e io mi ostinavo a perdermi! Anche con la Sua cara ultima lettera! È stato perchè tutto io debba riconoscere da Lui e niente, proprio niente, da me.„