Piccola morale/Parte terza/II. Vizii affettati
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II.
VIZII AFFETTATI.
Non c’è libro, secondo che Plinio e l’esperienza c’insegnano, per pessimo ch’egli sia, dal quale non possa trarsi un qualche utile documento; e del pari non c’è uomo, per meschino o ribaldo che vogliasi immaginarlo, che non abbia in sè alcuna parte degna di considerazione e di stima. Non pochi però sono quegli uomini i quali adoprano ogni loro studio a comparire ciò che non sono, e non secondando per nulla l’opera della natura, che ha pur dato ad ogni uomo, sebbene con proporzioni ineguali, di che avanzarsi e far suo profitto nel mondo, si mettono per quella via su cui sono sospinti dal capriccio, o più spesso da un qualche fallace ragionamento.
La bellezza, a modo d’esempio, è un dono che la benefica natura intende concedere ad alcuni de’ suoi figli quasi un privilegio sui loro fratelli. Eppure ci hanno alcune menti stravolte per modo da rinnegare un tal benefizio, e adoperarsi con ogni studio a buscarsi fama di bruttezza, e per poco non direi di deformità. Non intendo qui parlare delle fogge stravaganti di acconciature che si usano da taluni, atteso che il disegno di questi tali è pur sempre di giovare la propria bellezza con quegli artifizii. Bensi il mio discorso si riferisce alla strana stizza in cui ho veduto montare qualcuno all’udirsi dire: oh il bel giovine che sei! No signori, si conveniva dirgli, chi avesse voluto dargli nel genio: che fisonomia truce! che ciera da suicida è la tua! Non sono invenzioni, nè esagerazioni; per poco che abbiate conversato con giovani del nostro tempo, vi dovete essere abbattuti in chi trovasi occupato da una tale mania. Non soffrirebbero di essere chiamati angeli, se non vi fosse luogo ad intendere angeli inabissati.
Ciò che s’è detto della bellezza esteriore o fisica può ripetersi della interiore o morale. Sono molti ai quali il dire: buono, gentile, amabile giovane è poco meno che un insultarli. Dovete dir loro ch’ei sono stizzosi, stravaganti, selvaggi. Che farne di un giovane cuore a cui il rimorso non passeggi per entro rodendolo, come il verme nel bottone di una rosa? Devono essere sempre alla vigilia di commettere una qualche scelleratezza, o per lo meno vivere disperati di trovare mai requie quanto ad essi saprà durare la vita. Il dottor Fausto, Manfredo, e simili personaggi fantastici sono i tipi ai quali desiderano conformarsi i nostri giovani del bel mondo.
Vediamo taluno nel carnovale assumere la maschera del contrabbandiere e dell’assassino: ecco il fatto dei signorini di cui parliamo. Nel loro sogno di felicità ci deve entrare un delitto, se non condotto a compimento, immaginato per lo meno e tentato del più forte senno. Si ridono della dolcezza de’ loro maggiori, ch’ cra pure la condiscendenza della belva magnanima; e ritemprano la propria arroganza a rendere presumibile un vigore che non hanno. Oh! chi è avvezzo a guardare con occhio securo i nembi del cielo, s’impaurirà della vista delle brune macchie di carbone tracciate sopra una vecchia muraglia?
Così nelle lettere come nel resto della vita. Miseria le poesie de’ petrarchisti, e degli arcadi; nenie perpetue da addormentare i pastori all’ombra de’ loro faggi, e i cruscanti tra gli scaffali delle loro polverose biblioteche. Ma sapete poi darmi altro che odi convulse, e inni che sembrano concepiti in un qualche accesso febbrile? Anche qui bisogna affettare la ciera cachetica degl’ipocondriaci, le arricciate basette dei bravi, e il monotono salmeggiare dei frati. Questo è far si che il secolo vada inmanzi per la miglior via, questo si chiama progresso!
La deformità accattata e posticcia ha sempre alcun che di maggiormente difettoso e ributtante della deformità naturale. C’è tutto il fastidio che cagiona la vista di un’impresa riuscita a vôto; una vera passione, un vero difetto sono nella gran tela delle relazioni sociali ciò che in una musica sapientemente condotta le dissonanze. Anche da queste si cava armonia. Ma le passioni ed i vizij tolti a prestito dalla vanità e dalla sciocchezza sono stonature di chi vuole colpire una nota troppo alta per le proprie corde. L’uditore strigne i denti, e straluna gli occhi compassionevolmente. Prime ad accorgersi di queste stonature sono le persone in cui un attrito sociale meno continuo ha lasciato ancora vive ed impressionabili quelle parti sporgenti della nostra natura morale, che possono dirsi, con certo ardimento di similitudine, i tentacoli del nostro intelletto. I famigli e i dipendenti d’ogni guisa sono primi ad accorgersi dell’insufficienza di quella collera artifiziale di cui vorrebbe mostrarsi investito Tiburzio, a cui natura ha concedu10 fibre rilassate e nervi infusi di scirocco. Quel burbero, anzichè terribile, si fa noioso e ridicolo, quando avrebbe forse potuto colla naturale mansuetudine a cui fu creato ottenere molto facilmente il suo intento. Odi la voce di un evirato, che ravvolto in clamide assira intuona: Tremate o imbelli genti! secondo gli prescrisse il poeta.
L’ipocrisia della virtù è anch’essa censurabile; ma sono pur da compiangere que’ tempi nei quali sia venuta in voga l’ipocrisia del vizio! Noi non vogliamo dire che il nostro tempo sia tale, o che da siffatta mania possano chiamarsi esenti del tutto i tempi al nostro anteriori; ma non ci parve inutile il far questo cenno dei vizij affettati, dacchè alcuni giovani spezialmente, nei quali ci siamo imbattuti, ce ne porsero sufficiente cagione. Anche nei vizij si cammina per gradi, e tolte alcune deplorabili eccezioni, a molta eccedenza di perverso operare si domanda il lavoro di molti anni. Abbiamo udito chi dà taccia all’età nostra di contare assai pochi giovani, taccia non punto ingiusta specialmente riguardo alcuni paesi; ma sarebbe pur doloroso il pensare che ciò avesse riguardo, come al resto, anche alla maturità delle colpe! Conchiudasi pregando giovani e vecchi di contentarsi di que’ difetti che loro sono proprij, senza darsi pena di affettarne altri stranieri alla loro natura. Già di quei primi ne abbiamo, sia detto con sopportazione di tutti, una più che discreta porzione per ciascheduno.