Piccola morale/Parte seconda/XIII. Passione sopra passione
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XIII.
PASSIONE SOPRA PASSIONE.
Più che ogni altra volta ch’io venni a colloquio coi miei lettori, ella è questa che io domando ad essi di prendere con discrezione le mie parole. Io arrischio una proposizione che avrà assai dello strano, specialmente nel concetto di quelli che non credonsi punto obbligati ad esaminare con qualche pacatezza e diligenza le cose prima di giudicarne. Liberatevi dalle passioni che vi danno assedio e vogliono prendervi campo adosso, si suole ripetere comunemente; io invece mi farei a gridare: contentatevi di una sola passione, e dacchè non vi basta l’animo a dispogliarvene, fate almeno di tenervi obbligati al dominio di quella sola.
Così è; parmi che una gran parte della umana infelicità sia appunto riposta in ciò, che mentre sembriamo tiranneggiati da tale o tal altra passione, abbiamo martello, oltre a quella, da un’altra, che lavora occultamente sopra il cuor nostro; di maniera che, inteso che si abbia questo secreto travaglio, è facile ripetere col poeta — E quindi mi fu chiaro — Il variar che fanno di lor dove.
Tiburzio, a modo d’esempio, ch’è il tipo degli ambiziosi, onde avviene che a certe ore del giorno tu il vegga cosi rannuvolato nella fisonomia, così fastidioso ed inquieto in ogni suo movimento? Tiburzio, inchinato da tutti, a cui nessuno oserebbe di contraddire, dicesse che il sole imbizzarrito si è mostro di mezza notte, Tiburzio, vedi, avrebbe bisogno di starsene ozioso e abbandonato a certe ore e non può. La continua felicità che gli viene dalle sberrettate profonde ricevute lungo la strada, dall’essere pronunziato il suo nome con un brivido misterioso, cozza colla felicità momentanea che gli sarebbe necessario di trovare sopra un seggiolone, affratellandosi nel dialogo e nelle scienze a quei famigli, di cui indi a pochi minuti suderebbe freddo vedendo una rivolta d’occhi meno rassegnata dell’ordinario. Ah! Tiburzio, perchè non essere sempre ambizioso ad un modo?
A Severo gli scrigni traboccano d’oro. Non ch’egli ne sia sazio; si augurerebbe la disfatta di Crasso, purchè, morto ch’egli fosse, se gli travasasse nella bocca spolpata alcun poco del prediletto metallo. Ma pure l’alacrità con cui corre sempre dietro a’ guadagni, e la pertinacia della fortuna nel traboccargli ad ogni ora nelle mani quanto farebbe contenta ogni altra cupidigia, dovrebbero tenergli piacevolmente esercitata la vita. Donde l’uggia che lo molesta? Severo non è solamente avaro, ma ha il ticchio dell’ambizione. Al comparire ch’egli fa tra le persone non ha quelle dimostrazioni di stima tanto profonde ch’egli vorrebbe, si vede sempre alcun che di esagerato che accusa la paura; un certo livore si mescola sempre inavvertitamente a tutti i saluti ch’egli riceve. È come la ruggine sulle monete che tiene sepolte fuori dell’occhio del sole, in luogo noto a sè solo. Ma, Severo, se vorrai far getto di un poco di quel tuo tanto oro non mancherà chi ti onori cordialmente; o almeno non ti mancherà quella specie di pubblico ossequio che accompagna le azioni maravigliose, come la liberalità in uomo avaro. Oh questo no! Dunque, Severo, contentati d’essere avaro, se vuoi essere meno infelice.
Nicodemo si lasciò prendere giovinetto alle lusinghe della gloria. Farsi un nome immortale, disse egli fra sè, e non badare al resto. I genitori si strinsero nelle spalle vedendolo intisichire sui libri, o nell’esercizio della matita, secondo ch’ei volle riuscire letterato o disegnatore; ma egli avanti, sempre più avanti nello studio, e sempre più fermo nel suo proponimento. Uscito della casa paterna, ove ad ogni giovine è conceduto di essere ciò che più gli piace (e sono quelli gli anni che chiamansi di schiavitù!) si trovò alle prese con un mondo parte ignorante, parte avverso alle ispirazioni del bello. Che stai, Nicodemo? Tira innanzi; ti sia in luogo di quelle comodità che il mondo ti nega, l’intimo piacere che provi nel secondare la tua vocazione. No, signori. Nicodemo avrebbe bisogno di una buona tavola, di un bel carrozzino, di una gita in campagna secondo stagione. Dall’arte sua, tutto che professata con alacrità e con ingegno, non gli viene nulla di ciò, e Nicodemo è infelice. O Nicodemo, ti conveniva mandar al diavolo la matita e la penna, o contentarti di una casetta in qualche viottolo segreto, su cui poter scrivere con pomposa modestia a sommo la porta: — parva sed apta mihi.
Da queste considerazioni sorge incontrastabile un nuovo argomento degli ostacoli che oppone l’uomo da sè medesimo al conseguimento della felicità cui agogna più avidamente. Dichiarasi, oltre a questo, dalle considerazioni suddette, la sproporzione indicibile che ci ha tra gli umani appetiti ei modi di soddisfargli, e l’intrinseca ragione della continua irrequietudine che travaglia miseramente la vita, anche di quelli fra gli uomini che sembrerebbero destinati ad averla più riposata. Quando non sia regolato nel suo cammino da quella prudente filosofia che modera i desiderij, e tiene sempre desta la ragione, si trova l’uomo sospinto da due potentissimi venti, in direzione diversa; uno gli spira da tergo, l’altro di traverso, e però la sua nave non fa che corto e faticoso cammino. Ciò quanto all’uomo. Quanto alle passioni, se ne conchiude la verità di quel bellissimo detto: ogni passione essere in più parti uncinata, e facile per conseguenza ad intricarsi e far groppo con altre; il che quando accada, le deliberazioni che si prendono dagli uomini diventano indicifrabili, essendo in essi passione sopra passione, e una velandosi dell’apparenze dell’altra per modo da nascondersi anche alla vista de’più acuti intelletti.