Piccola morale/Parte seconda/XIV. L'Altalena della Fortuna
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XIV.
L’ALTALENA DELLA FORTUNA.
Per non ricorrere a quella vecchia ruota da cui mostrasi accompagnata, sono ormai molti secoli, madonna Fortuna, vogliamo darle invece per proprio simbolo un’altalena, che sotto diversa figura viene in sostanza a significare la stessa cosa. E per verità le forme dei simboli potranno cangiare, ma l’idee simboleggiate rimarranno pur sempre le medesime, finchè vi saranno uomini e mondo.
L’altalena, oltre al rendere immagine dell’assidua vicenda con cui la Fortuna travaglia le povere genti mortali, esprime più propriamente quella necessaria relazione di contrapponimento che vi ha in ogni mutazione di stato, per cui non può avervi chi s’innalza senza che siavi chi rimanga abbassato; ciò che fece dire a Montaigne il vantaggio d’uno essere sempre a scapito d’altri, e a qualche scrittore malinconico, spingendo le conclusioni oltre ogni termine di convenienza, gli uomini essere nati ad amarsi e a trucidarsi scambievolmente.
Che che ne sia di queste dolorose considerazioni, egli è certo che molti veggiamo essere di lancio precipitati dai sommi agl’infimi gradi, e molti altri dagl’infimi improvvisamente rimanere assunti ai più eccelsi. Il disotterramento di una vecchia pergamena, l’acquisto di una polizza vincitrice di lotteria, una impensata disposizione testamentaria, e altri tali fortuiti avvenimenti fanno che Iro diventi Creso dal detto al fatto e per l’opposto un repentino fallimento, un subito incendio, l’incredibile matrimonio di un vecchio zio, lasciano poco più che in camicia chi vesti gallonato. Abbiamo a bello studio toccato semplicemente di que’ cambiamenti di condizione che si riferiscono al danaro, lasciando che i nostri lettori ci aggiungano tutti gli altri che hanno riguardo alla pubblica estimazione, alla dignità, alla salute, e cosi a mano a mano.
Di qualunque specie per altro essi siano siffatti trabalzamenti, intendiamo già sempre parlare de’solenni, molto malagevole si è il conservare tranquilla la mente nell’esercizio delle sue facoltà. Quanto a ciò non ci sarà, crediamo, chi immagini di farne contrasto. Ma una domanda facciamo noi a noi stessi e qual è quegli che abbisogni di maggior forza d’animo a non lasciarsi abbattere dall’urto repentino della fortuna; quegli che cade dall’alto in basso, o veramente chi da terra è sospinto poco meno che in ciclo? È questa la domanda che intendiamo porga soggetto al presente articolo. Esaminata la cosa con qualche attenzione, ecco ciò che ne parve di poter dire.
Primieramente si dia un’occhiata al passato, essendo da questo appunto, messo in contrasto col presente, che l’animo nostro riceve la violenta impressione, dato il caso di un cangiamento. Potrebbe a prima giunta parere che in ciò le parti dovessero essere pari, ma così non è veramente. Il ricordarsi onorato e potente accresce per una gran parte il dolore a chi non ha più nė potenza nė gloria, ma per altra parte gli viene anche riverberando sulla miseria presente un qualche raggio della passata grandezza. All’incontro, assai presto ci dimentichiamo lo stato di avvilimento e di povertà in cui siamo vissuti, appena ne accade di vederci accerchiati dalle ricchezze e dagli omaggi. Di che un subito squilibrio nei nostri pensieri e nelle nostre abitudini, ossia un trovarci ineguali alla nuova sorte a cui fummo chiamati. Al qual proposito è da notare che le persone cadute da condizioni elevate, vuoi d’onore, vuoi di ricchezza, sono men facili a perdere l’alterezza compagna alle condizioni suddette, di quello siano ad assumerla quelle altre persone cui incontra l’opposto.
In secondo luogo, a chi si trova improvvisamente abbassato, rimane pur sempre la speranza. E per verità quanto maggiore ed inopinato fu il suo trabalzo, tanto quella speranza, per certo rispetto, si fa più ragionevole, non essendo mai stato detto che la ruota degli avvenimenti abbia a star ferma, ed essendo assai raro il caso che la sorte di un tale sia stata così rigorosamente circoscritta da non esservi luogo per l’immaginazione di scappar fuori da qualche parte. Chi al contrario è balzato ad estrema altezza, non ha più la speranza, e gli conviene rendersi col tempo famigliare il suo nuovo stato, prima di fabbricarsela a questo corrispondente. E però dove nel primo caso abbiamo una grande attività e occupazione della mente, nell’altra abbiamo soltanto sbalordimento e totale dispersione di facoltà intellettuali.
Ben si vede che il nostro discorso ha riguardo ai primi momenti in cui l’uomo si trova, come a dire, soprappreso dall’insolitezza delle cose che lo circondano, e della vita che gli si mette dinnanzi: passati questi primi momenti, saremmo tentati di dire che pari bravura ci voglia a comportare degnamente la prospera che la nemica fortuna. E tuttavia vorremmo domandare quale sia il maggior numero, se di coloro a cui le sventure non avviliscono l’animo, dato che l’avessero generoso quando erano in fiore; o di quelli, che, modesti ed affettuosi tanto che erano tra gli oscuri, diventarono alteri e disumani al passare che fecero tra i fortunati. Un antico proverbio dice che la gioia può uccidere, ma il dolore, per grande che sia, lascia in vita. Si sa de’ condannati a morte che dormono la notte che precede l’esecuzione della sentenza, e d’Anacreonte che, trovata una somma di danaro, perdette il sonno e la pace.
Onde però tutto questo? Se ne avrebbe a conchiudere che l’uomo fosse nato al dolore? Che fosse quindi per propria natura più atto a sostenere le scosse degli avvenimenti sinistri, di quello sia le contrarie? Il dedurre da esami particolari conclusioni generali non è mai senza pericolo. Non dee farne a ogni modo arrossire dell’esser nostro il pensare, che la fortuna per poterci vincere ha bisogno di piaggiarne, anzichè di combatterne; che nell’animo nostro abbiamo forza bastante da tener fronte alle battiture sue più crudeli; e che l’acquisto di molti beni non compensa assai volte le perdute dolcezze della speranza.