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Jacopo Sannazaro - Pescatorie (XV secolo)
Traduzione dal latino di Filippo Scolari (1813)
Li Salici
Egloga quinta - Erpili Maga Annotazioni
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A TRAJANO CAVANILLA


SIGNORE DI TROJA E DI MONTELLA


LI SALICI


ARGOMENTO


Descrive il Sannazaro in questo Poemetto la metamorfosi delle Ninfe del Sarno in Salici, mentre inseguite dai Satiri tentavano di gettarsi nel fiume. L’imitazione è presa dal libro I. di Ovidio, ove descrive il cangiamento di Dafne in Lauro, e ricorda in tutto la favola di Siringa.


Se dolce ozio il consente, e tuttor agita
    Sue miti fiamme quella Dea, cui portano 1
    Conche cerulee intorno all’onde liquide,
    Che di Pafo turrita, e scudo vantasi 2
    5Della ricca Amatunta; i miei ricevere 3
    Carmi affrettati in riva al fiume piacciati
    O Cavanilla, non per fama dubbia,
    Ma d’eventi per lungo ordin variabile
    A me ben noto, e fatto ragguardevole.

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    10Pur il piè da vicin portar paventano,
    Che già molte fïate udito avevano
    Li tanti affanni tuoi Peneja Dafnide,
    E con quai fati un tempo, oh Dio! la vergine
    Nonacrina infelice, in vero vergine
    15Infelice (e qual mai non essa muovere
    Cosa a pietà porria?) dal sommo vertice
    Di Cillene il Dio Pan fuggendo timida,
    Pane d’Arcadia il Dio, benchè bellissima,
    E benchè di Dïana a splender unica
    20Tra i venerandi cori, il petto tenero
    Mutasse in canna noderosa, e ruvida.
    Le quali delle selve pegli erbiferi
    Prati qua e là vaganti appena viddero
    Li Semibruti, di sfrenati giovani
    25Turba insolente, e non sì tosto l’intime
    Lor midolle d’occulto ardor s’accesero;
    Che di bel grado ad eccitar le timide
    Con blande voci in guisa tal si diedero:
    Qua qua su pronte donzellette tenere,
    30Placidissima schiera: e perchè starvene
    Sì lunge? Eh via presso alle sponde fatevi,
    O venite piuttosto, com’è solito,
    Nel prato verde molli danze a tessere,
    Giacchè diamo alle canne indarno l’alito,
    35Di versi empiendo i boschi, che non odono.
    Esse nulla a rincontro: apparecchiavano
    Solo gli scalzi piedi a fuga celere,

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    Ed asili sicuri in cuoг tenevano,
    Se a caso in qualche via tra i sassi ascondersi,
    40E su pegli alti gioghi di fuggirsene
    O un Nume, o i lor destini concedessero.
    Alto allora i Garzoni: o lunge, gridano,
    Lunge questi timor donzelle pavide,
    Cacciate ogni vil cura or via dall’animo:
    45Qui certo insidie non vi son: non trovansi
    Nell’aperto latèbre: tutto vedesi,
    Nè frodi questi luoghi in se nascondono.
    Noi pur non i Lernei mostri, o l’ignifera 4
    Chimera, non di Scilla i lupi, o l’orrida
    50Cariddi ognor latrante generarono,
    Nè con morso crudel le vostre viscere
    Lacerare possiam: di Numi genere
    Siamo noi pure, e tali che su ripidi
    Monti vosco potrem cacciando scorrere,
    55Con tali detti raddolciti gli animi,
    Dai cor sicuri il timor triste scacciano,
    E mosso il piede per li prati morbidi,
    Fersi alfin presso al margo, e ai Numi cupidi,
    Allora insiem strette le palme guidano
    60Balli festosi in su l’erbetta, ed ilari
    Molti e molti infra sè giri ripetono.
    Or in agili salti i corpi librano,
    Or molli i fianchi, ed or le braccia candide
    Slanciano, e l’orme con pié alterno battono.
    65Ma i Satiri sebben lor voci armoniche

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    Ah crudi! in ascoltando, e sebben godano
    Nudate in rimirar le poppe candide,
    E pegli occhi assetati il foco bevano;
    Tanta pur del crudel morbo s’ingenera
    70Forza nei petti lor, tanto precipite
    Amor li prende, ed insana libidine,
    Che a poco a poco abbandonati i calami,
    E rotti i patti di repente sorgono
    Da terra, e tutti più che vento rapidi
    75Lor van di contro, e degli Dei ridendosi
    Ah! le pavide Ninfe, e per il subito
    Orror già fredde, avidamente assalgono,
    Di crudi lupi in guisa, che discacciano
    In ira i lor giochi l’agnellette placide,
    80Ed esanimi, e traggonle, e rapisconle,
    Qua e là nel praticel mentre saltellano,
    O sotto un ima valle, e lungi è l’inscio
    Custode, col poter dei cani vigili.
    Così coloro. Ma le Ninfe misere
    85Discinte il petto di lai mesti assordano
    La frondifera selva, e qua e là fuggono.
    Non li dirupi nè securi credono
    Luoghi per alti rovi ingombri ed orridi.
    Or di monti scoscesi i gioghi altissimi,
    90Ed or pei vasti campi i stagni attonite
    Guatan, nè modo di salvarsi trovano;
    E già la speme della fuga togliesi.
    Allor all’onde alfin si ferman trepide,

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    E dalla fronte il crin biondo con lacrime,
    95E con singhiozzi, e con lamenti flebili
    Strappano, e il Sarno, e le sorelle ondivaghe
    Mentre chiaman dal fondo, il coro affrettasi
    Delle Najadi tutte, il Sarno affrettasi
    L’azzurreggiante Re dell’onda vitrea,
    100E immenso d’acque fuor dai gorghi suscita
    Rauco sonante un rovinoso esercito.
    Ma che il Sarno, che mai quella di Najadi
    Natante schiera può, se contro ferrei
    Stanno li fati, e in adamante rigido
    105Sculte sue leggi crudelmente indurano?
    Dell’aita così prive dei Superi,
    Cielo e luce del pari avendo in odio,
    Le Ninfe, quello sol che nei difficili
    Casi rimane, alfin la morte bramano,
    110E mosse già nel fiume per immergersi,
    Inchinavan le membra, ed anelavano
    Basse col volto verso l’onde liquide.
    Quand’ecco i pié repente irrigidiscono,
    Ed ampia la radice in fuor dell’ultime
    115Ugne spaziando, le vestigia rapide
    Rattiene, e al suolo le configge immobili.
    Nelle vene per sin l’errante spirito
    S’estingue allora, e su i volti virginei
    Un reo pallor non meritato stendesi:
    120Frena dei petti la corteccia il palpito.
    Posa non avvi; delle dita uscirsene

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    Rami invece vedreste, e in frondi glauche
    D’oro cosparse incanutir le treccie.
    E già il vital calor dovunque perdesi,
    125E le viscere stesse il luogo cedono
    Gelide a poco a poco, e il legno avanzasi.
    Ma benchè dure in ogni membro, ed aride
    Già sieno, e tronchi e sterpi ne circondino
    I lati d’ogni intorno, in tutto Salici;
    130Pur quest’unico ancor senso conservano,
    Gli Dei Silvani di fuggire, e al margine
    Abbarbicate della riva, all’alveo
    Del fiume in mezzo con le braccia pendere.

Note

  1. [p. 152 modifica]La Venere marina negli antichi monumenti ora si rappresenta in atto di uscir dal mare, sostenuta in una gran conchiglia da due Tritoni, con in mano li suoi lunghi cappelli, dai quali fa uscire la schiuma; ora sedente sopra un Delfino o sopra una Capra marina, scortata dalle Nereidi, e dagli Amori. Così il Declaustre. La pittura di questa Dea fu il capo d’opera del grande Apelle: di cui Ovidio:
    Si Venerem Cois numquam pinxisset Apelles,
    mersa sub aequoreis illa lateret acquis.
    Questo distico parmi possa esser tradotto così:
    Se Apelle, per cui Coo tanto sì onora,
    Mai non avese Venere dipinto,
    Nel mar nascosta ella sarebbe ancora.
  2. [p. 152 modifica]Ottenuta ch’ebbe Pigmalione la grazia da Venere, di vedere la sua statua animata, la prese in moglie; e n’ebbe un figlio di nome Pafo, il quale per gratitudine edificò in onore di Venere una città nell’Isola di Cipro, cui diede il suo nome. Ov. Met. X.
  3. [p. 152 modifica]Amatunta, oggi Limisso, città nell’isola di Cipro consacrata a Venere. E qui giovi sapere, che la grande isola di Cipro nel Mediterraneo, di cui Pafo o Baffo (V. n. 120.) Limesso od Amtunta, Salamina o Famagosta non sono che parti, era sacra a Venere; sia per l’ubertà del terreno; sia perchè è detto esserle ivi stato fabbricato il primo tempio; sia perchè eravi in antico un boschetto stabilito da questa Dea per saziare la sua libidine. Costumavano li Cipriotti esporre le loro figlie sul lido del mare, onde si meschiassero coi naviganti, per così consacrarle a Venere. Ma questa è favola, nè avrà un [p. 153 modifica]fondamento, che nella naturale disposizione delle donne al piacere, massime in un paese ridente.
  4. [p. 154 modifica]L’Idra che giaceva in Lerna, luogo della Morea, era un mostro, a cui Ercole non potè dare la morte, che con abbruciarla. Essa era figlia di Tifone ed Echidna: avea cinquanta teste, e quando se ne tagliava una, ne rinascevano tante, quante ne restavano dopo la tagliatura. Dagli stessi genitori era nata anche la Chimera mostro, che avea la testa di leone, la coda di drago, ed il corpo di capra, e dalle fauci vomitava fiamme di fuoco. ― Scilla e Cariddi è passo difficilissimo nel mar di Sicilia, perocchè quella presenta uno scoglio, questa un vortice rapidissimo d’acque presso il Faro di Messina, anticamente Pelorum. Fingono li poeti, che Scilla, figlia di Forco e della Ninfa Creteide, fosse prima canceata sino al pube in un cane, che sempre latrava, per incantesimo di Circe, alla quale Glauco non voleva corrispondere, sino a che fosse viva Scilla, che tanto amava. Dicono quindi, che inorridita di sè medesima, si lanciasse nel mare, dove fu trasformata in uno scoglio. Parimente di Cariddi si narra, che fosse donna rapacissima e ladra, la quale, avendo rubate le vacche d’Ercole, fu da Giove, di lui padre, fulminata, ed immersa nel mare, dove tuttora conserva la primitiva ingordigia coll’assorbire entro alli suoi gorghi le navi. V. Virg. lib III. Eneid.