Pensieri e discorsi/Il sabato/VI
Questo testo è stato riletto e controllato. |
◄ | Il sabato - V | Il sabato - VII | ► |
VI.
Il più dolce e il più bello della sua poesia sta nel rimpianto di quello stato soave, di quella stagion lieta. Stato soave, stagion lieta, se crediamo a lui che tante volte e in tante forme lo dice. Ma si può avere qualche ragionevole dubbio che fosse così. Grato occorre, dice egli stesso,
Il rimembrar delle passate cose,
Ancor che tristo, e che l’affanno duri!
Nel tempo giovanil, quando ancor lungo
La speme e breve ha la memoria il corso.
Certamente accade in noi questo inganno continuo, che altri spiegherà, ma che tutti, credo, possono avere sperimentato: che pensiamo sempre che la felicità sia avanti noi, nell’avvenire, e proviamo sempre che è dietro noi, nel passato. Ciò in un andare di vita comune, senza scosse soverchie. Questa illusione era anche del Leopardi, poichè grato gli era di rimembrare il passato, ancorchè tristo. E più doveva ubbidirle a proposito della sua fanciullezza di piccolo trionfatore nei giuochi romani, di vincitore nei primi studi, in quanto che egli non ebbe, si può dire, che fanciullezza. La sua fanciullezza appassì come un fiore insidiato da un baco segreto, senza nè esser colto nè allegare. Anche l’aspetto era, non si sapeva se di fanciullo o di vecchio: di giovane, non fu mai. Nè si sa, se di vecchio o di fanciullo fossero più certi suoi gusti, certe sue ripugnanze, certe sue ritrosie. Anche i suoi amori somigliano a quei grandi tuffi di sangue, che ognuno ha provati da ragazzo, quando il genio della specie dorme ancora o ha appena un occhiolino aperto. Lasciamo Aspasia all’ammirazione degli uomini fatti: Nerina e Silvia sono le fanciulle che si vedono lontano, dalla finestra del collegio, e si rivedono da presso, nella passeggiata, con un sussulto che rende immobili, con una vampa che agghiaccia. Non ebbe giovinezza, dunque, e il ricordo della sua prima età addolcì o amareggiò, non so bene, quasi per intero, la sua vita di poeta e di pensatore, come di tale che, studiando sempre sè stesso, e dalla sua esperienza e qualche volta dalla sua imaginazione prendendo gli argomenti de’ suoi giudizi, allargava sino alla storia del genere umano e dei popoli la conclusione che egli aveva presa intorno a sè stesso.
Né solo è vero quel che un nobilissimo pensatore scrisse di lui, che “il ricordare trascorsi, il rimpiangere perduti (i primi anni) fu l’unica sorgente della sua poesia„, ma altresì che della sua politica e della sua filosofia bisogna cercare la fonte in questo suo tempo migliore. Parrà strano a chi crede, come credono quasi tutti, a un mutamento radicale avvenuto nelle idee e nei sentimenti del Leopardi dopo il 17. Ma io penso che nella sua vita accadesse invece come un cataclisma intimo, che la spezzò in due. Tra le due parti è un baratro; ma le due parti sono della stessa formazione. Quando avvenisse questo dissidio, non si può dire a puntino: ci fu forse una lenta corrosione, piuttosto che un improvviso schianto; ma avvenne. Negli ultimi anni della sua vita egli derideva quel generale austriaco-papalino che si portò cosí bene alla battaglia di Faenza: i papalini fuggirono, e li. . . . precedeva in fervide sonanti
Rote il Colli gridando: Avanti avanti.
Giacomo amava la patria italiana. Egli scrive al Giordani: “mia patria è l’Italia; per la quale ardo d’amore, ringraziando il cielo di avermi fatto italiano„. Ma aggiunge: “perchè alla fine la nostra letteratura, sia pur poco coltivata è la sola figlia legittima delle due sole vere tra le antiche„. È un amore dunque letterario quale poteva averlo da bambino, sebbene aspirasse allora più a erudizione che a letteratura. Ma avesse il suo amore ardente avuto altre origini o fini, Giacomo non potrebbe con ciò essere chiamato “patriota„ come intenderemmo noi ora. Bene lo credettero ai suoi tempi: “Quando Giacomo (dice Carlo) stampò le prime canzoni, i Carbonari pensarono che le scrivesse per loro o fosse uno dei loro. Nostro padre si pelò per la paura„. Eppure Giacomo scrisse quelle canzoni con lo stesso animo con cui tre o quattro anni prima aveva con un suo discorso plaudito alla caduta dell’oppressore e maledetto il tentativo di re Murat. E se ne accorsero poi i liberali e i carbonari, e presero in sinistro la sua canzone sul monumento di Dante: al che il Poeta risponde “che non la scrisse per dispiacere a queste tali persone, ma parte per amor del puro e semplice vero e odio delle vane parzialità e prevenzioni; parte perchè non potendo nominar quelli che queste persone avrebbero voluto, metteva in iscena altri attori, come per pretesto e figura„. Che non potendo parlare di Austriaci, egli parlasse di Francesi, e adombrasse col nome di questi, che avevano, per esempio, degli itali ingegni
Tratte l’opre divine a miseranda
Schiavitude oltre l’Alpi,
la nefanda
Voce di libertà che ne schernia
Tra il suon delle catene e dei flagelli,