Pensieri e discorsi/Il sabato/V
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V.
Nell’instituzione di Monaldo era sopra tutto un vizio che egli con meraviglia s’intenderebbe rimproverare. Egli coltivò troppo in Giacomo il desiderio della gloria. È un’ambizione questa che si suole chiamare nobile; in verità non può esservi ambizione nobile, se nobile vuol dire buona. Ma lasciamo lì; io non voglio, nè so nè devo, fare il moralista: certo mi piacerebbe che l’uomo facesse bene, senza aver sempre di mira un altro di cui far meglio; e che specialmente nell’arte e in particolare nella poesia, la quale non è nessun merito far bene, perchè non si può far male; o si fa o non si fa; l’artista e il poeta si contentasse di piacere a sè senza cercare di piacere a tutti i costi agli altri e più d’altri. Lasciamo, ripeto; io voglio soltanto dire che questo smodato desiderio di gloria fu cagione d’infelicità a Giacomo Leopardi. Che smodato fosse in Giacomo ancor fanciullo, dice Carlo: “mostrò fin da piccolo indole alle azioni grandi, amore di gloria e di libertà ardentissimo„. Notiamo quell’amore di libertà, figlio, non fratello, di quello di gloria, come è chiaro a chi legge il secondo de’ Pensieri: “Scorri le vite degli uomini illustri, e se guarderai a quelli che sono tali, non per iscrivere, ma per fare, troverai a gran fatica pochissimi veramente grandi, ai quali non sia mancato il padre nella prima età...„ E più giù: “la potestà paterna appresso tutte le nazioni che hanno leggi, porta seco una specie di schiavitù ne’ figliuoli, che per essere domestica, è più stringente e più sensibile della civile„. E che Giacomo adattasse al caso suo, o piuttosto ne derivasse, questo principio generale, non può esser dubbio a chi ripensi le sue parole: “Io non vedrò mai cielo nè terra, che non sia Recanatese, prima di quell’accidente, che la natura comanda ch’io tema e che oltracciò secondo la natura avverrà nel tempo della mia vecchiezza; dico la morte di mio padre„. Nel tempo della vecchiezza! nel quale, come egli osserva nel pensiero citato, l’uomo “non prova stimolo... e se ne provasse, non avrebbe più impeto, nè forza, nè tempo sufficienti ad azioni grandi„. Tuttavia osserviamo che egli conclude come sia utilità inestimabile trovarsi innanzi nella giovinezza una guida esperta ed amorosa, sebbene aggiunga che ne deriva “una sorta di nullità e della giovinezza e generalmente della vita„. Ebbene che cosa poteva da ragazzo temer più che tale nullità, chi nel 17 affermava: “Io ho grandissimo, forse smoderato e insolente, desiderio di gloria; io voglio alzarmi, farmi grande ed eterno coll’ingegno e collo studio„; e nel 19: “voglio piuttosto essere infelice che piccolo„? Questo voto, povero Giacomo, si adempiè. Ora come in lui, ancora fanciullo, fu coltivato il funesto desiderio che dissi? Già, il padre era stato da fanciullo (e continuò sempre a essere) animato dal medesimo sentimento. Egli dice di sè, tra molte altre note che se ne potrebbero riferire: “È singolare però che io nutrivo brama ardentissima di sapere, e che allettato pochissimo dai trattenimenti puerili leggevo sempre e più ostinatamente quelle cose che meno intendevo, per avere la gloria di averle intese„. E poi: “Mi sono rassegnato a vivere e morire senza essere dotto, quantunque di esserlo avessi nudrita cupidissima voglia„. E la cupidissima voglia si trasfuse in Giacomo che “dai 13 anni ai 17„ scrisse da sei a sette tomi non piccoli sopra di cose erudite, come dice egli stesso, aggiungendo: “la qual fatica appunto è quella che mi ha rovinato„; e in altro luogo afferma d’essersi rovinato con sette anni di studio matto e disperatissimo; e si sa che studiava sino a tardissima notte, ginocchioni avanti il tavolino, per poter scrivere fino all’ultimo guizzo del lume morente. Eppure, a differenza del padre, da fanciullo era allettato dai trattenimenti puerili: dal che si deve dedurre, che del disperatissimo studio suggerito dallo smoderato desiderio di gloria, fosse, almeno in parte, causa l’educazione stessa che riceveva dal padre. Il quale nel 1801, per dirne una, aveva eretto in casa sua un’accademia poetica, che vi durò tre o quattro anni, e poi perì, quando non ebbe più la sua “casa paterna„. Perchè Monaldo l’aveva eretta? Perchè “queste accademie sono un piccolo teatro in cui si può fare una qualche pompa di ingegno comodamente e senza bisogno di grandi capitali scientifici, eccitano alcun principio di emulazione, accendono qualche desiderio di gloria, impongono l’amore per lo studio o per lo meno la necessità di simularlo...„
A quelle accademie erano poi succeduti i saggi quasi pubblici dei figliuoli con presso a poco il medesimo intendimento. E Monaldo mostrava certo il suo compiacimento per la splendida riuscita del suo primogenito più che non lasciasse vedere la sua pena nell’accorgersi come, per usare le parole della contessa Teia-Leopardi, “il gracile corpo del figlio si sconciasse e alterasse pel faticoso e continuo maneggio di enormi in-foglio e dei pesanti volumi della Poliglotta e dei SS. Padri„. La medesima afferma che il conte Monaldo accarezzò grandemente questa tendenza del figlio. È vero che in altro luogo ricorda che il conte Monaldo stesso animava i figli a quegli esercizi che giudicava molto atti a svilupparne le membra. Nel che peraltro è da osservare che si tratta dei giuochi romani, e che con essi, sempre secondo la contessa Teia, il conte Monaldo voleva fomentare il gusto delle cose elevate, delle gesta e delle rappresentazioni eroiche. Io non intendo biasimare questo padre; ma certo egli stesso sarebbe stato più felice dell’amore dei figli, se ne avesse coltivato più le tendenze umane che quelle eroiche, e li avesse voluti più affettuosi che gloriosi. È vero che non avremmo avuto forse un Giacomo Leopardi, ma egli non sarebbe stato così infelice. Ma è vero ancora che Giacomo comprendeva di poter scegliere tra la infelicità e la mediocrità, e che scelse la prima.
Forse non avremmo avuto... E se avessimo un Leopardi più legato di quello che pur è, alle memorie della fanciullezza? più poeta di quello che noi possiamo appena sognare che si possa essere?