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[p. 121 modifica] cosa falsissima; e si veda nel migliore e piú celebre pezzo del Bossuet, quello in fine all’orazione di Condé, che effetto fa l’introduzione di se stesso. Al qual pezzo io paragono quello di Cicerone nella Miloniana (ch’è forse la sua migliore orazione, come questo è forse il piú gran pezzo di essa) il quale si combina parimente ch’è nel fine, dove per intenerire i giudici introduce menzione di se stesso, e mi par che faccia un effetto incredibile, come e piú di quello che fa il Bossuet; tanto può l’introdurre se stesso nei discorsi eloquenti, al contrario di quello che si crede.


*   La duttilità della lingua francese si riduce a potersi fare intendere, la facilità di esprimersi nella lingua italiana ha di piú il vantaggio di scolpir le cose coll’efficacia dell’espressione; di maniera ch’il francese può dir quello che vuole e l’italiano può metterlo sotto gli occhi, quegli ha gran facilità di farsi intendere, questi di far vedere. Però quella lingua che, purché faccia intendere, non cerca altro, né cura la debolezza dell’espressione, la miseria di certi tours (per li quali la lodano di duttilità) che esprimono la cosa ma freddissimamente e slavatissimamente e annacquatamente è buona pel matematico e per le scienze; nulla per l’immaginazione la quale è la vera provincia della lingua italiana: dove però è chiaro che l’efficacia non toglie la precisione anzi l’accresce, mettendo quasi sotto i sensi quello che i francesi mettono solo sotto l’intelletto, ond’ella non è men buona per le scienze che per l’eloquenza e la poesia, come si vede nella precisa efficacia e scolpitezza evidente del Redi, del Galilei ec.


[p. 122 modifica]*   Nella quistione se [si] debba dire be ce de ec. o bi ec. e però abbiccí o abbeccé, della quale vedi il Manni, Lezioni di lingua toscana, io, senza cercare l’uso di qual città debba far legge, ma quale sia piú ragionevole, preferisco l’abbeccé, ch’è anche nostro marchegiano, per ragioni cavate dalla natura, la quale pare che quel riposo vocale per la cui necessità soltanto si dà il nome alle consonanti, lasciando le vocali sole come sono (quantunque gli antichi greci, ebrei ec. nominassero anche le vocali), l’abbia ristretto all’e; onde provatevi a pronunziar sola una consonante per esempio l’f o l’n (metto queste sulle quali non cade la quistione né l’uso di pronunziare piuttosto in un modo che in un altro), vedrete che la pronunzia non potendo star sospesa e finita nella pura consonante, e dovendo cascare in vocale, vi casca nell’e: cosí vediamo che i fanciulli nel leggere, e chiunque trascina la pronunzia delle parole, a quelle lettere che non hanno vocale dopo aggiunge un mezzo e, come in aredenetemenete ine pace ec. Però gli ebrei (e credo che cosí sia in tutte le lingue orientali), ponendo sempre un riposo dopo ogni consonante o espresso o sottinteso, quando manca la vocale, ci mettono o ci suppongono lo sceva, tanto in mezzo che in fine delle parole; il quale talora si pronunzia talora no, e in genere si può molto propriamente rassomigliare all’e muta dei francesi, i quali non hanno altra vocale muta che l’e; nuova prova di quel ch’io dico.


*   Io1, per esprimere l’effetto indefinibile che fanno in noi le odi di Anacreonte, non so trovare similitudine ed esempio piú adattato di un

Note

  1. Vedi a questo proposito la pag. 3441.