Ottavia (Alfieri, 1946)/Atto primo

Atto primo

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Personaggi Atto secondo

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ATTO PRIMO

SCENA PRIMA

Nerone, Seneca.

Seneca Signor del mondo, a te che manca?

Ner.   Pace.
Seneca L’avrai, se ad altri non la togli.
Ner.   Intera
l’avria Neron, se di abborrito nodo
stato non fosse a Ottavia avvinto mai.
Seneca Ma tu, de’ Giulj il successor, del loro
lustro e poter l’accrescitor saresti,
senza la man di Ottavia? Ella del soglio
la via t’aprí: pur quella Ottavia or langue
in duro ingiusto esiglio; ella, che priva
di te cosí, benché a rival superba
ti sappia in braccio, (ahi misera!) ancor t’ama.
Ner. Stromento giá di mia grandezza forse
ell’era: ma, stromento de’ miei danni
fatta era poscia; e tal pur troppo ancora
dopo il ripudio ell’è. La infida schiatta
della vil plebe osa dolersen? osa
pur mormorar del suo signor, dov’io
il signor sono? — Omai di Ottavia il nome,
non che a grido innalzar, non pure udrassi

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sommessamente infra tremanti labra,

mai profferire; — o ch’io Neron non sono.
Seneca Signor, non sempre i miei consigli a vile
tenuto hai tu. Ben sai, com’io, coll’armi
di ragion salde, arditamente incontro
al giovanile impeto tuo mi fessi.
Biasmo, e vergogna io t’annunziava, e danno,
dal repudio di Ottavia, e piú dal crudo
suo bando. In cor del volgo addentro molto
Ottavia è fitta: io tel dicea: t’aggiunsi
che Roma intera avea per doni infausti
di Plauto i campi, e il sanguinoso ostello
di Burro, a lei sí feramente espulsa
con tristo augurio dati: e dissi...
Ner.   Assai
dicesti, è ver; ma il voler mio pur festi. —
Forse il regnar tu m’insegnavi un tempo,
ma il non errar giammai, né tu l’insegni,
né l’apprend’uomo. Or basti a me, che accorto
fatto m’ha Roma in tempo. Error non lieve
fu l’espeller colei, che mai non debbe,
mai stanza aver lungi da me...
Seneca   Ten duole
dunque? ed è ver quanto ascoltai? ritorna
Ottavia?
Ner.   Sí.
Seneca   Pietá di lei ti prese?
Ner. Pietade?... Sí: pietá men prese.
Seneca   Al trono
compagna e al regal talamo tornarla,
forse?...
Ner.   Tra breve ella in mia reggia riede.
A che rieda, il vedrai. — Saggio fra’ saggi,
Seneca, tu giá mio ministro e scorta
a ben piú dubbie, dure, ed incalzanti
necessitá di regno; or, men lusingo,

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tu non vorrai da quel di pria diverso

mostrarmiti.
Seneca   Consiglio a me, pur troppo!
chieder tu suoli, allor che in core hai ferma
giá la feral sentenza. Il tuo pensiero
noto or non m’è; ma per Ottavia io tremo,
udendo il parlar tuo.
Ner.   Dimmi; tremavi
quel dí, che tratto a necessaria morte
il suo fratel cadeva? e il dí, che rea
pronunziavi tu stesso la superba
madre mia, che nemica erati fera,
tremavi tu?
Seneca   Che ascolto io mai? l’infame
giorno esecrando rimembrar tu ardisci? —
Entro quel sangue tuo me non bagnai;
tu tel bevesti, io tacqui; è ver, costretto
tacqui; ma fui reo del silenzio, e il sono,
finch’io respiro aura di vita. — Ahi stolto,
ch’io allor credetti, che Neron potria
por fine al sangue col sangue materno!
Veggo ben or, ch’indi ha principio appena. —
Ogni nuova tua strage a me novelli
doni odiosi arreca, onde mi hai carco;
né so perché. Tu mi costringi a torli;
prezzo di sangue alla maligna plebe
parran tuoi doni: ah! li ripiglia; e lascia
a me la stima di me stesso intera.
Ner. Ove tu l’abbi, io la ti lascio. — Esperto
mastro sei tu d’alma virtú: ma, il sai,
ch’anco non sempre ella si adopra. Intatta
se a te serbar piacea l’alta tua fama,
ed incorrotto il cor, perché l’oscuro
tuo patrio nido abbandonar, per questo
reo splendore di corte? — Il vedi: insegno
io non Stoico a te Stoico; e sí il mio senno,

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tutto il deggio a te solo. — Or, poiché tolto

ti sei, quí, stando, il tuo candor tu stesso;
poiché di buono il nome, ov’uom sel perda,
mai nol racquista piú; giovami, il puoi.
Me giá scolpasti dei passati falli;
prosiegui; lauda, e l’opre mie colora;
ch’è di alcun peso il parer tuo. Te crede
men rio che altr’uom la plebe; in te gran possa
tuttor suppon sovra il mio cor: tu in somma,
tal di mia reggia addobbo sei, che biasmo
di me non fai, che piú di te nol facci.
Seneca Ti giova, il so, ch’altri pur reo si mostri:
divisa colpa, a te men pesa. Or sappi,
ch’io, non reo de’ tuoi falli, io pur ne porto
la pena tutta: del regnar mi è dato
il miglior premio; in odio a tutti io sono.
Qual mi puoi nuova infame cura imporre,
che aggiunga?...
Ner.   Ei t’è mestier dal cor del volgo
trarre Ottavia.
Seneca   Non cangia il volgo affetti,
come il signore; e mal s’infinge.
Ner.   All’uopo
ben cangia il saggio e la favella, e l’opre:
e tu sei saggio. Or va; di tua virtude,
quanta ella sia, varrommi, il dí che appieno
dir potrò mio l’impero: io son frattanto,
il mastro io sono in farlo mio davvero,
l’alunno tu: fa ch’io ti trovi or dunque
docile a me. Non ti minaccio morte;
morir non curi, il so; ma di tua fama
quel lieve avanzo, onde esser carco estimi,
pensa che anch’egli al mio poter soggiace.
Torne a te piú, che non ten resta, io posso.
Taci omai dunque, e va; per me t’adopra.
Seneca Assolute parole odo, e cosperse

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di fiele e sangue. — Ma l’evento aspetto,

qual ch’ei sia pure. — Ogni mio ajuto è vano
a’ tuoi disegni, e reo. Che a sparger sangue
Neron per se non basti sol, chi ’l crede?


SCENA SECONDA

Nerone.

— E con te pur la tua virtú mentita,

altero Stoico, abbatterò. Punirti
seppi finor coi doni: al dí, ch’io t’abbia
dispregievole reso a ogni uom piú vile,
serbo a te poi la scure. — Or, qual fia questa
mia sovrana assoluta immensa possa,
cui si attraversan d’ogni parte inciampi?
Ottavia abborro; oltre ogni dir Poppea
amo; e mentir l’odio e l’amore io deggio?
Ciò che al piú vil de’ servi miei non vieta
forza di legge, il susurrar del volgo
fia che s’attenti oggi a Neron vietarlo?


SCENA TERZA

Nerone, Poppea.

Poppea Alto signor, sola mia vita; ingombro

di cure ognora, e dal mio fianco lungi,
me tieni in fera angoscia. E che? non fia,
ch’io lieto mai del nostro amor ti vegga?
Ner. Lunge da te, Poppea, mi tien talvolta
il nostro amor; null’altro mai. Con grave
e lunga pena io t’acquistava; or debbo
travagliarmi in serbarti: il sai, che a costo
anco del trono, io ti vo’ mia...
Poppea   Chi tormi

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a te, chi ’l può, se non tu stesso? è legge

ogni tuo cenno, ogni tua voglia in Roma.
Tu in premio a me dell’amor mio ti desti,
tu a me ti togli; e il puoi tu appien; com’io
sopravvivere al perderti non posso.
Ner. Toglierti a me? né il pur potrebbe il cielo.
Ma ria baldanza popolar, non spenta
del tutto ancor, biasmare osa frattanto
gli affetti del cor mio: quindi m’è forza,
che antivedendo io tolga...
Poppea   E al grido badi
del popolo?
Ner.   Mostrar quant’io l’apprezzi
spero, in breve; ma a questa Idra rabbiosa
lasciar niun capo vuolsi: al suolo appena
trabalzerá l’ultima testa, in cui
Roma fonda sua speme; e infranta a terra,
lacera, muta, annichilata cade
la superba sua plebe. Appien finora
me non conosce Roma: a lei di mente
ben io trarrò queste sue fole antiche
di libertá. De’ Claudj ultimo avanzo
Ottavia, or suona in ogni bocca; il suo
destin si piange in odio mio, non ch’ella
s’ami: non cape in cor di plebe amore:
ma all’insolente popolar licenza
giova il fren rimembrar debile e lento
di Claudio inetto, e sospirar pur sempre
ciò che piú aver non puote.
Poppea   È ver; tacersi,
Roma nol sa; ma, e ch’altro omai sa Roma,
che cinguettar? Dei tu temerne?
Ner.   Esiglio
lieto troppo, ed incauto, a Ottavia ho scelto.
Intera stassi di Campania al lido
l’armata, in cui recente rimembranza

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vive ancor d’Agrippina. Entro quei petti,

di novitá desio, pietá fallace
della figlia di Claudio, animo fello,
e ria speranza entro quei petti alligna.
Io mal colá bando a lei diedi, e peggio
farei quivi lasciandola.
Poppea   Tenerti
dee sollecito tanto omai costei?
Oltre il confin del vasto impero tuo
che non la mandi? esiglio, ove pur basti,
qual piú securo? e qual deserta piaggia
remota è sí, che t’allontani troppo
da lei, che darsi il folle vanto ardisce
d’averti dato il trono?
Ner.   Or, finché tolto
del tutto il poter nuocermi le venga,
stanza piú assai per me secura ell’abbia
Roma, e la reggia mia.
Poppea   Che ascolto? In Roma
Ottavia riede!
Ner.   A mie ragion dá loco...
Poppea Ove son io, colei?...
Ner.   Deh! m’odi...
Poppea   Intendo;
ben veggo;... io tosto sgombrerò...
Ner.   Deh! m’odi:
Ottavia in Roma a danno tuo non torna;
a suo danno bensí...
Poppea   Vedrai tu tosto,
ch’ella vi torna al tuo. Ti dico intanto,
che Ottavia e me, vive ad un tempo entrambe,
non che una reggia, una cittá non cape.
Rieda pur ella, che Neron sul seggio
locò del mondo; ella a cacciarnel venga.
Di te mi duol, non di me no, ch’io presso
d’Otton mio fido a ritornar son presta

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Amommi ei molto, e ancor non poco ei m’ama:

potess’io pur quell’amator sí fermo
ríamare! Ma il cor Poppea non seppe
divider mai; né vuole ella il tuo core
con l’abborrita sua rival diviso.
Non del tuo trono, io sol di te fui presa,
ahi lassa! e il sono: a me lusinga dolce
era l’amor, non del signor del mondo,
ma dell’amato mio Neron: se in parte
a me ti togli; se in tuo cor sovrana,
sola non regno, al tutto io cedo, al tutto
io n’esco. Ahi lassa! dal mio cor potessi
appien cosí strappar la immagin tua,
come da te svellermi spero!...
Ner.   Io t’amo,
Poppea, tu il sai: di quale amor, tel dica
quant’io giá fei; quanto a piú far mi appresto.
Ma tu...
Poppea   Che vuoi? poss’io vederti al fianco
quell’odíosa donna, e viver pure?
poss’io né pur pensarvi? Ahi donna indegna!
che amar Neron, né può, né sa, né vuole;
e sí pur finger l’osa.
Ner.   Il cor, la mente
acqueta; in bando ogni timor geloso
caccia: ma il voler mio rispetta a un tempo.
Esser non può, ch’ella per or non rieda.
Giá mosso ha il piè ver Roma: il dí novello
quí scorgeralla. Il vuol la tua non meno,
che la mia securtá: che piú? s’io ’l voglio;
io non uso a trovare ostacol mai
a’ miei disegni. — Io non mi appago, o donna,
d’amor, qual mostri, d’ogni tema ignudo.
Chi me piú teme ed obbedisce, sappi,
ch’ei m’ama piú.
Poppea   ... Troppo mi rende ardita

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il temer troppo. Oh qual puoi farmi immenso

danno! il tuo amor tu mi puoi torre... Ah! pria
mia vita prendi: assai minor fia il danno.
Ner. Poppea, deh! cessa: nel mio amor ti affida.
Mai non temer della mia fede: al mio
voler bensí temi d’opporti. Abborro,
io piú che tu, colei che rival nomi.
Da’ suoi torbidi amici appien disgiunta,
quí di mie guardie cinta la vedrai,
non tua rival, ma vil tua ancella: e in breve,
s’io del regnar l’arte pur nulla intendo,
ella stessa di se palma daratti.