Osservazioni di Giovanni Lovrich/De' Costumi de' Morlacchi/§. 15. Musica, e Poesia

§. 15. Musica, e Poesia

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§. XV.

Musica, e Poesia.

P
Er la compiacenza di decantar le gloriose gesta degli antichi Eroi della Nazione, i Morlacchi quasi tutti sono Musici. I loro canti eroici sono composti di versi decasillabi, ora rimati a due a due, ed ora no. Ciascuno di questi versi è preceduto, cantando da un lunghissimo oh! con cui pure si chiudono. La modulazione della voce ne’ canti eroici è rapida. Gli oh! che sembrano tanti urli de’ Lupi, sono i trilli. Quando un cantore è accompagnato da qualche strumento, i trilli sono flebili. La Gusla è lo strumento principale di Musica, che si adopera cantando, ed è fatta da una corda sola, composta di molti crini di cavallo, uniti insieme: L’arco della Gusla à una corda simile. Pochi sono i Morlacchi, che sappian suonar a perfezione questo [p. 127 modifica]strumento Musicale, con cui si pretende di mover qualunque affetto a guisa degli antichi Greci; ma chi è assuefatto alla Musica Italiana non può risentir altro vantaggio, che quello di restar attuffato in una profondissima melanconia. Se v’è qualche distinto suonator di Gusla è ascoltato con sommo silenzio, ed attenzione da’ suoi Nazionali. D’onde proviene ciò? Le loro orecchie armoniche sono talmente organizzate che, per provar il piacer della Musica, ànno duopo di que’ suoni, cui li addattò la consuetudine, che si cangiò in Natura. E che sia vero ciò, la Musica Italiana li annoja a maggior segno, in quella foggia istessa, che la Musica Morlacca annoja un’Italiano. I ciechi si procacciano il vitto andando in giro a suonar la gusla, e cantare. In tal modo non si addossano la taccia di Birboni. Essi cantano molte Canzoni anche all’improvviso, e sembra, che ciò, che la Natura tolse ai loro occhi, abbia donato al loro ingegno di poetar con somma felicità. I loro versi ànno de’ gran lampi di fuoco d’immaginazione, e fanno un gran colpo sull’anima degli ascoltanti; ma le anime de’ Morlacchi semplici, e poco arricchite d’idee raffinate ànno bisogno di piccioli urti per iscuotersi, direbbe il Fortis, poichè vide piagnere, e sospirare alcuno per qualche tratto, che in esso non risvegliava commozione alcuna. Ma dice taluno, ch’è meglio, ch’egli stia a quell’altra sua opinione attaccato, ch’è probabile, che il valore delle parole Illiriche, meglio inteso da’ Morlacchi, che da esso lui, abbia prodotto questo effetto. Le Canzoni antiche de’ Morlacchi ànno delle immagini vivissime, nè il disordine forma il principal carattere de’ loro racconti Poetici, come parve al Fortis, ed e’ s’inganna di molto, chè chi gli ascolta, o legge, convien [p. 128 modifica]che „supplisca a piccioli dettagli di precisione, de’ quali non posson mancare, senza qualche sorta di mostruosità le narrazioni in prosa, o in verso delle Nazioni colte di Europa„. Non sì può dir assolutamente però, che le loro Poesie non abbian questo difetto, ma ciò spesso proviene anche dall’alterazione di chi le scrive,1 o tradizionalmen[p. 129 modifica]te conserva, come alterati certi passi di alcuni Au[p. 130 modifica]tori da que’, che li citano, si mette loro in bocca ciò, che non ànno mai immaginato, e si muta intieramente il vero senso, ed al Fortis, cui non manca ingegno, e capacità, dovrebbono essere noti questi accidenti. Oltre la Gusla vi sono degli altri stromenti Musicali fra’ Morlacchi. La Tambura, ch’è una specie di mandorlino con due corde metalliche è lo strumento Musicale, il più nobile di tutti, a suon di cui pure si canta. Le diple, che sono fatte da una canna, coniata ad un otre, accompagnato colle strette del braccio, sono strumenti da fiato, come pure lo zufolo, e le sampogne a suon de’ quali non si canta però mai. Ma i Morlacchi cantano anche senza strumenti, e a tutte le ore per così dire. Se viaggiano,2 se lavorano, se mangiano se conversano, sempre si sentono anche a cantare. È probabile, che la loro Musica, benchè rozza sia atta a farli por in obblio la melanconia, cui bene [p. 131 modifica]spesso dovrebbono soggiacere; a motivo della loro miserabile situazione. Alcune delle loro composizioni ànno un no so che dell’Orientale. Per esprimere la ferocia di Marco Kraglicvich, ch’è quel Campione, di cui più di ogni altro si sente risuonar il nome fra essi, ò udito cantare

          Jasce Kogna Marco Kraglievichiu:
          S’iednom smiom Kogna zauzdaie,
          A drughamu za Kanciu slusci.
          
          Marco de’ Re’ sul suo destrier cavalca:
          Una vipera in man per briglia tiene,
          L’altra di spron gli serve.

Più antiche, che sono le loro Poesie tradizionali, più le pizziccano di questo gusto.

È cosa certa già, che il poetare è un particolar dono della Natura, ma sembra che questo dono non sia dato ugualmente a tutte le lingue. I Morlacchi di giorno in giorno, e di mano in mano, che succede qualche fatto memorabile, formano le loro canzoni colla giusta misura del verso, senza saper cosa il verso sia. Un Istorico giudizioso potrebbe raccoglier dalle loro Poesie moltissime notizie, appartenenti alla Storia della Nazione. La lingua nostra armoniosa per natura dovrebbe produr degli eccellenti Poeti, se sapessero unirvi anche l’arte, ed una volta i più colti si esercitavano ne’ metri Illirici, quali bene intesi niente invidiano le più perfette Poesie degl’Italiani. Lunga cosa sarebbe tesser ora il catalogo de’ nostri Poeti, ma non si può a meno di non nominare il rinomato, e per sempre immortale Giovanni Gondola da Ragusi. Il suo poema di Osman Secondo, meriterebbe ben di veder la luce, se l’invi[p. 132 modifica]dioso tempo non ci avesse furati due pregiabili canti, che dovrem forse sospirarli per sempre. L’elevatezza del pensare, la dolcezza del verseggiare, e la naturalezza della rima, che in lui si ammirano, devono far insuperbire la Nazione Illirica, e specialmente la Patria sua di aver prodotto il suo Omero anch’essa. I più colti Dalmatini di oggi giorno non si degnano d’impiegar il proprio talento nel poetar natio, e pel timore di essere considerati barbari, dicono taluni (scioccamente credendolo un pregio) d’ignorar persino la lingua.

               . . . . . Omnia Græce
          Cum sit turpe magis nostris nescire Latine
Si potrebbe dir di loro, come Giuvenale de’ Romani.

  1. Non è delle più felici, nè delle migliori Canzoni Morlacche quella, che il Fortis tradusse, e ripose nel suo primo Volume, dopo aver parlato de’ loro costumi; nullaostante egli vi trova „un altra specie di merito, ricordante la semplicità de’ tempi Omerici, e relativo ai costumi della Nazione.“ In essa però vi sono de’ termini, degeneranti dall’antica purità, e de’ versi, che alterano la giusta misura. Ma si può dir perciò, che questo difetto sia dovuto al Poeta? No certamente. Le molte mani, per cui passano le Poesie scritte sono le sole cause di tutti gli errori, che vi potessero essere. In fatti nella sopracitata Canzone per tre volte si legge questo termine grede, che vuol dir cammina, che non è dell’antica purità. Uno che sappia la pretta lingua Illirica, per dinotar che taluno cammina, dirà sempre igie, o ide, ma non mai grede ch’è termine proprio degli abitanti del litorale, e degli Isolani, che parlan corrottamente, come si sa, la lingua nostra. L’armonia della Poesia Slava permette, che le vocali si elidano, o no a capriccio del Poeta. L’orecchio mi avvertì di questa verità; l’osservazione me la confermò. Eccone una prova
    Ni u dvoru, ni u rodu momu.
    Io sfido chiunque a trovar dieci sillabe in questo verso ed in cento altri di questa sorte, s’eliderà le vocali. Se il Fortis avesse saputo ciò, si avrebbe accorto, che i seguenti due versi della sua Canzone
    On boluie v ranamì gliutimì;
    e più sotto
    Uech gnu daie Imoskomu Kadii.
    avrebbon sonato meglio all’orecchio se si scrivevano nel seguente modo,
    On boluie u ranam gliutimi;
    Uech gnu daie Imoskom Kadii.
    ed avrebbevi, secondo il consueto, fatta la sua erudita annotazione. Ma ella sarebbe severità troppo grande il pretendere da esso così minute nozioni del verseggiar Illirico. Sarebbe anche molto il pretendere, ch’e’ possedesse perfettamente la lingua; ed io mi guarderò di condannarlo per aver egli notato, che uxinati significa far merenda, quando veramente voglia dir pranzare. Esso notò pure, che in un verso si dovesse dire Odjelitise separarsi, e non Odjeliti separare, perchè ciò era contrario alla buona sintaffi; e fin quì à egli ragione. Io poi l’avverto, che il Poeta non averà mai detto Odjeliti, e che un tal errore è del copista. Per non guastar poi la misura del verso decassilabo, ch’è questo
    Odieliti nikako ne mogla
    e per parlar nell’istesso tempo colla buona sintassi, il Poeta senza dir Odielitise, come gli insegna il Fortis, potea dir
    Odjelitse nikako ne mogla,
    Come probabilmente avrà detto, e così si ottiene e la sintassi e la giustatezza del verso. Doveva riflettere un poco il Fortis, che Odjelitise si poteva sincopare, ed allora la sua istruttiva annotazione averebbe fatta miglior comparsa.
  2. Viaggiando, e particolarmente di notte quasi sempre ogni Morlacco canta, ma quando sono molti in compagnia cantano per lo più alternativamente. Anche i Romani pare, che così facessero, come comparisce da Virgilio in una delle sue egloghe.
    Et cantare pares, & respondere parati.
    Sì mettono i Morlacchi a mangiare, non avendo altro spesse volte, che del gran Turco, e formaggio, nullaostante, quando v’è anche del vino, bisogna cantar le azioni di Marco Kraglierich