Oro incenso e mirra/L'omnibus

L'omnibus

../Testa o lettera? ../La città IncludiIntestazione 3 giugno 2008 75% Romanzi

Testa o lettera? La città


[p. 235 modifica]

L’OMNIBUS


La notte era fosca.

Il viale di circonvallazione coperto dai vecchi platani sembrava alla scarsa luce dell’unico fanale presso la barriera come un lungo andito che si perdesse nell’ombra. L’aria era umida, la tenebra così fitta che le mura stesse della città vi erano scomparse. Solo una stella laggiù, lontano, aveva un bagliore misterioso di lucerna sospesa nell’infinito.

Egli proseguì lentamente. Una tristezza vasta e silenziosa come quella tenebra era penetrata nella sua anima, occupandone tutto il deserto. Nessun ricordo gli vigilava più nella memoria, non una idea gli attraversava la coscienza. Era solo. Il suo passo strideva sulla ghiaia minuta del viale come un lamento. L’ombra e il silenzio si dilatavano nella notte.

Egli alzò macchinalmente gli occhi ed incontrando lo sguardo morente di quella stella trasalì. Laggiù c’era dunque un altro che naufragava nelle tenebre.

E d’improvviso credette di udire un rotolare sordo ed insieme fragoroso che s’inoltrasse: l’ombra rimaneva immobile, la terra tremava. Egli attese; [p. 236 modifica]in quella precipita ruina s’intendeva già la cadenza di un ritmo che la precedeva e la guidava. Poi due lampi forarono la tenebra, mentre le foglie degli alberi palpitavano perdutamente, e lontano, al disopra dell’ombra che pareva precipitare giù nel fossato, quei due lampi rossi tingevano di sangue i merli delle mura. D’un tratto una fanfara di sonagli scoppiò come un riso di pazzia davanti a quel terrore invisibile: quindi una ondulazione di ombre leggere e galoppanti rimbalzò sulla strada, coi sonagli che tintinnivano disperatamente e i due fanali rossi fiammeggianti come due occhi dinanzi ad una massa più nera delle tenebre, più alta degli alberi. I platani tremavano, ma più in alto ancora, su quella massa cubica, un’altra ombra, dritta come un camino sopra una casa, aveva una luce pallidissima alla punta.

Era un omnibus a tre cavalli, quella ombra in alto il cocchiere. I cavalli, coperti da un immenso velo nero che svolazzava tratto tratto sui fanali con un battito di palpebre, si riconoscevano appena.

Uno schiocco di frusta squillò: i cavalli dettero un balzo e rimasero immobili.

— Vuoi salire? — gli chiese con voce velata il cocchiere abbassando la frusta.

L’altro l’osservò. Il cocchiere seduto in serpe sul cielo dell’omnibus aveva un balenìo bianco sulla faccia. Erano gli occhi? non distingueva altro: il manico della frusta era lungo come una lancia. I cavalli immoti sotto la gramaglia del loro velo non sbruffarono nemmeno.

Il cocchiere mosse la frusta.

— Vuoi salire?

L’omnibus era lunghissimo: qualche vetro dei suoi sportelli riverberava al raggio obliquo di un [p. 237 modifica]fanale; l’interno non si discerneva, le ruote arrivavano ai vetri.

— Vuoi salire? — ripetè per la terza volta. La sua faccia irriconoscibile nella ombra ebbe come un bagliore di maiolica.

— No.

Uno schiocco di frusta vibrò, i cavalli spiccarono un salto e l’omnibus rotolò fragorosamente. Egli si rivolse e lo vide scomparire poco dopo a destra, per la seconda svolta, verso la campagna.

La notte non si era accorta di nulla. Egli proseguì, l’aria era sempre così tiepida, il buio così profondo. Poi tutta quell’apparizione, i tre cavalli apocalittici, l’omnibus, i fanali rossi che lucevano come una fiamma e guardavano come due occhi, il cocchiere quasi invisibile, il suo invito strano, tutto gli sparve colla medesima prontezza dallo sguardo e dal pensiero. In fondo al viale piegò a sinistra verso il sobborgo San Sebastiano, il più ricco e popoloso della città. I fanali erano ancora accesi, molta gente in giro. Un lungo fremito passava per la notte, il murmure lontano del fiume pareva un gemito di ferito. D’improvviso due colonne bianche balenarono sul margine della strada: la villa nascosta dagli alberi non si distingueva, ma un filo di luce passava per l’ultima finestra al primo piano.

Aperse la porta colla chiave, salì le scale coperte da un tappeto così grosso che soffocava ogni rumore di passi, e sempre al buio infilò l’appartamento. Un violento profumo di fiori gli battè sul viso. L’appartamento era piccolo, dall’ultimo uscio socchiuso sboccava un’onda di luce. Egli lo spinse insensibilmente e si arrestò.

Il gabinetto giallo, poco più grande di una tenda, era illuminato da un lampadario di bronzo dorato carico di candele trasparenti: un enorme spec[p. 238 modifica]chio riluceva nel fondo, i mobili erano dorati; nel mezzo, sdraiata sopra una pelle di orso nero, una donna vestita di bianco fumava una sigaretta.

Ella si era passata un braccio sotto la testa e guardava in alto colle spalle rivolte all’uscio. I suoi capelli, neri, diffusi, si discernevano appena sulla pelle della belva; mentre una delle sue pantofole dorate fuori della veste sembrava battere nervosamente la musica di un sogno. In un angolo, sopra un plinto di marmo giallo, un’onda di garofani traboccava da un vaso d’argento.

A un tratto il suo piede si arrestò. Ella arrovesciò il capo, sorrise e con accento tranquillo disse:

— Ti ho sentito.

E lo chiamò con un gesto sulla pelle nera.

— Dimmelo subito, mi ami?

Egli non rispose.

— Rodolfo...

— Mi ami?! — esclamò con più impeto, percotendogli quasi col volto sul volto silenzioso.

Poi lasciando la presa con atto inesprimibile di disperazione e di amore:

— Che m’importa? — gridò. — Ti amo io.

— Mi hai sempre amato — egli rispose con voce quasi dolce mirandola negli occhi, e una luce lontana di stella sembrava brillare in fondo al suo sguardo nero come la notte.

La bellissima donna si confuse.

— Non ti ho sempre conosciuto.

— Quindi non mi riconoscerai sempre.

Ella si era fatta malinconica, egli era rimasto tetro: il gabinetto pieno di luce e di profumi li avvolgeva come in un’onda d’oro. Ella si levò, rimase un istante in piedi a guardarlo così sprofondato in quella meditazione, poi andò a sedersi sopra una poltrona nascondendovi il volto contro lo [p. 239 modifica]schienale. Passò del tempo: quando si alzò aveva gli occhi rossi; tornò a sedergli vicino, lo prese per le spalle ed arrovesciandosi la sua bella testa in grembo:

— Rodolfo... — esclamò rabbrividendo alla fissazione del suo sguardo: — tu guardi nel vuoto.

Ma in quel momento un impeto di vita le irruppe dal cuore, la sua fronte sfavillò.

— Povero Beniamino! — proruppe cacciandogli le mani nei ricci dei capelli e squassandoli per rompergli l’incanto di quella meditazione; — povero Beniamino, che sei triste quando tutto ti sorride intorno. Non senti come sei bello? La tua fronte è segnata dal dito della storia, un giorno il mondo ti riconoscerà per uno dei suoi grandi. Napoleone I era pallido come te, i capelli di lord Byron erano ricciuti come i tuoi: tu potrai vincere battaglie belle come una canzone e scrivere canzoni sonore come una battaglia. Aspetta: la tua ora fatale passerà anche troppo presto portandoti lontano dai miei occhi, e io non ti vedrò più che in mezzo ad una aureola di gloria, sullo sfondo nero di una procella.

La fronte di lui balenò.

— Aspetta... — ella s’affrettò a ripetere: — la storia non saprebbe che farsi della tua giovinezza, la primavera è dei fiori. Sei già celebre, il mondo ti osserva palpitando. Io ti credo: la fede che s’inspira è pur sempre la migliore delle certezze. Ascolta — proseguì anelando con una moina di terrore e di adorazione: — se ti provassi che ti amo, se il tuo pensiero abituato a tutte le magnificenze dell’infinito, se il tuo cuore pieno di tutte le pompe dell’immortalità dovessero per forza arrestarsi davanti al mio amore...

— Fermarsi è morire. [p. 240 modifica]

— No, non ancora. Se quando tu cerchi nelle tenebre dell’ignoto io avessi per te conforti di luce e di rivelazioni; se quando tutto oscilla nel dubbio del tuo pensiero io restassi salda nella fede del tuo cuore; se quando tu lotti io fossi sempre la vittoria; se quando tu vinci io fossi sempre il premio... se io fossi nel tuo ieri eterno e nel tuo dimani immortale?...

— La vita non è che l’oggi.

— E sia pure. Hai ragione, noi donne siamo caduche, siamo un fiore ed un frutto, un profumo che accarezza, un sapore che corrobora. Sali, sii grande; io non posso nulla per te; sii infinitamente infelice, la tua felicità è forse in questo. Vivi lassù, al disopra dell’aria, dove le stelle guardano nel vuoto e le comete cercano Dio: io non ho nè il diritto, nè la forza di seguirti. Ma quando discenderai dal zodiaco fiammeggiante della tua idea al comando della storia, che avrà drizzato sopra un Golgota la tua croce nera, io sarò ad aspettarti lungo la strada e avrò lagrime che laveranno tutte le tue piaghe, parole che copriranno tutti gli insulti. Ma prima, fra l’apoteosi e il martirio, sovvèngati qualche volta di me, che ti avrò amato colla stessa costanza della terra che gira intorno al sole, sovvèngati della mia vita, che sarà sboccata nella tua come una fontana nell’oceano. La fontana è piccola, ma la sua acqua si può bere.

Poi guardandolo improvvisamente come in atto di sfida proruppe:

— Ebbene, senti: che cosa daresti tu, ambizioso, per essere il maggiore fra quanti uomini furono e saranno?

— Il sembrarlo a tutti.

Ella chinò scoraggiata la fronte, mormorando:

— Mi soffochi. [p. 241 modifica]

Egli era ancora nella stessa posa, sdraiato colla testa nel suo grembo guardandola cogli occhi immobili. La sua fronte altissima era pallida come una lapide.

Ma un lampo passò ancora nelle pupille tremolanti della donna.

— Credi tu almeno nel tuo genio?

— Sei tu sicura di Dio?

Quindi egli si rialzò, le tese la mano: i suoi occhi brillavano come due stelle.

— Rodolfo, Rodolfo... — ella gemè soffocatamente — tu mi abbandoni, te lo leggo negli occhi.

L’altro non rispose.

Ma ella non si arrendeva, gli serrava le mani, gli si avviticchiava col sorriso, collo sguardo; poi alzando le braccia per gettargliele al collo con atto stanco, febbrile d’amore, mormorò:

— Vieni, dunque, dormiamo....

Egli le rattenne quel gesto.

— È già l’alba — rispose freddamente.

Fuori la notte era sempre così tenebrosa, il sobborgo aveva spento tutti i fanali, non s’udiva una voce: ma laggiù, lontano, quella piccola stella non era ancora sommersa.

Quando fu presso la città, egli piegò macchinalmente a dritta lungo lo stesso viale. Le mura non si discernevano ancora, i platani facevano sempre sul suo capo una volta anche più nera dell’ombra. D’improvviso quel medesimo fracasso rotolò lontanamente: poi quegli occhi rossi riavvamparono, i sonagli tintinnirono, gli alberi tornarono a tremare e l’ombra indietreggiò fuggendo giù nel fossato, mentre una macchia di sangue lambiva sinistramente le mura e l’ondulazione di un galoppo leggero e cadenzato rimbalzava sulla strada.

L’omnibus sembrava illuminato anche di dentro. [p. 242 modifica]Lo schiocco della frusta imitava la battuta delle nacchere.

Egli era venuto sul ciglio della strada.

Questa volta il balenìo bianco sulla faccia del cocchiere era come il riverbero di una vetriata.

— Ferma! — egli gridò stendendo la mano.

I cavalli si arrestarono stecchiti. L’omnibus illuminato internamente da un fanale bianco sopra lo sportello superiore appariva stipato nel fondo e sui sedili di casse bianche, segnate sul coperchio da una croce nera; una, la più piccina, forse di un bimbo nato e morto nel medesimo giorno, sembrava un cofanetto.

Il cocchiere attendeva colla frusta bassa.

— Salgo?

— Pieno! — l’altro rispose battendo colla frusta sui fianchi dell’omnibus.

— Salgo?

— In serpe?

Egli vi si arrampicò, ma non si era ancora assettato che il cocchiere gli domandò:

— Pronti?

— Sì.

Lo schiocco della frusta squillò e i cavalli si slanciarono. Allora esaminando il cocchiere egli s’accorse che era uno scheletro vestito di una livrea nera, con un largo cappello piatto sulla testa. Il balenìo bianco della faccia gli veniva dai denti.

Andavano colla rapidità di un sogno.

— Donde vieni? — egli domandò nel piegarsi sopra di lui ad una voltata vorticosa.

— Dall’ospedale di San Lorenzo.

— Quanti morti hai caricato?

— Non li conto io.

Vi fu una pausa. L’omnibus rotolava furiosamente, la città si era già perduta in lontananza, [p. 243 modifica]un gran viale fiancheggiato di lunghi cipressi appariva.

— Dove vai?

— Scarico al cimitero.

— Ci fermiamo lì? — chiese guardando laggiù quella stella oramai vicina ad affondarsi.

Un lampo più bianco passò sulla faccia del cocchiere, che ripetè:

— Scarico al cimitero.

Nello stesso momento la testa dell’altro gli cadeva morta sulla spalla.

Lassù, lontano, la stella si era affondata.