Questa pagina è stata trascritta e formattata, ma deve essere riletta. |
Lo schiocco della frusta imitava la battuta delle nacchere.
Egli era venuto sul ciglio della strada.
Questa volta il balenìo bianco sulla faccia del cocchiere era come il riverbero di una vetriata.
— Ferma! — egli gridò stendendo la mano.
I cavalli si arrestarono stecchiti. L’omnibus illuminato internamente da un fanale bianco sopra lo sportello superiore appariva stipato nel fondo e sui sedili di casse bianche, segnate sul coperchio da una croce nera; una, la più piccina, forse di un bimbo nato e morto nel medesimo giorno, sembrava un cofanetto.
Il cocchiere attendeva colla frusta bassa.
— Salgo?
— Pieno! — l’altro rispose battendo colla frusta sui fianchi dell’omnibus.
— Salgo?
— In serpe?
Egli vi si arrampicò, ma non si era ancora assettato che il cocchiere gli domandò:
— Pronti?
— Sì.
Lo schiocco della frusta squillò e i cavalli si slanciarono. Allora esaminando il cocchiere egli s’accorse che era uno scheletro vestito di una livrea nera, con un largo cappello piatto sulla testa. Il balenìo bianco della faccia gli veniva dai denti.
Andavano colla rapidità di un sogno.
— Donde vieni? — egli domandò nel piegarsi sopra di lui ad una voltata vorticosa.
— Dall’ospedale di San Lorenzo.
— Quanti morti hai caricato?
— Non li conto io.
Vi fu una pausa. L’omnibus rotolava furiosamente, la città si era già perduta in lontananza,