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in quella precipita ruina s’intendeva già la cadenza di un ritmo che la precedeva e la guidava. Poi due lampi forarono la tenebra, mentre le foglie degli alberi palpitavano perdutamente, e lontano, al disopra dell’ombra che pareva precipitare giù nel fossato, quei due lampi rossi tingevano di sangue i merli delle mura. D’un tratto una fanfara di sonagli scoppiò come un riso di pazzia davanti a quel terrore invisibile: quindi una ondulazione di ombre leggere e galoppanti rimbalzò sulla strada, coi sonagli che tintinnivano disperatamente e i due fanali rossi fiammeggianti come due occhi dinanzi ad una massa più nera delle tenebre, più alta degli alberi. I platani tremavano, ma più in alto ancora, su quella massa cubica, un’altra ombra, dritta come un camino sopra una casa, aveva una luce pallidissima alla punta.

Era un omnibus a tre cavalli, quella ombra in alto il cocchiere. I cavalli, coperti da un immenso velo nero che svolazzava tratto tratto sui fanali con un battito di palpebre, si riconoscevano appena.

Uno schiocco di frusta squillò: i cavalli dettero un balzo e rimasero immobili.

— Vuoi salire? — gli chiese con voce velata il cocchiere abbassando la frusta.

L’altro l’osservò. Il cocchiere seduto in serpe sul cielo dell’omnibus aveva un balenìo bianco sulla faccia. Erano gli occhi? non distingueva altro: il manico della frusta era lungo come una lancia. I cavalli immoti sotto la gramaglia del loro velo non sbruffarono nemmeno.

Il cocchiere mosse la frusta.

— Vuoi salire?

L’omnibus era lunghissimo: qualche vetro dei suoi sportelli riverberava al raggio obliquo di un