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Egli era ancora nella stessa posa, sdraiato colla testa nel suo grembo guardandola cogli occhi immobili. La sua fronte altissima era pallida come una lapide.
Ma un lampo passò ancora nelle pupille tremolanti della donna.
— Credi tu almeno nel tuo genio?
— Sei tu sicura di Dio?
Quindi egli si rialzò, le tese la mano: i suoi occhi brillavano come due stelle.
— Rodolfo, Rodolfo... — ella gemè soffocatamente — tu mi abbandoni, te lo leggo negli occhi.
L’altro non rispose.
Ma ella non si arrendeva, gli serrava le mani, gli si avviticchiava col sorriso, collo sguardo; poi alzando le braccia per gettargliele al collo con atto stanco, febbrile d’amore, mormorò:
— Vieni, dunque, dormiamo....
Egli le rattenne quel gesto.
— È già l’alba — rispose freddamente.
Fuori la notte era sempre così tenebrosa, il sobborgo aveva spento tutti i fanali, non s’udiva una voce: ma laggiù, lontano, quella piccola stella non era ancora sommersa.
Quando fu presso la città, egli piegò macchinalmente a dritta lungo lo stesso viale. Le mura non si discernevano ancora, i platani facevano sempre sul suo capo una volta anche più nera dell’ombra. D’improvviso quel medesimo fracasso rotolò lontanamente: poi quegli occhi rossi riavvamparono, i sonagli tintinnirono, gli alberi tornarono a tremare e l’ombra indietreggiò fuggendo giù nel fossato, mentre una macchia di sangue lambiva sinistramente le mura e l’ondulazione di un galoppo leggero e cadenzato rimbalzava sulla strada.
L’omnibus sembrava illuminato anche di dentro.