Novelle e racconti (Carrer)/L'Ospite
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L’OSPITE.
Idillio.
In una convalle dell’Yemen dimenticata dai viaggiatori, in cui la freschezza e abbondanza della vegetazione possono far ritratto di quello si fosse la terra nei tempi dei patriarchi, si arrestò sul far della sera, rimpetto la porta di una capanna, un viandante, che, a giudicare dal volto e dalla vigoria delle membra, esser doveva razza d’agricoltori, indurati nella fatica, ma, a certa aria di crucciosa costernazione e di profondo sconforto, si palesava travagliato da passioni non punto abituali all’uomo de’ campi.
Che che ne fosse di lui, scontrossi a pochi passi della capanna nel padrone di quella, uomo di forse quarant’anni marito avventurato di carissima donna, e padre di bella figliuolanza, cinque tra franciulli e fanciulle, chiamate da nomi esprimenti, secondo l’uso de’ buoni tempi, una qualche circostanza relativa alla loro nascita. Il nome del padrone della capanna era Ircano.
— Perchè indugi ad entrare? disse Ircano al viandante; la notte ti è sopra, ed io, non che rifiutare ospitalità al pellegrino, non volli mai aspettare d’esserne domandato. — Sia pace con te, e sotto il tetto ospitale della tua capanna, rispose il viandante. Ma io sono solito di dormire al sereno tutte le notti. Se tu non mi vieterai di posare là tra quei cespi d’isopo, io te ne avrò molto obbligo l’indomane. — E non ti piacerebbe meglio, dacchè non vuoi ritrarti al coperto, adagiare il capo là tra quelle ginestre, o sotto i tralci di quella vite? — Sospirò il viandante e riprese: — Nuova mercè, mio buon ospite, e possano essere molli i tuoi sonni, come gli steli delle giunchiglie, che fioriscono da canto a quegli antichi pedali; ma io non adagerò il capo tra le ginestre, o sotto i tralci della vite; dacchè sono abituale mio letto i cespi dello sterile isopo e del pungente ginepro. Però non ti spiaccia concedermi ch’io prenda un poco di riposo colà appunto dove ti ho detto. — Sia pure secondo desideri, soggiunse Ircano, e ritraendosi alla capanna, diceva fra sè: costui è un segnalato penitente senz’altro.
Quando Ircano fu entrato nella capanna, le ombre della notte avevano tutta occupata la faccia del cielo, e le rugiade cominciavano a ristorare dall’arsura diurna le innumerevoli piante disseminate per la campagna. Fra il silenzio universale della contrada udivasi nell’interno della capanna il lento mormorare delle preghiere, che prima di porsi a dormire recitavano in coro que’ buoni abitatori della valle. Cessato quel monotono suono, ecco uno de’ figliuoli d’Ircano domandare: — Padre mio, ch’è cotesto che udiamo al di fuori? — Sarà il rumore del rivo che si versa tra le pomici prima di spargersi per la campagna. — Padre mio, egli è rumore assai conosciuto quello del rivo, nè tale si è quello che udiamo presentemente. — Forse egli è il vento che si dibatte tra i fitti rami del terebinto nella prossima selva. — Oh il vento, egli è quello di quasi ogni notte, non ci farebbe stare sì attenti! — Questo, o altro che sia, acchetatevi, miei figliuoli; non è bene cercare per l’ombre. Le tenebre hanno i loro misteri, e ai figli dell’uomo è conceduto il giorno al lavoro, e la notte al riposo. Fosse anche il leone ruggente, non datevi briga. — Padre, egli è peggio che di leone il fremito che ascoltiamo, ma ci accheteremo per quello ne imposero le tue parole.
Detto questo, tacquero tutti, e indi a poco si addormentarono. Ircano anch’esso si distese fra le pelli del suo giaciglio, e ascoltava in silenzio il gemito cupo e prolungato che veniva dal di fuori.
Appena un poco di luce si fu intromesso negli spiragli della capanna Ircano si tolse di là ov’era giaciuto la notte, e postasi indosso la lunga vesta, e allacciatisi con diligenza i calzari, portossi all’aperto, che la moglie e i figliuoli dormivano tutti tranquillamente. E come appena avea messo il capo fuori della capanna vide il viandante che se ne stava per partire. A cui fattosi presso: — Sebbene, gli disse, tu non abbia voluto che i tuoi sonni fossero protetti dal mio tetto di vinchi, e le tue membra ristorate al tepore delle morbide lane che io tengo apparecchiate a’ miei ospiti colà entro, forse che non sdegni, prima di porti nuovamente in cammino, gustare del latte che mi dà ogni mattina una piccola greggia, che tengo custodita da canto alla mia capanna. — Duolmi, riprese il viandante, dovermi rifiutare anche a questa tua offerta. Tu sei un ospite generoso, non che di pelli e di latte, d’ogni più dolce accoglienza al viandante, e lo scontrarsi in una faccia pari alla tua è proprio una benedizione pel pellegrino; ma l’acqua che sprizza di quella roccia sarebbe d’avanzo alla mia sete. Però rimanti colla tua offerta, e quantunque soverchia, ti sia rimunerata dal cielo. Ciò detto si rimetteva sulla sua via.
Ircano si tacque tra curioso e maravigliato, e fatti due passi, alzò un poco la voce, dicendo: — E tu partirai, dunque, o viandante, che io non ti abbia stretta la mano, e domandato il tuo nome, e il luogo dove tu alberghi; affinchè se ne andassi smarrito alcuna volta in paese non conosciuto, mi sapessi cui richiedere d’asilo e di mensa? Si rivolse il viandante a quelle parole, e l’aspetto di lui si mostrava notabilmente cangiato. Pareva che i solchi del suo dolore si fossero tutti riaperti in quel punto, e la strana costernazione dell’anima improvvisamente diffusa in livide strisce sulla sua faccia. — Il mio nome? proruppe dopo un amaro sorriso: è maledizione il mio nome. E la mia mano imprime la distruzione in tutto ciò a cui ella si appressa. Vedi qua! In così dire toccava colla destra un vecchio tronco di sicomoro, e il tronco strideva, e al ritrar della mano mostravasi tutto abbrustolito in quella parte dov’era rimasto tocco. Ircano non osava soggiugnere interrogazione, e ripeteva tra sè medesimo: Chi sarà egli costui?
L’interno discorso fu inteso dallo sconosciuto, che fattosi un po’ più d’appresso ad Ircano gli disse: — Oh! lascia che io mi rimanga sconosciuto e ch’io mi parta senza essere da te maledetto. Quando i miei figli levarono la mano a percuotermi, e i figli dei miei figli anelarono al sangue dell’avo, come fa il cacciatore al sangue della belva, che devo io pensare di te che non mi hai più veduto? Io non ho albergato nella tua capanna perchè i miei sonni sono terrore. Che dico sonni? I miei occhi non si chiudono mai, mai a dormire; ma quando il cielo si annera, si aflìssano immobilmente a guardare verso oriente, di dove sale al mio sguardo alcun che di terribile, simile ad una cometa che non s’è mai veduta da altri, nè potrà mai vedersi. Ed io non posso altro che gemere, e gemere sconsolatamente, fino al tornar dell’aurora, perchè allora i miei occhi rimangono sciolti dal funesto prestigio, e posso muoverli a guardare in altra parte. Non che i miei terrori siano finiti, perchè ciò ch’è fuoco la notte per atterrirmi, il giorno è ombra che mi cammina sempre da lato; ed ora che ti parlo, ella è meco, tuttochè il sole non sia ancora levato; e tu non puoi vedere come sia spaventosa, e crolli il capo e minacci ad ogni mia parola. — Qui tacque alcun poco, e si mutò di colore guardandosi a lato. Di che Ircano ebbe tutto a rabbrividire.
Indi a poco il viandante soggiunse: Anni ed anni me ne andai vagabondo cercando misericordia, e non l’ho mai ritrovata! Oh! quando io udiva questa notte la tua famiglia che là entro pregava, il gemito del mio dolore si faceva più intenso, perchè la disperazione da lungo tempo mi entrò nelle viscere, ed io non so più sperare riposo. Eppure vi fu chi, anche dopo la maledizione fulminata sopra il mio capo, potè addolcire l’acerbità del mio esilio. Oh mia!... — E un nome morì sulle labbra allo sconosciuto, mentre una torbida lagrima gli scorrea lentamente lungo la guancia.
Riprese: Sì, finchè ella mi visse, io non potei assaporare per intero la severità del gastigo che mi era serbato. Mi disconobbero i figli, fui l’abominio de’ miei nepoti; ma ella mi stringeva senza ribrezzo al suo seno, e i suoi occhi si giravano compassionevoli alla riprovata mia fronte. Nè briciola di vivanda, nè sorso d’acqua trovò più aperto il passaggio delle mie fauci; ma gli sguardi pietosi e il mesto sorriso di lei mi erano cibo e bevanda e ogni cosa! E quando io non poteva dormire (mai non ho potuto dormire dopo la colpa!) ella vegliava al mio fianco, e tremava con me sotto la brezza inclemente del cielo! E questo mio continuo disperato dolore, questo, ahimè! la distrusse; e allora, allora veramente mi accorsi di essere maledetto, perch’era solo!
Ah quando la sua mano tremò nelle mie per l’ultima volta! La mia mano che inaridiva ogni cosa, trasfondeva una parte del mio tremito interno nella dolce compagna, senza nuocerle punto, o ch’ella non se n’avvedeva. E mi fu forza il lasciarla. Ah quando si scontrarono nei miei per l’ultima volta i suoi occhi!... Ella non più parlava di già da molte ore, ma la vita fuggitiva le si era arrestata nelle pupille: di là mi diede l’ultimo addio. Oh mia!... (qui nuovamente al proferir di quel nome le parole spirarongli sulla bocca). — E, come fu indarno il chiamarla che feci molte ore, e mi circondava la solitudine, dovetti incaricarmi io medesimo del cadavere amato, e portarlo sopra un’altura per seppellirlo. E mentre io trangosciato saliva per l’erta, volendo nascondere quelle care reliquie ove il piede dell’uomo non potesse mai giungere a calpestarle, il vento spargevami i capelli di lei sulla faccia, e il mio cuore trasaliva, e ad ogni poco sembravami di dover mancare. Ma gli anni del mio rimorso sono numerati all’enormità del mio fallo, e però non hanno mai fine! Ed ella si giace sulla vetta del monte verso oriente; e il sole nascendo fa scintillare co’ primi suoi raggi le cime dei platani che circondano la sua fossa. Io mi arresto a qualche distanza, ed ascolto la cicogna che innalza il suo mattutino lamento da’ fessi di una rupe poco indi lontana. O fosse lo spirito di lei che durasse per confortarmi!... Ma per me non vi ha più conforti, nè manco del tremolare de’ platani e del canto della cicogna sull’alba!
Io non benedirò alla tua capanna e ai tuoi figli e alla donna dell’amor tuo, perchè tutto che pronunzia il mio labbro è bestemmia; ma poichè fosti sì cortese al vagabondo, poichè gli offristi i riposi della tua capanna, e il latte delle tue greggi, abbiti questo ricordo: quantunque ramingo e mendico e perseguitato a morte dai tuoi più cari, la donna del tuo amore alleggerirà le tue pene. Che se tu sei felice, oh! tienla allora più che mai stretta al tuo seno, perchè non ti sfugga, e tutta la tua felicità se ne vada in dileguo con essa. Mentre tu esulterai di tal bene e i tuoi figli ti faranno corona, come i grappoli rosseggianti alternati sopra un medesimo tralcio, i miei passi continueranno a misurare la terra nella lor fuga. E addio, addio! chè il sole è omai presso a levare, e forse che il mio volto rischiarato a quel lume ti facesse paura, e tu fuggissi da me sbigottito, tu che hai potuto essermi sì benigno tra l’incerto crepuscolo.
Ircano impietosito voleva qui domandare: — Ma qual fu mai sì gran colpa ?... — E il viandante: Or ecco, ecco, anche tu vuoi farti simile agli altri, e ti piace a frugare nelle mie piaghe. Addio! Addio! Non mi vedrai più in tutta tua vita, benchè io viaggi sempre da oriente a occidente, verno e state, come fossero una sola stagione. Tu hai veduto il più colpevole e il più misero de’ viventi che furono, sono e saranno sopra la terra. E ogni volta che tu guarderai a quel tronco di sicomoro, ove rimase l’impronta infocata della mia mano, ricordati di me delinquente e infelice. La misericordia che usasti a me rigettato da tutti gli uomini, anzichè esserti ascritta a delitto, ti sarà ritornata a molti doppii: come a molti doppii sarà gastigato colui che macchinasse la mia rovina o faticasse per la mia morte.
Il viandante si girò senza più, e il sole sorgendo gli batteva le spalle. Ircano si ricondusse tutto malinconico alla capanna, e vide, passando da lato ai cespi d’isopo, esser tutte bruciate quell’erbe ove il viandante erasi la notte adagiato.