Novelle d'ambo i sessi/Cose da manicòmio
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COSE DA MANICÒMIO.
Non so per quale ragione, in quel pomeriggio grigio, — dopo il caffè, — io insistessi, lì a tavola, presso quella buona signora, in una serie di ragionamenti poco opportuni dopo il pranzo.
L’amico M*** lo aveva fatto capire discretamente.
Ma la signora, con la sua dolce cantilena, gli aveva detto:
— Lasciate, M***, se a lui fa piacere, a me non disturba.
— Tutti i gusti son gusti, — aveva risposto l’amico M***. — A me pare che ce ne siano abbastanza di melanconie. Perchè le volete andare a cercare?
E si era allontanato.
*
Due ragazzi rimasero lì a tavola; anzi accesero le sigarette. Certo udivano i suoni delle nostre parole, ma come rumori, come quelli che andava facendo la serva che sparecchiava.
Poi, li vidi assenti anche con la persona. Riapparivano ogni tanto. Nella sala non rimase che Pippo, fanciullo ingordo, occupato a ricercare i gherigli delle noci rimaste nei piatti.
L’argomento non era piacevole: anzi era increscevole. Ma era stato così:
L’amico M*** durante il desinare aveva detto alla signora:
— Maria, restate anche a cena.
Ella aveva risposto:
— Impossibile, mio caro. Alle quattro devo essere là. I miei cari ammalati mi aspettano.
— Io non capisco come fai, Maria, — aveva detto uno dei giovani, — a vivere coi matti.
Ella aveva risposto con semplicità:
— Io mi ci trovo bene. E poi non sono matti....
— Volete che telefoni io alla villa che stasera non potete andare? — domandò l’amico M***.
— Non insistete. È impossibile.
La signora era addetta, io non so con quale preciso ufficio, ad una casa privata di cura per le malattie nervose: un’antica villa con un parco; alquanto remota dalla città.
La buona signora Maria aveva un aspetto monacale: belle mani fuori dei polsini, orlati di un merlettino bianco: al collo, una crocettina d’oro: due occhi vivi, un piccolo sorriso, una voce saggia, senza alterazioni.
Fino a poco tempo addietro ella era stata una piccola borghese, una buona massaia, una buona mamma. Poi il cielo si era capovolto sopra la sua testa; e per vivere aveva dovuto accettare quell’impiego melanconico: aveva perduto ogni suo bene, ma non aveva perduto quel suo tranquillo sorriso. Un po’ di grigio precoce sui capelli neri segnava il passaggio della tempesta.
Certamente se la signora avesse detto: “Non vi posso più stare fra quei matti„, il nostro colloquio non sarebbe avvenuto: ma ella disse: “Io mi ci trovo bene„. E forse fu causa il vino, perchè su la tavola era stato posato, come ancora usa in provincia, un fiasco di vino bianco; e l’amico M*** aveva ricolmato spesso il mio bicchiere, dicendo: “Sono tutte uve scelte. Seguita a bollire nel fiasco„.
Forse anche un’altra causa: perchè al mattino, nella libreria, mi ero messo a sfogliare quel libro, in bei caratteri grandi, con grande aquila impressa “Germania imperiale„ del principe di Bülow. Un libro saggio, pacato, imperiale: un libro che afferma che la Germania ha la saggezza, la volontà, la forza; che la Germania salverà il mondo dalla putredine e dalla follia.
Ma ogni tanto interrompevo la lettura per guardare il ritratto del principe di Bülow, impresso in quel libro, Germania imperiale. Quella testa era un magnifico esemplare dell’umana specie: pacata, bella quasi di una sua giovanile senilità. Ma sotto quella compostezza aulica, ora mi pareva scoprire il lusinghiero sorriso della frode, ora le dure lìnee della ferocia. Eppure — pensavo — anche quest’uomo ha la nozione di Dio!
E quando giunsi alla fine, dove è riportata la sentenza di Fausto: solo colui che s’affatica a conquistare, merita la libertà e la vita, rimasi stupito, e sopra quel libro imperiale mi passò una schiera di savi antichi (v’era Cristo, v’era Francesco d’Assisi) che vollero conquistare senza spada e senza uccisione. Ma poi, in realtà, che cosa hanno conquistato?
*
E in questo punto il commesso della libreria mi aveva interrotto dicendo che era mezzogiorno, ed io mi avviai a casa dell’amico M*** dove ero atteso per il desinare.
Una famiglia borghese, alla buona, all’antica: tavola imbandita con le antiche lasagne, col fiasco umile e glorioso, che bolle le bollicine lunghesso il collo sottile. E vi trovai già a tavola — òspite essa pure — quella signora Maria, adetta ad una casa di malati per neurastenia.
Neurastenia! cioè parola che vale a significare debolezza.
E stetti distratto lungo tutto il desinare. Avevo in mente la neurastenia, che vuol dir debolezza, e quel libro che vuol dire forza. “È una malattia la neurastenia o la Bia?„
— No, amico, non mi versi troppo da bere.
*
Come si entrò nell’argomento?
Ah! perchè la signora disse bonariamente:
— Oramai ne so io quanto i medici più bravi, i quali, scusate, non ne san niente neppur loro.
Certamente la signora non diceva queste parole per orgoglio: io credo che non avesse aperto nemmeno una pagina dell’enorme libro delle malattie nervose.
— Anche loro, i medici, — aveva aggiunto, — più dei soliti calmanti, qualche bagno, altro non possono offrire agli infermi.
— Neurastenia, — io dissi, — vuole propriamente significare debolezza di nervi. È vero, signora?
— Così deve essere, — rispose, — perchè una piuma è per loro come un materasso. Io li strapazzo come tanti bambini, e per farli stare contenti, racconto tutte le mie disgrazie e ci faccio la frangia per farli ancora più contenti. “Eppure io — dico ai miei matti — mangio con appetito, vedete? ballo, salto, e quando non ne posso più, dico questa giaculatoria: su da bravi: ditela con me: Vi ringrazio, Signor mio, che le cose non vanno a modo mio. Su da bravi, ballate, saltate.„
— L’imperatore di Germania, — dissi io, — che sopporta tanto ferro, tanti cannoni, non è ammalato di neurastenia.
La signora accolse le mie parole con un sorriso e disse:
— Sarà la malattia contraria....
— Manifestamente, vi sono uomini che non dormono perchè non sostengono l’incubo di una piuma, e vi sono uomini che hanno su di sè monti di cadaveri; eppure dormono, fanno toilettes accurate al mattino con svariate monture.... E gli uni e gli altri sono uomini. La goccia d’acqua su le rose e la goccia d’acqua che sommerge le navi hanno la stessa composizione. Lei crede, signora, che neurastenia sia una malattia?
Quale domanda!
— Ma certo, — disse la signora. — È gente che vede tutto nero; che non può sopportare l’altra gente. Altro che malattia!
— Allora è quello, — diss’io, — che gli antichi chiamavano melanconia, ipocondria, parole oggi disusate, ma che contengono un’imagine di terrore, una specie di paralume funebre contro il sole, una specie di cateratta dell’anima.... “Evidentemente il principe di Bülow così roseo anche all’aspetto — pensavo — vede roseo.„
— Così, infatti, — disse la signora; — e tutta la medicina sta nel rompere quella membrana nera della vita, che si forma continuamente. Ma creda che, invece dei medici e degli infermieri, ci vorrebbe la pazienza dei santi....
— Perchè, — ripresi io allora, — quella imagine nera non vuole staccarsi? È così? Essa dice: io, tenebra, sono vera; e la luce è falsa! E invece di dormire, vanno, vanno, andrebbero sempre, ma senza più orientazione, come un carretto che abbia una ruota sola e giri attorno a se stesso. È così?
(Questa imagine mi era stata data da Pippo. Pippo, dopo avere esplorato tutti i piatti, faceva andare su la tavola un piccolo balocco grottesco a molla; ma aveva la molla guasta e girava storto o indietro.)
Pippo si mise a ridere.
— Evidentemente, signora, i Tedeschi che marciano in linea rettilinea e con passo di parata verso una loro mèta, non soffrono di neurastenia....
Pippo, oltre al carrettino con la molla guasta, aveva messo, lì, sul tavolo, altri balocchi del Natale.
Chi non sa che i balocchi sono portati ai bambini dal Bambin Gesù, a patto che siano saggi ed a modo?
— Ma quanti regali, Pippo, — disse la signora, — ti ha portato il Bambin Gesù per Natale! Ti vuole molto bene il Bambin Gesù....
— Non crede, signora, — insistetti io, — che gli uomini siano come altrettanti bimbi che, per vivere senza annoiarsi, hanno bisogno di molti balocchi, se no si ammàlano di neurastenia?
La guerra e la conquista devono essere un enorme balocco, mandato dal Bambin Gesù.
Non possedere più balocchi è la maledizione degli Dei, è l’odio degli Dei. È verissimo, Pippo: è il Bambin Gesù che manda i balocchi agli uomini. La neurastenia è odio degli Dei:
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Il Kaiser, certo, è sotto la benedizione degli Dei....
— Ma sa che ne dice di stravaganti? — esclamò la signora, affaticata a seguire le mie parole.
— La neurastenia, — dissi, — è una periostite psichica. Lei mi guarda, signora? Senta: quando è distrutto il periostio per effetto di infiammazione, lei sa che si provano dolori atroci alle ossa. Così l’anima ha una sua membrana che la nutre di illusione. Quando questa membrana è distrutta, allora l’anima non ha più il nutrimento dell’illusione. Affare serio, signora! Mi viene in mente la luce materiale. Esiste? Certo se io distruggo la membrana della pupilla, il mondo diventa tenebre e la luce non esiste più. I ciechi degli occhi, però, sono tranquilli e tutt’al più cantano una lor dèbile querimonia. Ma i ciechi dell’illusione non han pace. Strano! E allora anche la conquista della Germania imperiale fa ridere.
La signora mi guardò con una certa dose di spavento.
— Avrei caro, signora, che lei parlasse di queste mie idee al dottore della sua casa di salute; ed anche di Bellerofonte. È intelligente il dottore della sua casa di salute?
— Intelligentissimo.
— Allora gliene parli.
— Parlare al dottor X*** di neurastenia? — disse la signora. — Per carità!
— Perchè?
— Perchè potete parlare di tutto al dottore, fuori che delle malattie....
— Non cura i suoi infermi? Non fa le sue visite?
— Quando si ricorda. Certe mattine arriva alla villa con due occhi infossati, una faccia livida. Io gli dico: Ma dottore, cosa ha fatto stanotte? “Volete sapere?„ — dice lui. — “No, no! non voglio saper niente. Piuttosto stia un po’ qui lei, c’è questo da fare, da provvedere.„ — “Ah sì? Economia, economia, faccia economia„ — risponde lui. — “Ci sono i malati che la vogliono.„ — “Ma cara, — risponde lui, — “non voglio mica diventar matto anch’io!„
— Interessante il dottor X***, — diss’io. — Dunque non conduce affatto una vita ordinata?
— Giuoca, — disse la signora, — tutta la notte. — E, — abbassando pudicamente la voce, — donne!
— Quello che dicevo io: Il dottor X*** è uno che non vuole ammalare, che non vuol perdere il suo periostio psichico. Egli abbraccia le carte e le donne per avere la sensazione di una realtà qualsiasi. Veda: ognuno di noi, per vivere, ha bisogno di abbracciare qualche cosa. Mi guarda con stupore, signora? Il dottore abbraccia le carte e le donnine, il filosofo abbraccia le nuvole, lo strozzino abbraccia i suoi titoli, il Kaiser abbraccia i suoi cadaveri, i proletari abbracciano il sol dell’avvenire: ognuno, per vivere, abbraccia una sua follia; e il neurastenico è precisamente colui che non ha più niente da abbracciare: vive nella morte!
La signora mi guardò con smarrimento profondo:
— E io cosa abbraccio? — mi domandò.
(Mi venne quasi da ridere pensando che suo marito, che ella molto amava, la ha abbandonata con due figli, dopo averle mangiato quel po’ di dote che aveva.)
— Lei abbraccia quella lì.
Indicai la crocetta d’oro con Cristo.
— Sa che è un bell’originale, lei?
— Zitta per carità, signora: lei mi vuol far destituire dal mio ufficio di maestro di scuola. Essere originali ist verboten anche in Italia. Mi dica del dottore: mi interessa.
— Un bell’originale, anche lui, il dottore! — disse la signora. — “Ma se lei avesse giudizio, gli dico, con quello che guadagna potrebbe vivere da principe, farsi la sua bella famiglia„. Ma da farne? dice lui. Io dico che tutto il giudizio che ha, lo dà ai matti....
— Li cura bene?
— Bene? Basta che lui si presenti e con il solo sguardo li calma. Come fa? Non so. È un fascino. Non parla mica, non ragiona mica! Ma, così! Certe volte mi pare un commediante. Glielo ho detto, sa? Ma lei è un gran commediante, un grande impostore. Ah sì? risponde. Ma non capisce mica.
— È bello?
— Pare un nazzareno: ha due grandi occhi, socchiusi, velati. Ma quando li apre, pare che ci sia dentro una fiamma; e quando impone le mani, pare che abbia come una forza per calmare quel tremore, quell’ansia, quell’angoscia che loro, poverini, hanno di dentro. Io gli dico: Perchè quando lei perde tutti quei soldi al gioco, non è buono di stregare le carte? Ride. Le donne ammalate, poi, gli vanno sotto come cervi alla fontana. Ma dopo un po’ che è stato con gli ammalati, vien da me e mi dice: — Vada, vada lei; non voglio mica diventar matto io.
“Dottore, dottoraccio, quel dottoraccio maledetto, quando viene? Oh, se venisse!„ e stan lì ad aspettarlo. Aspetta bene! Io credo che non si ricordi nemmeno, in certi giorni, di avere lassù degli ammalati. Chi deve rappezzare poi tutto, sono io, con tante storie, con tante invenzioni. Appena viene glielo dico: O lei fa quello che deve fare, o io me ne vado. Si ricordi che la responsabilità è sua: questa casa è sua, sa? Mettere una povera donna come me in mezzo a tante responsabilità. E poi tutte le bugie che mi fa dire.... Una vergogna! Be’. Se ne ha per male lei? Così se ne ha per male lui.
Domandai che cosa dicesse quel dottore agli infermi.
— Mah? Delle volte dice anche cose da galera.
— Per esempio?
— Per esempio è capace di dire con quelli che stanno meglio: Ma ci crede lei alla cura? Lei è guarito perchè non era ammalato. Capace di dire, lì in sala, quando ne viene uno nuovo: Ecco un altro merlo! Ne vuol sentire una? Nelle finestre alte ci devono essere le inferriate per evitare le disgrazie. Erano due o tre mesi che glielo dicevo: Dottore, faccia mettere le inferriate: può capitare una disgrazia. Badi che ci può andar di mezzo lei. Macchè! C’era allora ricoverata nella villa una povera signora, dico povera benchè avesse non so quanti milioni. Era lei e suo figlio. Non so quante case di salute avessero girato. Lui, il figlio, stava all’hôtel e veniva tutte le mattine: “Come sta la mamma?„. “Eh, lo stesso.„ Faceva un giro sui tacchi, lui e il suo avana. E il giorno dopo era ancora su, in automobile: Come sta la mamma? E dietro— front. Un giovanottone grosso, sempre inappuntabile nel vestito, che non rideva mai, che parlava mezzo forastiero. Impossibile capire cosa avesse di dentro.
— Ma non si vedevano madre e figlio? — domandai.
— Qualche volta, ma di rado. Lei, intanto, era oramai impassibile a tutto; e lui, lui forse aveva finito coll’abituarsi. Tirava fuori dei gran chèques, come niente fosse. Pareva un po’ stupido: ma oramai aveva cominciato a capire l’andamento della casa, e brontolava contro il dottore. Io avevo un bel dire, io, in difesa del dottore. Faceva certi Uhm! di cattivo augurio. Ma magari me la avessero portata via quella donna.... Ci volevano altro che chèques! Ci volevano i santi. Non c’ero che io capace di resistere con lei.
— Perchè?
— Perchè era una disperazione.
— Cioè?
— Aveva la paura di morire.
*
Ed allora sentii, nel silenzio che seguì a quelle parole della signora, la voce allegra di uno dei due giovanotti che inavvertitamente si era accostato a noi, dire:
— Oh, che matta!
Io lo guardai stranamente.
Egli mi guardò alla sua volta meravigliando del mio sguardo e disse:
— Vorrei io avere i suoi milioni!
Guardai ancora quel giovane, e mi venne a mente Leonardo da Vinci quando paragona gli uomini volgari a un sacco dove si riceva cibo e donde esca.
— Ragazzo mio, — disse la signora, — tutti i milioni non contano niente in certi casi.
— Li vorrei aver io, — disse lui.
— Perchè tu non sei ammalato, — disse la signora.
(Io guardai quel giovane che agli occhi di tutti era sano. Pensai al Kaiser che è sano e spinge milioni di uomini alla morte.)
La signora disse a me:
— Tutto il giorno, tutta la notte era questa solfa: domani muoio, domani sono morta. Voglio la luce, voglio la luce, voglio il sole, il sole. Abbiamo fatto mettere delle lampade ad arco. Macchè! Voleva il sole. Quando si alza questo sole? Come fare a far alzar il sole? Voglio la primavera, i fiori. I soldi che abbiamo speso in fiori! Ma appena li vedeva, diceva che erano per farle il mortorio. E fuggiva con orrore. Sa che a volte io piangevo dalla disperazione? E dirle: ma riposi un po’, signora. Si metta un po’ quieta. Così non capisce che si rovina la salute sul serio? Macchè! Macchè! Sempre quel ragionamento: domani sarò morta. Tutti, signora, — le dicevo, — domani possiamo essere morti, io come lei, eppure io dormo, io mangio, io penso a tante altre cose. “Perchè lei è pazza!„ mi rispondeva lei.
— E il dottore? — domandai.
— Niente. Le dia delle pillole di morfina. Pensi che lei stava attenta, che sentiva attraverso i muri. Voi, lo so: mi volete avvelenare. Ma no, signora! Ma se ho inteso io! Una disperazione! Farle fare un bagno, farle mutare di biancheria era una battaglia. Perchè? Ah, volete lavare perchè domani mi volete seppellire. Lo so. Ho inteso. Veniva il domani. Vede che non è morta, signora? Imperterrita: Domani! Un giorno, per nostro consiglio, lui, il figlio, condusse su una sarta per farle prendere la misura di una “toilette„ per quando sarebbe guarita. Cominciò a dare in ismanie. Era la veste per la bara. La sarta scappò via. Appena andata via, Vedete, — diceva, — che facevate apposta? che sapete anche voi che domani devo morire. Telefonata di urgenza. Torna su la sarta. Prende la misura. Dopo due giorni, porta una magnifica “toilette„. Ma poi, invece di vederla vestita, la vedo tutta occupata a tagliare a pezzettini il vestito.
Una mattina non la trovo nella sua camera. Mi viene un convulso anche a me: come un presentimento. Cerco, domando. Nessuno l’ha vista. Corro, giro tutta la casa: niente! Mi viene un pensiero: vado e vedo la porta della scaletta, che mena agli abbaini, aperta. Chi ha lasciata la porta aperta? Dopo un po’ che sono lì su la scala, che mi treman le gambe, sento qualche cosa come un ciac! enorme. Poi più nulla. Qualcosa è caduto dall’alto. Quel ciac mi si fa grande, grande: lo sento ancora. Sento grida. Vengono a chiamarmi: Mio Dio! ah, Madonna! la matta si è precipitata dall’ultimo piano. L’inferriata! Ma è da un anno, da un anno che io dico al dottore, voi potete testimoniare: alle finestre alte bisognava mettere le inferriate. Vedo la signora distesa sul pavimento di marmo davanti alla villa. Qualche ultimo tremito, qualche goccia di sangue qua e là. Presto, presto, — dico, — avvenga quel che vuole avvenire. Ma via quel corpo di lì. Per gli altri ammalati, capisce? per la gente che arriva. Vado al telefono: Presto, presto, dottore. Non posso spiegare. Mando un infermiere giù in bicicletta. Lascio appena il telefono, che sento un’automobile che arriva. È lui, il figlio. Lo trovo lì, come di solito, davanti alla villa, col suo sigaro in bocca, che andava tranquillo su e giù. “Come sta la mamma?„ Io non so più cosa è nato, cosa ho detto, quanto tempo è passato. Ho provato a mentire: “Dorme.„ “Non è vero, — mi risponde, — la voglio vedere.„ Noti che non diceva mai così. “Non si può„ dico io. “Allora, — dice lui, — è successa una disgrazia. „ Pareva che lo sapesse. Quella figura di imbecille mi faceva pietà. Ad un tratto si scaricò come un automa che ha dentro una molla serrata che si disserra: “La mamma, la mamma, la voglio vedere, voglio vederla. Voglio condurla via. Farabutti, farabutti tutti. Anche lei! È tutto un imbroglio qui, lei, il dottore. Verrò su coi giudici. Vi farò mettere in galera.„ “Farà quello che vuole! Ma adesso venga via di qui„ ho gridato. Soffocavo, capisce? “Ma non cammini qui, ma non vede?„ E lo portai via di lì, dove camminava. Allora guardò: divenne pallido. Lui camminava sul sangue di sua madre. Poi istintivamente guardò lassù dove c’era l’occhio nero spalancato della finestra. Io non ebbi la forza di guardare e chinai la testa: sì. Rimanemmo tutti e due così.
In quel punto, di corsa, su per la scalinata, veniva il dottore. Ecco, ecco! vedevo delinearsi una scena terribile fra quei due uomini. Stetti un momento immobile. Attesi. Macchè! Il dottore X***, appena messo il piede su la terrazza, si fermò. Aprì le pupille, ravvolse il giovine d’uno sguardo che non dimenticherò mai: poi mandò un grido: Ah! povero ragazzo! Ah! figlio, figlio mio! Accusami, colpiscimi, puniscimi! E si precipitò fra le sue braccia. “Le inferriate?„ No, ragazzo. Ma anche con la inferriata doveva succedere così. Tua madre non poteva più uccidere il tempo; e quando noi non possiamo più uccidere il tempo, allora è il tempo che uccide....
— Disse così, il dottore? — interruppi.
— Sì, mi pare che dicesse così.
— Quello che dicevo io presso a poco, signora, — dissi.
La signora mi guardò con stupore.
*
E come è andata a finire? — domandai.
In niente! Il dottore ha donne per ogni cantone. Gliene ha ceduta una, due, chi sa? perchè colui con tutti i suoi milioni era un timido. Poi credo che l’abbia condotto a giocare.
*
Ripensavo ancora al libro del Bülow: si tratta di balocchi, di costellazioni, di dar della morfina, come dice il dottore; di dar dell’etere ai popoli....