Novelle (Bandello, 1853, IV)/Parte IV/Novella XVIII
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andava verso casa senza monstrare in viso uno minimo segno di vergogna, come se da uno paio de nozze se ne ritornasse.
Il Bandello al valoroso e gentile signore
il signore Gieronimo da la Penna perugino salute
Devete, signor mio, ricordarvi che, essendo voi in letto infermo de febre quartana, io venni a visitarvi; e confortandovi, come si suole fare quando uno visita il suo amico amalato, vi dissi che il male vostro non era mortale, usandosi communemente in vece di proverbio dire: – Quartana non fa sonare campana. – Vi dissi anco che altre volte avea inteso da non so chi, come a l’improviso una subita e grandissima paura fatta a uno quartanario, che senza dubbio quello liberava da essa quartana. Voi mi rispondeste che molto volentieri aveste voluto che una grande e spaventevole paura vi fosse stata fatta, affine che voi rimanessi libero da quello fastidioso male, che ogni quarto giorno sì fieramente con quello così freddo tremore e battere di denti vi assaliva e vi tormentava. Ora, essendo io tre o quattro giorni sono nel giardino del nostro gientilissimo signore Lucio Scipione Attellano, vi era anco messer Galasso Ariosto, fratello de l’ingenioso e divino poeta messer Lodovico Ariosto. Esso messer Galasso è continovo ospite del signor Lucio Scipione. Io dissi loro de la vostra molto fastidiosa quartana e quanto insieme avevamo ragionato, Onde a questo proposito esso messer Galasso, a proposito di cacciar via la quartana, ci narrò una istoria. Io subito la descrissi, e descrivendola conchiusi ne l’animo mio che, devendosi mandare fori con l’altre mie, ella arditamente si dimostrasse col vostro nome in fronte. E così ve la mando e dono. Attendete a guarire e vivete di me ricordevole. Bene vi prego che al nostro signor Cesare Fieramosca e a messer Giovanni de la Fratta facciate vedere essa istoria, che per essere da me scritta, so che volontieri la leggeranno. Vi dico di novo che attendiate a guarire e vivere allegramente.
NOVELLA XVII
Fece il Gonnella una brutta paura al marchese Nicolò di Ferrara,
liberandolo da la quartana, il quale, con una altra paura
volendo beffare esso Gonnella, fu cagione de la morte di quello.
Soleva assai sovente la buona memoria di messer mio padre a noi altri in casa narrare de li molti figliuoli che in diverse donne il marchese di Ferrara, il signor Nicolò da Este, ingenerati avea, che tutti pertanto erano bastardi. E quantunque avesse avuto tre moglieri, ebbe nondimeno se non dui figliuoli legittimi, che doppo lui restarono. Ercole fu padre del duca Alfonso, che oggidì in gran giusticia lo stato di Ferrara regge. Narrava anco mio padre le piacevolezze del Gonnella e le molte burle che si dilettava fare. Ora, essendosi ragionato de la quartana del signor Gieronimo de la Penna, mi è sovenuto de la quartana che esso mio padre una volta ci narrò, e di una beffa e paura che il Gonnella li fece, la quale al povero Gonnella costò la vita. Era adunque il marchese Nicolò malato di una quartana molto fastidiosa, la quale stranemente l’affliggeva non solamente il giorno che l’assaliva, ma gli altri ancora, che sogliono essere assai sopportabili quando l’uomo è mondo da la febre, il teneva tanto oppresso e così malenconico, che in modo veruno non si poteva rallegrare. Aveva totalmente perduto l’appetito, nè sapevano li medici ordinargli alcuno manicaretto che egli gustasse, non ritrovando cosa alcuna che saporita li paresse. Era per questo tutta la corte malenconosa, perchè, trovandosi il signore infermo e che di nulla si trastullava, tutti erano di malissima voglia. Ma fra gli altri il Gonnella era uno che sovra tutti si attristava, come colui che sommamente amava il suo signore, e che si disperava che tanti giochi e tante piacevolezze fare non sapesse che il signore suo mai potesse regioire. Li medici, per alleggerir l’infermità del marchese, li fecero fare mille giuochi, e a la fine, non giovando nessuno loro argomento, conchiusero che fosse da cangiar aria. Indi lo condussero fora di Ferrara a uno suo amenissimo e molto grande palazzo, che si chiama Belriguardo e fu edificato vicino a le rive del Po. Soleva il marchese per fare esercizio e regioirsi sovente passeggiare lungo il fiume, e par che quella vista de l’acque alquanto il confortasse. Aveva il Gonnella udito dire, o forse per isperienza veduto, che una paura grandissima fatta a l’improviso a l’infermo gli era presentaneo rimedio e molto profittevole a cacciare via la quartana. Egli, che nessuna cosa al mondo a paro de la sanità del marchese non desiderava e, tutto il giorno in questo pensiero, mille rimedii si andava imaginando, deliberò tra sè provare se una estrema paura lo poteva guarire. Onde, avendo notato che esso, andando quasi ogni dì a diportarsi, il più de le volte si prendeva uno gran piacere di passeggiare lungo la riva del Po, ove era uno boschetto di salci e di pioppe, e quivi sopra l’orlo de la riva fermarsi a contemplare il corso del corrente fiume, si pensò che non vi essendo l’acqua nè molto rapida nè profonda, e la riva non più alta di cinque o sei spanne, da quello luoco gittar giù il buon marchese, e con così fatta paura cacciarli via la quartana. Onde, conoscendo che non vi era pericolo de la vita ma solo il danno di bagnar le vestimenta, essendo colà per iscontro uno molino, parlò col molinaro, e li diede ad intendere che il signore voleva fare una paura a uno suo camerieri, facendolo da cotale riva gittare giù ne l’acque; ma acciò che non pericolasse, che esso mugnaio con uno famiglio, come vedeva il marchese comparire, egli con una barchetta si appropinquasse al luoco, e mostrando di pescare, aiutasse il caduto camerieri. Gl’impose dapoi, per quanto avea cara la grazia del signore, che di questa cosa non facesse motto con persona. Nè guari stette che diede effetto al suo intento. Passeggiava il marchese una matina nel boschetto, e già il mugnaio si era al luoco accostato, quando il Gonnella, che solo col marchese era, vedutolo fermare su la riva, li diede una gran spinta e il fece tombare in Po e subito se ne fuggì, avendo già per tale fatto apprestato per sè e uno servitore duo buoni cavalli; e di lungo se n’andò a Padoa al signor di Carrara, che era suocero del marchese. Corse il mugnaio e ritirò ne la sua barchetta il marchese, che vie più di spavento e paura ebbe che di danno, anzi ne conseguì l’intiera liberazione del suo male, perchè da la quartana restò in tutto libero. Non ci era persona che giudicasse che il Gonnella avesse ciò fatto per affogare il marchese, ben che il perpetrato atto paresse loro troppo fora di ragione. Il marchese altresì, che amava il Gonnella, non sapeva che si pensare, nè poteva al vero apporsi di tale burla, massimamente essendosi esso Gonnella ridutto in potere di quello di Carrara, che del marchese era socero. Nondimeno il marchese, essendosi tornato a Ferrara, al suo consiglio commise che cotale eccesso giudicassero. Quelli consiglieri, avendo giudicato il caso essere temerario e di mala sorte, e che il Gonnella era caduto in delitto di offesa maiestà, diedero la deffinitiva sentenzia: che se mai cadeva in potere del marchese, che li fosse tagliato il capo, e che in quello mezzo fosse bandito a perpetuo esiglio di tutto lo stato del marchese. Esso marchese, che di core amava il Gonnella e aveva martello de l’assenza di quello, stava pure aspettando di vedere ciò che da quello si farebbe, tanto più che si trovava da la quartana guarito; e già alcuni gli affermavano che certamente il Gonnella per liberarlo da la quartana l’aveva buttato dentro il Po. Tuttavia, per vedere ciò che il Gonnella farebbe, lasciò publicare il bando, di modo che a suono di tromba su la piazza fu esso Gonnella bandito. Avuta che ebbe cotesta nuova, il Gonnella avendo già a pieno apparecchiato il suo bisogno, deliberò ritornarsene a Ferrara. Onde, avendo compro una carretta, su quella fece uno suolo di terra e fece apparire per publica scrittura come quello terreno era del signore di Padova. Egli vi montò su e fece che il suo famiglio con li dui suoi cavalli come carrettiero il condusse su la piazza di Ferrara. Quivi giunto, mandò il suo famiglio a chieder al marchese salvocondutto di potergli andare a parlare, perchè li faria conoscere che ciò che fatto avea tutto era stato a profitto di quello. Il marchese allora, per pigliarsi trastullo del Gonnella e fargli una fiera paura, mandò il bargello a pigliarlo. Si difendeva egli mostrando le sue scritture, con dire che era su quello del signor di Padova. Ma nulla giovandoli cosa che dicesse, fu preso e messo in una oscura prigione e fattogli intendere che si confessasse, perchè il marchese volea farli mozzare il capo. Così li fu mandato uno sacerdote a confortarlo e udire la confessione di quello. Veggendo lo sfortunato Gonnella la cosa andare da dovero e non da scherzo, e che mai non puotè ottenere grazia di parlare al marchese, fece di necessità vertù, e si dispose a la meglio che seppe a prendere in grado la morte per penitenza de li suoi peccati. Aveva il marchese segretissimamente ordinato che al Gonnella, quando fosse condotto a la giusticia, li fossero bendati gli occhi e che, posto il collo sovra il ceppo, il manegoldo, in vece di troncargli il capo, li riversasse uno secchio di acqua su la testa. Era tutta Ferrara in piazza, e a grandi e piccioli infinitamente doleva la morte del Gonnella. Quivi il povero omo con gli occhi bendati, miseramente piagnendo e ingienocchiato essendo, dimandò perdono a Dio de li suoi peccati, mostrando una grandissima contrizione. Chiese anco perdonanza al marchese, dicendo che per sanarlo l’avea tratto in Po; poi, pregando il popolo che pregasse Dio per l’anima sua, pose il collo su il ceppo. Il manegoldo allora li riversò il secchio de l’acqua in capo, gridando tutto il popolo misericordia, chè pensava che il secchio fosse la mazza. Tanta fu la estrema paura che il povero e sfortunato Gonnella in quello punto ebbe, che rese l’anima al suo Criatore. Il che conosciuto, fu con generale pianto di tutta Ferrara onorato. Il marchese ordinò che con funebre pompa, con tutta la chieresia di Ferrara, fosse accompagnato a la sepoltura; e tanto dolente de l’occorso caso si dimostrò, che per lungo tempo non puotè consolazione alcuna ricevere già mai.
Il Bandello a l’illustre e valorosa signora
la signora Gioanna Sanseverina e Castigliona salute
Quanto errino alcuni buoni uomini privi di ogni buono e sano giudicio, li quali non vogliono che in modo veruno le donne siano atte a le lettere e a l’armi, è tanto facile a provare che soverchio parmi il volervisi affaticare; perchè leggendo le istorie antiche e moderne, di quale lingua si sia, si troveranno molte donne in l’una e l’altra facoltà degne di onorata e immortale memoria. E certamente se li padri volessero permettere alcune de le figliuole darsi agli studi litterali e anco a l’armi, molte riusceriano eccellentissime, come fu per lo passato. Ma per non discorrere per l’Europa, non usciremo per ora fora di Milano, lasciando Pentesilea, Camilla, Tomiri, Ippolita, Zenobia, Saffo, Temistoclea, Proba, Polla, Argentaria e molte altre dotte e bellicose, e diremo solamente de la mirabile eroina la signora Ippolita Sforza e Bentivoglia, che tutto il dì si vede di passi reconditi de la lingua latina dottamente disputare. Ma come posso tacere la moderna Saffo, la signora Cecilia Gallerana contessa Bergamina, che, oltra la lingua latina, così leggiadramente versi in idioma italiano compone? Chi oramai non conosce la signora Camilla Scalampa e Guidobuona, le cui colte rime sono in tanto prezzo? Queste tre sono pure in Milano. Ci è ancora la nobile e valorosa signora Luzia Stanga, che con la spada in mano fa paura a molti bravi. Ci è anco la figliuola del giardinero de l’umanissimo signor Alessandro Bentivoglio, che questi dì nel gran borgo de la Porta Comasca contra dui sbirri, che volevano