Novelle (Bandello, 1853, IV)/Parte III/Novella XXIII
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Il giovine, dapoi che cinque fiate ebbe bene scardazzata la lana, si partí e, giunto a la compagnia, fece rilassare Ambrogiuolo, il quale andò di lungo a ritrovare la sua Rosina; la quale, sentendo il segno, gli aperse e molto lo garrí che tanto l’avesse fatta aspettare. Ma egli, scusandosi, le narrò com’era stato prigione de la guardia e scappato, e che prima era stato a gran periglio per un morto che l’aveva assalito, e su questo diceva le piú belle pappolate del mondo. Ed entrando con la Rosina in letto, la lana, che era molto bene lavata, di nuovo inacquò piú volte e la scardazzò molto largamente.
Dicesi communemente che il regno ed amore non vuol compagnia, come infinite volte per isperienza s’è veduto. E nondimeno, quando a me stesse a dar la sentenza qual sarebbe men male, io, senza piú pensarvi su, direi che ne la signoria si puó sofferir compagno, ma non in amore. Questo tutto il dí si vede: che ne le cose amorose chi sopporta il rivale è tenuto non uomo ma bestia. Onde ben disse l’ingegnoso poeta: che amor è cosa piena di timore sollecito, che è quel gelato verme di gelosia. E se senza rivale quasi per lo continovo si sta in sospetto, pensi ciascuno come si fa quando la téma è con fondamento. Non si può adunque amare senza temere, come nel suo sonetto disse la dotta e nobile signora Camilla Scarampa, che cosí canto:
Amor e gelosia nacquero insieme,
e l’uno senza l’altro esser non suole;
giudichi pur ciascun, dica chi vuole,
ché di buon cor non ama chi non teme.
Ora, quando l’uomo che ama si vede dalla sua donna abbandonato e non more, questo, vivendo, soffre pene insopportabili, e mentre l’amor dura è peggio che morto. E chi non l’ha provato non cerchi per isperienza di saperlo, ma sia al detto di tanti che provato l’hanno. Ragionandosi adunque di questa materia qui in Milano ne l’amenissimo giardino dei nobili giovini fratelli Dionisio e Tomaso Pallearii questa state, ove erano dismontati molti gentiluomini a rinfrescarsi con soavissimi ed odoriferi melloni e soavi e preziosi vini, messere Antonio Maria Montemerlo, dottor di leggi e negli studii d’umanitá molto dotto, disse che non credeva esser dolore uguale al dolore che soffre uno che disprezzato si veggia da la donna che egli ama. E su questo ci narrò in brevi parole un accidente avvenuto al nostro gentilissimo messer Galeazzo da Valle: il quale avendo io scritto, ed essendo molti dí che di me non v’ho dato nuova dapoi che a Vinegia eravamo insieme, ve l’ho voluto mandare e sotto il vostro nome darlo fuori. Non vi dirò giá che voi debbiate accettarlo e leggerlo volentieri, avendo inteso quanto largamente in Vinegia, avendo letta e riletta una mia canzone, quella a la presenza di molti gentiluomini lodaste. Ed ancor che ella non meritasse tante lodi quante le deste, nondimeno a me è molto caro che le cose mie siano lodate da voi, che tra i rimatori di questa etá sète dei primi, come le rime vostre fanno piena fede. State sano.
Novella XXIII
Galeazzo da Valle, cittadino di Vicenza, giovane, come ciascuno di voi, mentre egli in Milano stette, puoté conoscere, molto galante, avendo cerco gran parte di Levante, si ridusse a stare in Vinegia. Egli ha cognizione di cose assai e di tutto parla molto accomodatamene; poi con la lira dice a l’improvviso tanto bene, che forse molte cose sue ponno stare a fronte di quelle che alcuni pensatamente scrivono. Ché tra l’altre volte egli in casa della signora Bianca Lampognana, essendovi il signor Prospero Colonna, cantò a l’improvviso tutto quello che esso signor Prospero gli impose, e disse tanto bene, ora in stanze ora in sonetti ed ora in capitoli, che tutti restarono pieni d’infinito stupore. Essendo adunque egli in Vinegia ed assai sovente essendo invitato, in casa di quei magnifici gentiluomini, a le feste che si fanno, a cantare a l’improvviso, avvenne che ad un banchetto egli vide una bellissima gentildonna veneziana, il marito de la quale era in ufficio in Grecia. Egli era presso di lei a tavolo a sedere, e mentre che la cena durò, servendola come è di costume, ragionò sempre seco; e trovatala avvenente e assai piacevole nel ragionare, di lei s’innamorò e cominciò a quella discoprire il suo amore. La donna, che piú veduto non l’aveva, ancor che bene in ordine e giovine molto appariscente lo vedesse e sommamente il ragionar seco le dilettasse, le dava certe risposte mózze e poco al proposito di lui. Ora, finita che fu la cena, furono alcuni di quei magnifici che lo conoscevano, che lo pregarono che volesse per ricreazione de la brigata cantar qualche cosa a l’improviso. Egli, fattosi recar la lira, essendo del nuovo amor acceso, cominciò cantare tutto ciò che con la donna a tavola gli era occorso, di tal maniera che nessuno se non la donna l’intese, ma tutti meravigliosamente se ne dilettarono. Ella, che a le parole di Galeazzo che a tavola le disse non s’era punto mossa, al canto di quello sí caldamente di lui s’accese, che, dopo che egli ebbe finito di cantare e che ciascuno di quella materia parlava che piú gli era in grado, a lui s’accostò e, seco entrata in ragionamento, pregandola l’amante che per servidore degnasse accettarlo, si rese a le preghiere di quello pieghevole e sé essere tutta sua gli disse. E perché di rado avviene che ove le volontá sono uniformi non segua di leggero l’opera a la voglia conforme, in breve la donna gli diede il modo di ritrovarsi seco. Onde godevano i loro amori molto pacificatamente e con grandissimo piacere d’ambedue le parti. Avvenne dopo alcuni dí che a Galeazzo fu bisogno trasferirsi a Padova; il che infinitamente gli spiacque come a quello che molto piú la sua donna amava che gli occhi proprii. La donna altresí di questa partita ne viveva in continova noia, né si poteva in modo alcuno rallegrare. Le lettere, messi ed ambasciate ogni dí da Padova a Vinegia e da Vinegia a Padova volavano. Da l’altro canto si sforzava ogni settimana Galeazzo andar a Vinegia e starsi una notte con la sua donna; del che ella ne riceveva meravigliosa contentezza. Ora, essendo un giorno i dui amanti insieme e di questa loro disaventura, che stessero separati, ragionando, la donna quasi piangendo a Galeazzo disse: – Core del corpo mio, io non so giá come mi viva quando voi non ci sète, e ogni picciolo indugio che voi state da me lontano mi pare longhissimo. Io vorrei continovamente avervi innanzi gli occhi e poter sempre star con voi; e certo mi par pur troppo duro di star tanti giorni senza vedervi. Ma chi sa che voi a Padova non abbiate qualche donna che lá vi intertenga e vi sia piú cara che non sono io? – E questo dicendo, piangeva e, mille volte amorosamente basciando Galeazzo, pareva che in braccio gli volesse morire. Egli, dolcemente stringendola, quella ribasciava e con parole amorevoli confortava, promettendole tuttavia di venire piú spesso che possibile fosse a visitarla. Assicuravala anco su la fede sua che egli altra donna non amava che lei, e che mai non la abbandoneria. – Come, – diceva egli, – potrei giá mai io altra donna che voi amare? io, che tanto v’amo, che tanto vi sono obligato, che conosco che perfettamente voi m’amate e che tutta sète mia, v’abbandonerò? Questo non sará giá mai, e la mia perseveranza e la fedelissima mia servitú ve ne faranno di continovo certa. Ché se necessario fosse, io lasciarei tutte le mie faccende e, ponendo per voi me stesso in oblio, mi ritirerei a star mai sempre in Vinegia. Non dubitate di me, vita de la mia vita e lume degli occhi miei. – E queste cose dicendo, insieme amorosamente si trastullavano. Cadde poi ne l’animo a la donna l’avere il ritratto del suo amante per allegrar la vista quando egli presente non ci era, parendole che piú facilmente ella devesse la lontananza di quello sofferire; e a l’amante questo sua pensiero disse, il che mirabilmente gli piacque. Egli, che di se stesso uno ne aveva, le promise di mandarlo subito che a Padova giungesse, pregando anco lei che fosse contenta di lasciarsi ritrarre, a ciò che medesimamente egli, avendo il ritratto di lei, vedesse con gli occhi la forma di quella che chiusamente nel core portava e con gli occhi de l’intelletto sempre vedeva. – Datemi, – rispose ella, – un pittore di cui ci possiamo sicuramente fidare; ed io molto volentieri ritrarre in carta, in tela e in asse, come piú vi piacerá, mi lascierò. – E cosí d’accordio rimasero. Come Galeazzo fu da la donna partito, con l’aiuto d’un amico suo ritrovò un pittore giovine che in cavare dal naturale era appo tutta Vinegia in grandissimo prezzo, e seco convenutosi di quanto da lui voleva, del tutto avvisò la donna; e a Padova ritornato, le mandò il promesso ritratto. La donna, avuto l’ordine de l’amante, si convenne con una sua vicina di cui molto si fidava; e mandato a chiamar il pittore, a certe ore del giorno in casa de la vicina si trovava, ove il pittore anco era. Egli, veduta la bellezza de la gentildonna, in un tratto fieramente se ne imbarbagliò, in modo che, per aver tempo di vagheggiarla, menava l’opera in lungo e nulla o poco lavorava. E quando deveva ritrarla, entrava in nuovi ragionamenti e nuove ciance, tuttavia cercando di fare la donna accorta del suo amore. Ella, a cui sommamente piaceva il favoleggiare del pittore, che era pieno sempre di nuovi e bei motti, dimenticatasi de l’amore di Galeazzo, gli gettò gli occhi a dosso e, parendole un bel giovine, le venne voglia di provare se egli sapeva sí bene improntare di rilievo come ritrarre dal vivo. Del che egli, che era scaltrito, subitamente s’avvide, e non mancando a se stesso, in due o tre volte che le parlò, s’accorse molto bene che la donna non era per lasciarlo pregar invano. Onde, facendo de l’audace, dopo qualche amorosette parolucce e qualche atti assai domestici, egli le basciò il petto e tremando la pregò che ella avesse di lui pietá. La donna, non si mostrando per questo al pittore ritrosa, gli diede animo che egli devesse piú innanzi procedere. Il perché baciatala amorosamente in bocca, veggendo che ella rideva, lasciò stare il pennello con cui in tela la pingeva, e gettatala suso un lettuccio che quivi era, con un altro pennello che piú le piacque la improntò di maniera che in tutto il primo amante le cadde da cintola. Galeazzo, che a Padova attendeva il ritratto e non vedeva né lettere né pittura, se n’andò a Vinegia, e volendo secondo il consueto andar a nozze, trovò che il convito per altri era apparecchiato e che egli non poteva entrare. Né per quanto s’affaticasse, non puoté a la donna parlare giá mai; il che molto gli fu discaro come a colui che unicamente l’amava. Ed investigando se poteva intender la cagione di questo cosí subito mutamento, intese per buona via che il pittore era entrato in possesso dei beni de la donna; del che egli, morendo di gelosia, ne fu per impazzire. E ritrovando un dí il pittore, venne seco a le mani e gli diede due ferite su la testa e lo gettò in un canale, onde fu da Vinegia bandito. Per questo egli venne in Milano ove dimorò piú d’un anno, né perciò si sapeva scordare la sua donna. Ed ogni volta che questo caso narrava, ché spesso lo diceva ed anco con la lira lo cantava, si vedeva chiaramente che egli n’era fieramente appassionato, come colui che la donna amava di buon core e che piú che volentieri sarebbe ritornato in grazia seco. Io non so se mi dica male del pittore, che, essendosi Galeazzo di lui fidato, mai non gli deveva far questo tratto. De la donna so bene ciò che dire ne potrei, se io mi dilettassi di dir male de le donne; ma dirò che Galeazzo ebbe poco del prudente, perciò che nessuno fida il topo ne le branche del gatto.
Ancor che l’etá nostra in molte cose sia, se non superiore, almeno a quelle antiche passate e tanto famose uguale come tante fiate voi e il dotto messer Girolamo Cittadino meco ne la mia camera avete ragionato, discorrendo ne le cose de l’armi e de la milizia moderna e d’ogni sorte di lettere; in una cosa si può dire che ella sia di gran lunga inferiore, né credo che voi e il Cittadino mi debbiate contradire, per ciò che la cosa è troppo chiara e manifesta. E questa è la carestia dei buoni scrittori, dei quali quei tempi antichi erano copiosissimi. A quei tempi se un uomo o donna faceva un atto o diceva un arguto motto che meritasse lode, subito erano scritti. Né bastava loro semplicemente descrivere la cosa come era fatta o detta, ma con titoli, con epigrammi, con statue ed archi celebravano, onoravano, lodavano e la cantavano. Per lo contrario a’ nostri giorni non solamente non cerchiamo di essaltare e magnificare l’opere meritevoli di lode e commendare i belli e ingegnosi detti che secondo l’occorrenti materie si dicono; ma, che molto peggio è, non ci è chi gli scriva, mercé del guasto mondo ed avaro e di tante mortali ed orrende guerre che la povera Italia hanno tanti e tanti anni tenuta oppressa, di modo che si può con veritá dire che le muse ai fieri tuoni di tamburi, trombe e artigliarie sono in cima di Parnaso fuggite. E nondimeno si vede che tutto il dí accadeno cose bellissime che sono degne d’eterna memoria. Ora avendo il nostro signor Giovanni Castiglione fatto un desinare a molti gentiluomini e gentildonne, dopo che si fu desinato, ragionandosi di varie cose, il signor Guarnero suo fratello disse a messer Giovanni Antonio Cusano, medico eccellente, che dovesse rompere i varii ragionamenti de la brigata e con qualche novella intertenesse sí bella compagnia di gentildonne e gentiluomini come era quella. Il Cusano che è, oltra la nobiltá de la famiglia, cortese e molto dotta persona, non seppe a la richiesta contradire; onde, fatto silenzio, narrò una novelletta in Milano accaduta. La quale, perché m’è paruta degna di memoria, ho voluto scrivere e a voi donare, non giá perché io non istimi il valor vostro e le vertuose vostre doti, da