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v’armò negli occhi di tutto quello invitto essercito cavaliero di san Giorgio. E questo è il vero titolo de l’onore che agli aurati cavalieri meritamente si dona. Ma che dirò io di quella salda speme che nei cori di tutta Germania la vostra incomparabile creanza ha piantata e mandate le radici fin nel profondo, e di quella generale e ferma openione che tutto il mondo di tante vostre rare doti ha concetto? E quale è colui che una volta, o Dio buono! vi veggia, vi parli, vi senta ragionare e consideri le regolate azioni vostre, conosca la modestia, la umanità, la bontà, la mansuetudine senza fuco o simulazione veruna, tutta pura, tutta candida e tutta nativa e vostra propria, e quanto moderatamente i soggetti a voi popoli governate, quanto sète giusto, quanto clemente, e come in ogni azion vostra così grave come onestamente piacevole vi mostrate degno di lode, – chi sarà, dico, che servo non vi rimanga, legato da le dolcissime e adamantine catene de la vostra infinita cortesia e tante altre carissime doti che in voi di continovo germogliano e si fanno maggiori? Certo, che io mi creda, nessuno. Ma io mi lascio trasportar dal valor de la vertù vostra a dir ciò che se Marco Tullio o Demostene, chiari lumi de la eloquenza così greca come latina, vivessero, senza dubio confesseriano, che ogni dotta e facondissima lingua, volendo dire quanto è il devere, resteria muta. Mi si perdoni adunque da la clemenza che in voi come rubino in oro fiammeggia, che io sia stato oso di tanta e sì real vostra altezza ragionare, se a par del vero non arrivo. E chi può de le divine cose a bastanza parlare? chi può quanto sia lo splendor del sole e come riluca dimostrare? Serenissimo re, chi potrà la rena del mare e le stelle del cielo quando è più sereno annoverare ed altrui mostrarle, egli potrà de le vostre singulari grazie e rare vertuti quanta sia la degnità, quanto il valore, altrui scoprire. Nondimeno, poi che io bastante non sono a fare al mondo manifesto il colmo e l’eccellenza dei doni a voi da Dio e da la natura donati, mi basterà, a chi più che ceco non sia, accennare che la sublimità de le grazie e vertù vostre non si può da umano ingegno esplicare; onde conviene che ciascuno, come cosa divina e fuor d’ogni credenza rara e mirabilissima, v’inchini e adori. Ora perchè queste mie poche incolte parole dinanzi al sacro vostro tribunale vòte non appaiano, m’è paruto cosa non indegna insieme con quelle mandarvi una breve istorietta d’un generosissimo atto che Massimigliano Cesare, – di cui voi l’onorato nome portate, e fu vostro proavo paterno, – magnificamente e con infinita