Novelle (Bandello, 1853, II)/Parte II/Novella I

Novella I - Un prete avaro è gentilmente beffato da alcuni buon compagni, che gl’involarono un grosso castrone
Parte II Parte II - Novella II
[p. 186 modifica]al molto reverendo signore monsignor Filippo Saulo vescovo brugnatense salute


L’avarizia è così pestifero e vituperoso morbo che ancor che l’uomo si ritrovi carco di figliuoli e figliole ed abbia pochi beni de la fortuna, secondo che viene lodato spendendo discretamente ed astenendosi da molte cose che forse paiono necessarie, sempre che si conoscerà che egli sia avaro sarà senza dubbio da tutti i buoni biasimato e morso, perciò che l’avarizia mai non sta bene in qual si voglia grado nè età d’uomini o donne. E perchè crediamo noi che gli usurai, i rattori, i ladroni e quei mercanti che con inganno fanno la mercanzia siano chiamati avari, se non perchè per la lor volontà di pigliare e ritener le cose altrui e non proveder ai bisogni necessarii s’oppongono a la giustizia? Opera giudicata di grandissimo peccato, chè questi beni che Iddio ci dona deveno da noi esser con quella misura presi e dispensati che il grado nostro richiede. Altrimenti avendovi inordinato appetito, facciamo un’opera contraria a la liberalità che è vertù moralissima, tanto da tutti gli scrittori così infedeli come cristiani celebrata. Ora se l’avarizia che mai non può esser buona, a tutti sta male, chè certamente sta malissimo rendendo ciascuno in cui regna infame ed al publico odioso, penso io che non possa star peggio in nessuno di quello che ella sta nei preti. E chi dubita, se ogni cristiano che voglia esser degno di questo nome, deve esser pieno di carità la quale rende l’uomo amorevole, cortese, liberale, benigno, paziente e compassionevole ai bisogni del prossimo, che molto più non debbia esser ogni persona religiosa? Quei religiosi che vivono in commune deveno più degli altri esser pieni di carità e compassione, avendo questo obligo da le loro instituzioni. I preti poi che hanno benificii e particolarmente attendono a le cose loro temporali, deveriano tutti ardere di carità ed esser i più liberali e cortesi che si trovassero, perciò che sono quelli che meno hanno a considerare a la roba che nessun’altra sorte d’uomini, sapendo che dopo la morte loro i benefici che tengono e godeno non vanno per eredità, non gli potendo lasciar a lor volontà. E nondimeno, – ahi vituperio del guasto mondo! – pare che oggidì come si vuol [p. 187 modifica]dire un avaro si dica un prete. E certo chi lo dice ha gran torto, perciò che la mala vita di tre o quattro non deveria macchiar l’onesto vivere degli altri, essendoci molti in questa nostra età preti da bene che santissimamente vivono e liberalmente dispensano i beni loro. Io direi che tra gli altri voi sète uno di quelli, che sino da la vostra fanciullezza sempre sète stato nemicissimo degli avari e che dopo che sète beneficiato vivete splendidamente e largamente a’ poveri e vertuosi donate. Ma io non vo’ su la faccia vostra lodarvi, tanto più essendo la liberalità vostra chiarissima. Ora tornando a questi preti avari i quali vorrebbero per loro soli trangugiare quanto hanno al mondo, e non darebbero un pane per amor di Dio, dico che se talora vien loro fatta qualche beffa e se sono biasimati, che a me pare che lo meritano e che poca compassione si deve lor avere. Onde avendo questi dì il vostro e mio, anzi pur nostro Lucio Scipione Attellano, fatto un solenne e sontuoso banchetto a la signora Bianca da Este e Sanseverina, ove intervennero molti gentiluomini e gentildonne, ragionandosi dopo il desinare di varie cose, il nostro dottor di leggi, che era uno degli invitati, messer Girolamo Archinto, e che conoscete come è piacevole, narrò una bella beffa fatta a un avarissimo parrocchiano; la quale parendomi molto festevole io scrissi, e quella ho voluto mandarvi a ciò che dopo gli studi vostri de le civili e canoniche leggi, ne le quali sète eminentissimo come l’opere vostre stampate fanno ferma fede, possiate quella leggendo, gli spirti vostri ricreare, se quella degna stimerete deversi da voi leggere; il che, la vostra mercè, mi persuado che per l’amor che mi portate voi farete. State sano.

Un prete avaro è gentilmente beffato da alcuni buon compagni che gl’involarono un grasso castrone.


Io vorrei, signore mie umanissime e voi cortesi signori, che il nostro messer Andrea da Melzi non fosse stato astretto dopo il desinare a partirsi, a fine ch’egli quello che io ora intendo di narrarvi avesse narrato, come colui che è sì bel dicitore e tanto, quanto nessun altro gentiluomo di Milano, pieno di bei motti e di questa istoria che io dirò meglio di me consapevole. Ma poi ch’egli non ci è e volete che io parli de le beffe che talora si fanno a questi preti avari, io ubidirò con speme di sodisfarvi. [p. 188 modifica]Dico adunque che ne la villa di Mazzenta, non è guari di tempo, fu un don Pietro prete, parrocchiano de la villa, uomo assai attempato e tanto avaro che non si potria dir più, il quale avendo buona prebenda ed oltra questo ogni dì guadagnando quasi il vivere de le elemosine ed offerte che per i morti si facevano, aveva sempre paura di morir di fame e non averebbe invitato nè prete nè secolare a casa sua a bere un bicchier di vino, ed egli mai non recusando invito che fatto gli fosse, francava al mangiar il suo carlino. In casa sua egli per la bocca sua faceva tutti quei delicati mangiari che avere si potessero, e teneva una donna di buona età che era perfettissima cucinara. Aveva egli di continovo i suoi capponi ad ingrassar, i migliori che ne la villa si trovassero. Al tempo de le quaglie egli conserva ne faceva per tutto l’anno, il medesimo facendo de le tortorelle. Così, secondo le stagioni, in casa sua sempre aveva degli augelli ed animali selvaggi, e dove andava il fatto de la gola, per comprare un buono e ghiotto boccone non risparmiava mai danari, e quando argento stato non ci fosse, egli averebbe impegnato la cotta, la croce, la pietra sacrata e credo anco il calice. Ma se egli si fosse trovato il giovedì da sera le vivande sopra il capo, non pensate che egli mai avesse invitato persona; onde il suo chierico, la massara e dui altri famigli che teneva facevano vita chiara e si davano il meglior tempo del mondo. Avvenne del mese di novembre che, essendo fuor di Milano un giovine nostro gentiluomo con un altro gentiluomo suo amico, ed alloggiando vicini al prete due picciole miglia, e quivi diportandosi con la caccia, intesero de l’avarizia del prete e de le grasse provigioni che di continovo in casa teneva, e come tra l’altre cose egli aveva allevato un castrone che era divenuto grassissimo e lo serbava ad ammazzarlo a le feste di natale, a ciò che meglio per i freddi conservar lo potesse. Questo intendendo, il nostro giovine deliberò far rubar il castrone al prete e farlo mangiare in un pasto ai buoni compagni. Fatta questa deliberazione, chiamò dui dei suoi famigli che averebbero fatta la salsa al gran diavolo e diede loro l’ordine di quanto egli voleva che facessero. I dui servidori dissero che farebbero il tutto; dei quali l’uno si chiamava Mangiavillano e l’altro Malvicino e su le guerre erano stati perfetti saccomanni. Poi che i dui famigli ebbero la commissione, cominciarono a divisar tra loro del modo che devevano tenere ad involar il castrone, a ciò che la cosa riuscisse senza strepito. Alora disse Malvicino: – Compagno, se noi sappiamo fare, siamo i più avventurosi uomini del mondo. [p. 189 modifica]Io mi ricordo che ieri quando pigliammo la lepre che tante volte ci ha fatto correre, che me n’andai a la cascina di Giacominaccio Oca e vidi sovra una tezza de le noci assai, che ancora non le hanno ridutte in casa. Al corpo del pissasangue, io voglio che l’andiamo a beccar su, e faremo una brava agliata, chè il castrone senza agliata non val un pattacco. – Tu dici il vero, al corpo del vermocan! – rispose Mangiavillano. Facciamo adunque così come io ti diviserò. Io su le quattro, o tra le quattro e cinque ore di notte, me n’anderò a la casa del messere ed entrerò senza difficultà dove egli tiene il castrone, e a la prima gli metterò una musaruola che saperò fare a proposito a ciò che non gridi, e poi me lo metterò in spalla. Tu in quel tempo medesimo anderai a pigliar le noci, ed oltra le noci guarda, se la ti venisse destra, che tu potessi pigliare due o tre oche, chè sai che barba Giacomaccio le ha sempre belle e grasse. – Potta de la morìa! – disse Malvicino, – questo sarebbe un bel tratto se io lo potessi fare. Ma tu sai bene che l’oche hanno il diavolo a dosso, chè sentono ogni picciolo strepito che l’uomo faccia. Io vedrò più tosto di pigliare quattro o cinque galline, di quelle che dormeno appresso al gallo che si dice che sono più grasse de l’altre. – Mai sì, disse Mangiavillano, – tu sei un gonzo: galline e capponi ci mancano forsi in casa del padrone? Ogni dì, come sai, ne abbiamo. Vedi pur di fare una rastellata d’oche. Ora il primo che averà ispedito il fatto suo aspetterà il compagno dentro l’avello de la pietra che è senza coperchio, che è nel canto del cimiterio tra la chiesa e la casa del domine. Io ci sono stato altre volte dentro, e non ci sono nè ossa di morti nè altra cosa, se non se qualche pietra che talora i fanciulli vi gittano. Sì che là dentro entri chi primamente ci arriverà. – Così si faccia, – disse l’altro. Venuta l’ora determinata, ciascuno andò ad essequire quanto s’era contentato di fare. Malvicino pervenne ove erano sparse le noci, e tante a suo bell’agio ne prese quante ne volle, e quelle ripose in un sacco che seco recato aveva. A pigliar l’oche ebbe assai che fare, perciò che erano troppo vicine a l’albergo dei massari; pur tanto s’ingegnò che tre oche grassissime prese, a le quali ruppe il collo e mise con le noci. Poi col sacco in spalla se n’andò verso il cimiterio, e pervenuto a l’avello, e veggendo che Mangiavillano ancora non v’era, egli entrò dentro aspettando il compagno. Era il giorno avanti venuta la gotta a don Pietro ed era scesa con tanto umore che, essendo nel letto, non lasciava andar a dormire il chierico e meno la fanticella, tuttavia gridando e lamentandosi: gli altri dui servidori aveva egli mandati fuori in certi [p. 190 modifica]suoi bisogni. Il perchè Mangiavillano sentendo il romore in casa, non ebbe ardire di rubar il castrone così prestamente come voleva. Egli aspettava pur che la brigata andasse a letto. Ora crescendo il dolore de la gotta tuttavia, don Pietro disse al chierico: – Figliuolo, io mi ricordo che questi dì passati maestro Girolamo Arluno, (sai, quel medico che questa state mi guarì), mi mandò un’ampolla di certo olio di rane, che diceva esser molto buono a mitigar il dolore quando cresce. Io lo riposi ne l’armadio de la sagrestia e mai non m’è sovvenuto di recarlo in casa. Alluma una candela, e va e recamelo qui, che Dio ti benedica. – Era la casa del domine distante da la chiesa un buon tratto d’arco. Il perchè il chierico, presa la lanterna, allumò un moccolo di candela e s’inviò verso la chiesa. Fra questo mezzo rincrescendo a Malvicino il tanto aspettare, egli cominciò a romper de le noci e mangiarle. Il chierico giunto sovra il sagrato, come udì lo strepito del romper de le noci, così in un subito fuggendo se ne ritornò a dietro in casa e disse al prete con una voce tremante e in faccia tutto pallido: – Domine, oimè, che io son quasi morto, imperò che sovra il cimitero ho sentito i morti che fanno un gran romore. Io non anderei solo in chiesa, chi mi desse la badia di Chiaravalle. Vi so dire che ho avuta una de le belle paure del mondo e che mai avessi da che nacqui. – Oh, tu sei pazzo, – rispose il prete. – Fatti il segno de la santa croce e non ti dubitare. Tu devresti pur sapere che i morti son morti e non hanno sentimento nè vanno a torno. Va va, figliuol mio caro, e recami l’ampolla, a ciò che ungendomi cessi tanta doglia e possa un poco riposare. – Messere, – disse lo spaventato chierico, – voi non fate se non dir la vostra. Io non v’andarei per tutto l’oro del mondo. So ben io che ho sentito. Non avete voi udito dire che molte fiate i morti guastano le creature? E questi dì pur là ove fu morto Chiappino del Gatto da Monza fu visibilmente visto un uomo terribile, nero e' 'sozzo, e ci sono di molti che affermano che ora appare con la testa, ora senza, e che spesso urla com’un cane. Voi non fate se non dire. Io non ci vorrei incappare in questi spiriti e che mi facessero male. – Veggendo il prete che il chierico non era per andar a tor l’olio, si trovò molto di mala voglia, e sofferendo con poca pazienza il tormento de la gotta disse: – Se ti dà l’animo di portarmi, io verrò teco a veder queste meraviglie che tu dici. Ma guarda che non sia la guarnacciuola che ti faccia farneticare e veder le lucciole di novembre. Ieri in mia malora io mandai via Bettino ed il Cagnuola, i quali se ci fossero mi levarebbero di doglia, andando a pigliar l’ampolla de l’ [p. 191 modifica]olio. Ma dimmi la cavalla e il castrone sono stati governati? – Io gli ho governati, – disse il chierico, – e stanno bene, ed ho serrata la stalla. Or se vi dà il core, essendo portato di venire sul cimitero, per questo non resterà, chè io vi porterò bene a la chiesa e vi ritornerò in casa, chè per Dio grazia son grande e grosso e ho buone spalle. – Deliberò adunque il prete farsi portar a la chiesa, e fattosi metter la pelliccia a torno e le calze in gamba, fu dal chierico preso su le spalle. Mentre che il domine faceva i suoi ragionamenti col chierico, Mangiavillano era ne l’orto e sentiva ciò che il prete diceva, rincrescendogli che non andassero a dormire; ma quando sentì che gli altri dui servidori dei quali alquanto dubitava non ci erano, disse tra sè: – Il castrone è nostro. – E prima che altro far volesse, avendo udito che il prete voleva farsi portar a la chiesa, uscì chetamente de l’orto e venne presso al cimitero per sentir anco egli le meraviglie che il chierico diceva. Egli conobbe chiaramente che lo strepito era dentro quella sepoltura ove dato era l’ordine col compagno di aspettarsi, e quasi fu per mettersi in fuga, perciò che Malvicino a cui rincresceva il tanto aspettare si moveva per entro lo avello, e il sacco de le noci faceva certo romore che per il silenzio de la notte era alquanto spaventevole. Tuttavia Mangiavillano drizzando meglio gli orecchi, s’accorse che quello strepito era de le noci che Malvicino con un sasso frangeva, e disse fra sè: – Il mio sozio ha finita l’opera sua ed io ancora non ho fatto covelle; ma poi che questo diavolo del prete si vuol far portar a la chiesa e nessuno in casa ci resta, io ho adesso la meglior ventura del mondo, chè al corpo del turco io ne porterò via il castrone. – Fatto tra sè questo discorso, fu per dar segno al compagno com’era quivi e dirgli che aspettasse ancora un poco; ma sentendo aprirsi l’uscio del prete, egli chetamente se ne tornò al buco che ne la siepe del cortile fatto aveva e andò dritto a la stalla, la quale senza fatica aperta, pose la musaruola al castrone, e legatogli tutti quattro i piedi se lo recò in spalla e venne verso il cimitero. Fra questo mezzo don Pietro che bramava aver l’olio per mitigar i dolori che lo tormentavano, con l’aita de la donna salì su le spalle al chierico. La fante portava il lume innanzi. Il buon chierico ansando e soffiando per la gravezza del peso che a dosso portava, s’inviò verso il sagrato. Il prete andava dicendo certe sue orazioni. Malvicino continovava pur col sasso il romper de le noci; il che il chierico sentendo: – Parvi egli, – disse, – messere, ch’io farneticassi? – Va pur là, – rispose il prete. Ora essendo alquanto a l’avello appresso, [p. 192 modifica]Malvicino sentì l’ansare che faceva il chierico e pensò che fosse Mangiavillano che soffiasse per la gravezza del castrone; onde senza pensar altro, gittò fuor il sacco de le noci in terra e saltando su tutto ad un tratto, disse: – Ben venga, ben venga. Diavolo, tu soffi bene; come è egli grasso? – Il chierico quando udì lo strepito del sacco a terra gettato, e sentì quelle parole, non ebbe al mondo mai il più timoroso spavento, e tratto in terra il povero don Pietro, tremante disse: – O sia magro o sia grasso, to’, piglialo pur, ch’io te lo lasso. – E detto questo si mise la via fra’ piedi e lasciando il misero gottoso se ne fuggì in casa. Il prete anco che minor paura non aveva, smenticatosi il dolore de la gotta cominciò a pagar di calcagna in modo che non sarebbe stato tenuto per infermo. La fantesca medesimamente più morta che viva, gridando quanto poteva fuggì in casa. Malvicino sentendo questo nè sapendo imaginarsi che cosa fosse, sentendo fuggir e gridar coloro, dubitò non esser quivi còlto a l’improviso da qualcuno; ed eccoti Mangiavillano che veniva scoppiando de le risa per la fuga del prete. Come Malvicino conobbe il compagno, gli andò incontro e gli disse: – Che diavolo è quello che ho sentito? – Mangiavillano gli narrò quanto aveva udito e visto, e col castrone, oche e noci se n’andarono a casa. Quando il nostro giovine già detto, che era piacevole e cortese gentiluomo, intese la cosa com’era passata, assai ne rise. Fu mangiato il castrone col resto, e don Pietro restò col male e con le beffe. Nondimeno il nostro gentiluomo indi a pochi giorni e al prete, del castrone, e a Giacominaccio de le noci e de l’oche, fece con segreto modo sodisfare, di modo che l’uno e l’altro si tennero a pieno pagati, non sapendo perciò chi fosse colui che gli facesse pagare.


Il Bandello a la molto magnifica e vertuosa signora la signora Ippolita Torella e Castigliona


Egli non fu mai, signora mia osservandissima, ingegno così rintuzzato nè uomo tanto materiale o sì fieramente da melensaggine stordito, che s’apre il petto ai raggi de l’amoroso fuoco, ch’in breve tempo tutto non si tramuti e non divenga un altro da quello che era; perciò che l’amoroso focile gli apre gli occhi de la