Novelle (Bandello, 1853, I)/Parte I/Novella XXXII
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Il volersi senza l’opere acquistar nome di santità pare che per il più regni ne le persone religiose che in altri, perciò che tutti vorrebbero esser tenuti santi, e se qualche vizio in loro si truova, si sforzano celarlo più che sia possibile, sì per riverenza de l’abito, come anco per tema del severissimo castigo che loro dai superiori vien dato. Ma perchè tutte le simulazioni sono come l’erba sotto la neve, che a breve andar si scopre, così tutti questi ippocriti col corso del tempo sono scoperti ed assai spesso beffati. Il che è cagione che molte fiate i veri e buoni religiosi non hanno quel credito che si deveria. Ed essendo in Napoli scopertosi certa ipocrisia d’una persona religiosa, e di quella a la presenza di vostra zia – madama Beatrice di Ragona reina d’Ungaria, rimasta vedova per la morte de l’immortal eroe il re Mattia Corvino – parlandosi, il signor Francesco Siciliano maggiordomo di quella, uomo attempato e molto da bene, fu da quella richiesto che narrasse ciò che avvenne a fra Francesco spagnuolo, che voleva esser tenuto agnello ed era lupo rapacissimo. Il signor Francesco assai si scusò di non dirlo. Voi che quivi eravate vicino a lei, devete ricordarvi ciò che la reina gli replicò, chè per ora non accade scriverlo. Egli dunque da quella astretto disse come la cosa era passata, la quale subito fu da me scritta. E non volendo che senza padrone resti, al nome vostro la dono e consacro per segno de la mia servitù e dei molti beneficii da voi ricevuti. State sano.
Perciò che, sacra reina, io mal volentieri metto la lingua mia ne le cose pertinenti a le persone religiose, le quali, se non per altro, almeno per il sacramento che hanno a dosso sono degne di riverenza, io desidero appo tutti esser scusato, chè quello che dirò è da me detto per comandamento di quella a cui non ubidire a tutti gli altri sarebbe vergogna, ma a me sarebbe sacrilegio, essendole io quel divoto servidore che sono. E se talora qualcuno si scandalizzasse, deve questo tale ridursi a memoria che nel senato del nostro clementissimo messer Giesu Cristo, ove non erano se non dodici uomini, ce ne fu uno che per ingordigia di danari lo diede in mano traditoramente ai suoi capitalissimi nemici. Non sarà adunque meraviglia se ne la religione dei frati minori ove sono molti prodi e santi uomini, se ne ritruova talora alcuno che sia uomo di mala vita, essendo essi dispersi per tutte le parti del mondo, e in tanto numero che non ha tante mosche la state la Puglia. Ora venendo al fatto, ciò che dirò ho sentito narrare al nostro divin poeta e in molte scienze dottissimo messer Giovanni Gioviniano Pontano, che tutti devete aver conosciuto, non essendo ancora troppo che il buon vecchio morì. Soleva adunque egli in ogni tempo, ma più in questa sua ultima età, ov’era libero dai publici negozi, tener la brigata ch’era seco in grandissimo piacere, perciò che sempre aveva qualche cosa nuova da dire. Disse adunque tra l’altre volte che essendo egli segretario de la felice memoria del re Ferrando padre vostro, madama, che in Napoli venne a predicar fra Francesco spagnuolo de l’ordine dei frati minori; il quale quantunque fosse grossolano e senza lettere, nondimeno essendo audacissimo e sovra ogn’altro ambizioso e meglio di ciascuno sapendo simulare, caminando col collo torto e portando la cappa sudicia e stracciata, s’acquistò tanto credito appo il popolo che tutto il mondo dietro gli correva. Aveva egli benissimo apparata la lingua nostra, e in ogni luogo ove si trovava da ogn’ora col crocifisso in mano faceva un sermone. Egli non si vergognò publicamente predicare che tutto quello che diceva il giorno, gli era la notte dai santi angeli in orazione rivelato. Nè di questo contento, mille revelazioni si faceva su le dita; e quello diceva a la morte sua esser salito in cielo senza toccar le pene del purgatorio, quell’altro esser sceso al purgatorio e quell’altro rovinato nel profondissimo baratro del penoso inferno, dicendo che tutte queste cose nostro signor Iddio gli aveva rivelate. Aveva predicato in Calavria con una stupendissima grazia, e ne le sue prediche altro non si sentiva che riprender i vizii e dir tutto quello che in bocca gli veniva. Nel tempo ch’egli venne a Napoli avvenne che il re catolico insieme con la reina Isabella di Castiglia, donna in ogni secolo mirabile, fe’ uscir dei regni de la Spagna tutti i giudei e marrani che vi si trovavano, dei quali, e massimamente dei marrani, assai in questo regno si fermarono. Per questo entrò nel capo a fra Francesco di far ogni opera a ciò che i il re Ferrando facesse il medesimo. Ma il re Ferrando che sapeva che la chiesa tolera che nei luoghi de’ cristiani possino i giudei abitare, e ai marrani aveva fatto intendere che se poteva trovare che giudaizassero che gli castigarebbe, non faceva stima de le parole del frate. Onde egli non si veggendo stimare, cominciò rabbiosamente a predicar contra i giudei e quasi a sollevargli i popoli contra, profetizzando contra il re e contra i popoli. Fecelo un giorno a sè chiamare il re Ferrando, e volle da lui intendere qual cagione il moveva perchè così accerbamente contra i giudei predicasse. Egli non seppe altro dire se non che essendo di quella perfida generazione che crocifisse il nostro Redentore, che meritavano tutti esser dal consorzio umano cacciati e dispersi in luoghi inabitabili, e minacciava da parte di Dio il re, se ad imitazione di suo cugino non gli sterminava. Il re non veggendo altro fondamento nel frate non gli diede orecchie, quel conto di lui tenendo ch’egli averebbe tenuto d’un circolatore o ceretano. Il che l’ambizioso e superbo frate non poteva sofferire; e più di giorno in giorno crescendo in lui questo umore, si deliberò tra sè con nuova arte indurre il re a cacciar i giudei. Egli partì da Napoli e andò a Taranto, ove altre volte aveva molto graziosamente predicato. Quivi segretissimamente fabricata una lastra di metallo, dentro a quella da uno dei suoi compagni, uomo assai dottrinato ma de la vita simile a fra Francesco, fece intagliare alcune parole, le quali parevano esser in quella impresse di mano di san Cataldo, santo in quella contrada di grandissima riverenza. Ebbe poi modo di seppellire essa lastra non troppo fuor di Taranto, in una chiesetta campestre che era gran tempo innanzi intitolata a san Cataldo, e quivi lasciolla sepolta per tre anni continovi, nel qual tempo egli or qua or là andava per il regno, predicando tuttavia contra i giudei, dicendo sempre qualche cosa. Passati i tre anni ritornò a Taranto, e per via d’una buona somma di danari, ancora che andasse in zoccoli, corruppe un povero prete di cui era la chiesa ove la lastra era sepolta, e quello ammaestrò di quanto intendeva che facesse. Il povero prete che non traeva di profitto diece lire di rendita in tutto l’anno da la chiesa, avendo avuto di molti ducati da messer lo frate e sperando di meglio, promise largamente di essequire quanto egli aveva ordinato. Onde, cavata la lastra, se ne venne a Napoli, ed avuta la comodità di parlare al re Ferrando, gli disse: – Sacro re, io sono un povero prete che ho una picciola chiesa a Taranto dedicata a messer san Cataldo; il qual santo visibilmente una notte m’apparve e mi comandò che il seguente matino io entrassi ne la sua santa chiesa e cavassi dietro a l’altar maggiore quattro piedi in profondo al mezzo de l’altare, chè io ritrovarei una lastra di metallo; e che quella subito io portassi qui a voi, dicendovi da parte sua che voi non la publichiate fin che non l’abbiate communicata a un solo di questo regno, che sia il più famoso predicatore e di santa vita che vi si truovi: che poi voi facciate tutto quello che il santo uomo vi consiglierà, altrimenti che Iddio l’averebbe per male. – Udita il re questa favola così ben ordita, prese la lastra in mano e lesse le parole che dentro vi erano intagliate. E ancora che fossero enigmatice ed oscure, v’era perciò non so che contra i giudei. Stette il savio re buona pezza tutto pensoso, e pensando a quel cacciar via i giudei, si ricordò di fra Francesco, e caddegli in animo che questa fosse sua farina, e che ad altro fine fatta non l’avesse se non per esser da lui chiamato a conseglio de la lastra e cacciar i giudei del regno. Il perchè voltatosi al prete col viso mezzo turbato gli disse: – Prete, prete, io a mano a mano ti farò conoscere che cosa è beffare il tuo re. Questa cosa è fatta a mano, e so chi è colui che te l’ha fatta portar qua. Ma se tu liberamente mi dici il vero, io t’imprometto non ti far mal nessuno. – Messer lo prete che sapeva che con il re non bisognava scherzare, s’accorse ch’era stato un gran pazzerone a creder al frate, e già li pareva esser dal manigoldo strangolato. Il perchè gettatosi ai piedi del re e umilmente chiedendogli mercè, gli narrò come il fatto stava, e tutto quello che il frate seco aveva divisato, e i danari ricevuti, con le promesse grandissime che fatte gli aveva con dirgli che sperava in breve esser vescovo e che gli averebbe fatto del bene, se portava questa lastra a Napoli. Il re alora disse al prete: – Domine, io ti perdono il tutto; goderai in santa pace i danari che il frate ti ha donato e vederai averne degli altri, se puoi. Ma avvertisci a quanto io ti dirò, e per quello che t’è cara la vita servalo. Tu te ne ritornerai a Taranto e dirai al frate che tu m’hai recata la lastra e dettomi il tutto puntalmente come egli ti aveva imposto, che io pazientemente t’ho ascoltato e risposto che io non credo a queste sue visioni. Ma guardati: non dirgli che m’abbia scoperta la cosa. – Parve al prete d’esser stato resuscitato da morte a vita, e promise al re intieramente di far tutto quello che egli gli comandava. E così si partì e tornò a Taranto, dicendo al frate tutto ciò che il re gli aveva ordinato. Quando messer lo frate intese questo e vide dopo alcuni dì che il re non lo chiamava a interpretar le parole de la lastra, egli entrò in tanta smania che ne fu per impazzire, e non poteva per niente sopportare che il re facesse così poco conto di lui e che le sue malizie non avessero avuto luogo. Onde in ogni sermone diceva del re il maggior male del mondo. Nuove visioni poi e simulate revelazioni predicando e de la miracolosamente rivelata lastra parlando, tanto fece che la fama ne pervenne al papa, il quale fece scrivere al re per chiarirsi di questo fatto. Il re che fin a quell’ora s’era prudentemente governato e per onor de l’ordine minoritano non aveva voluto far movimento alcuno, fece subito dar de le mani a dosso ai dui più segreti compagni di fra Francesco, i quali confessarono molte sceleratezze del padre. Onde con questo processo mandò al papa il prete che aveva recata la lastra, e volle anco che fra Francesco gli fusse condotto. Il papa, fatto il tutto con diligenza essaminare e ritrovato che erano tutti adulteri, sacrìlegi e proprietarii, condannò i dui compagni insieme con fra Francesco a star in prigion perpetua e digiunar tre giorni de la settimana in pane ed acqua. Furono adunque consegnati in mano del lor generale che a Roma era, e posti in carcere purgarono amaramente fin che vissero i lor peccati. Tale fine adunque ebbero le visioni di fra Francesco spagnuolo.
Questi dì, come sapete, la molto bella e vertuosa signora Ippolita Torella, moglie del signor conte Baldassar Castiglione, essendo di parto del suo figliuolo il conte Camillo, fu, come è la costuma, da tutte le gentildonne e gentiluomini mantovani tutto ’l dì visitata. E se vi ricordate, essendovi voi insieme con l’illustrissima signora Isabetta Gonzaga, già moglie del signor Guido d’Urbino, per alcune lettere che riceveste fu necessario partirvi. E dopo la vostra partita venne non so chi, il quale disse di certo berrettaio che si era per gelosia d’una sua innamorata ammazzato. Alora messer Antonio Filoseno, giovine di buone lettere latine e greche dotato, che insegnava al signor Galeazzo Gonzaga del signor Giovanni, pigliando la parola disse: – Deverebbero pur oggimai questi infortunati amanti apparare