Novelle (Bandello, 1853, I)/Parte I/Novella XXV
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d’alcuno a cui vogliono male, e poi sputano veleno a l’ultimo fuori con dire: – Egli ha perciò fatto la tale e la tal cosa e non si deve fidar di lui, perciò che va doppiamente, – e le buone opere interpretano in male. Questi maldicenti si deveno fuggire come la peste, essendo in effetto essi la peste e il morbo de le case e de le corti e cagione bene spesso di grandissimi mali. Ma tornando ove io diceva che il marito chiese perdono a la innocente donna, vi dico che ella gli perdonò molto graziosamente, e gli manifestò l’audace e presontuoso assalto che con parole fatto le aveva il ribaldo maggiordomo. Averebbe voluto alora il signore che il traditore fosse stato vivo a ciò che di nuovo l’avesse potuto vedere a brano a brano lacerare dai famelici lioni, parendoli che la sceleratezza di lui meritasse mille crudelissime morti. Fece poi esso signore su l’entrata del suo castello intagliare da scultori eccellenti in finissimi marmi tutta questa istoria, a ciò che la memoria ne durasse perpetuamente, come da chi va a quel castello ancora oggi si vede. Eccovi che sfortunato fine ebbe il mal regolato appetito del disonesto e disleal servidore, degno di molto più fiera ed acerba morte di quella che miseramente fece. Onde si può con verità conchiudere che le cose cominciate con cattivo principio conseguino di rado buon fine, come per il contrario le principiate bene ordinariamente vanno di bene in meglio con ottimo fine.
Partendoci questi dì passati frate Girolamo vostro figliuolo ed io, per andar a visitare il sepolcro di Varallo e quei bellissimi e divoti luoghi fatti e ordinati a simiglianza dei luoghi di Terra Santa, dapoi compito il viaggio e ritornati allegramente a Deciana, voi voleste che andassimo a goder l’amenità ed il fresco in Monferrato, del vostro castello di Ponzano, vicino a la famosa chiesa di Santa Maria di Creta. Era tra gli altri che vennero di compagnia con noi l’eccellente dottore messer Costantino Tizzone, uomo, come meglio di me sapete, oltra le buone lettere che ha, di costumi integerrimi e di conversazione molto gioconda e piacevole. Essendo adunque a Ponzano e ragionandosi d’un ladroneccio che era stato fatto a Crescentino, terra del conte Giacomo Tizzone vostro cugino, che il ladro aveva fatto impiccare come era meritevole, si venne non so come a ragionar del costume antichissimo dei lacedemonii, i quali, quando era commesso un furto, ritrovando il malfattore, acerbamente lo punivano come uomo di poco ingegno che non aveva saputo l’error e fallo suo coprire. Per il contrario poi, divolgato il furto e fatte le debite e diligenti inquisizioni, se il ladro non si poteva ritrovare nè di lui aversi indicio alcuno, e, fatta la investigazion solita, egli poi si fosse al magistrato spartano manifestato, non solamente non riceveva danno nè vergogna, ma gli erano dati premii da la republica con lode grandissime, giudicandolo uomo d’elevato ingegno, prudente ed astuto. E tra noi essendo nata questione se questa legge o costuma che si fosse era lodevole o no, molte cose furono dette, secondo il parer di ciascuno. Non v’essendo poi chi la lite terminasse, messer Costantino, imposto ai litiganti silenzio, narrò una piacevol novella circa la materia dei furti; la quale parendomi bella fu da me scritta e posta nel numero de le mie novelle. Ora, rivolgendo questi dì le scritture de le mie novelle, questa mi venne a le mani e mi parve di quella farvene un dono e porla sotto l’ombra del vostro nobilissimo e dotto nome. Voi, quando talora sarete stracco dagli studii vostri gravissimi e dal continovo comporre che fate, potrete, leggendo questa novelletta, dar un poco di riposo agli spiriti vostri, che da l’assidue contemplazioni di cose dottissime non può essere che non bramino alquanto di remissione. E ben che voi siate tra i dotti nobilissimo e tra i nobilissimi dottissimo, non vi sdegnarete perciò questo mio picciolo dono accettare, essendo a tutta Italia manifesto che, con l’antichissima nobiltà del sangue, insieme con le buone lettere avete il raro tesoro de l’umanità e cortesia, che in voi risplendono come finissimo rubino orientale legato in biondo e ben brunito oro. State sano.
Noi stiamo qui a litigare e beccarci il cervello volendo sapere se quelle leggi che Licurgo diede agli spartani sono buone o triste, e penso se il mio onorato precettore messer Giason Maino fosse qui che averebbe assai che fare a por fine a cotanta lite quanta voi avete mossa. Io non vo’ già dire che la investigazione de la verità non sia cosa lodevolissima, anzi l’affermo e lodo; ma ben vo’ dire che tutti gli atti umani deveno esser fatti a luogo e tempo, volendosi servar il decoro de le cose e dar le parti sue a l’animo e le sue al corpo. Noi siamo partiti da Deciana e venuti qui non per disputare ed astrologare o far lite, ma per ricrearci, darci piacere e star con gioia ed allegrezza. Se io volessi starmi a lambicare il cervello, io me ne sarei restato a Vercelli con i miei clienti e non sarei venuto a Deciana e meno qui. Perciò mi parria, se così pare a voi, che per questi giorni, che saranno otto o dieci dì, che dimoraremo in questo luogo, che noi devessimo bandir tutti i fastidii e i pensieri noiosi ed usar quella onesta licenza che la stagione ed il luogo ci dà. Noi siamo in villa, lungi da la città ove a me bisognarebbe andar togato e a voi altri che ciascuno vestisse secondo il grado suo; ove qui ce ne stiamo, come vedete, senza cerimonie ed usiamo quella libertà che ci pare. E per levar via le liti che erano tra noi, non lasciando perciò il ragionamento dei ladronecci, io ve ne vo’ narrare uno fatto in Egitto, ove ebbe assai maggior premio che non averebbe conseguito se si fosse trovato tra gli spartani. Vi dico adunque che ne l’antiche istorie dei regi de l’Egitto si legge che, morto Proteo, successe a quello per re uno chiamato Rapsantico, il quale fu il più ricco re che mai regnasse in quelle contrade. Egli, trovandosi i tesori grandissimi e quasi infiniti che a quelli di Proteo aveva aggiunti, non si confidando tenergli in palagio che fossero sicuri, perchè in quel regno erano ladroni solenni, trovato un ingegnosissimo architetto, fece far un luogo particolare con muri fortissimi per la custodia di quelli, e le porte erano ferrate. L’architetto, che sapeva la cagione che moveva il re a fabricare quella machina, vi mise tutto l’ingegno suo per sodisfare al voler del re, e fece il luogo, oltra la beltà, molto sicuro. Tuttavia, combattuto e vinto da la cupidigia de l’oro che molte fiate i più saggi col suo velenoso splendore abbaglia, nel muro che rispondeva sovra la strada, e tutto era di pietre di marmo maestrevolmente acconcie, dispose in modo una pietra che ella si poteva levare e mettere, ed altresì alcune che di dentro guardavano tanto sottilmente acconciò, che chi sapeva il fatto come stava, sarebbe di notte entrato ed uscito che uomo niente non se ne sarebbe avveduto già mai. Finita che fu l’opera, il re fece portarvi dentro tutti i suoi tesori, e la chiave teneva sempre a cintola, non la confidando a persona del mondo. L’architetto, o pentito di voler rubare i tesori o che che se ne fosse cagione, si stette che mai non si mise a cotal impresa. Ed indugiando di giorno in giorno, e tuttavia differendo di rubar il luogo, egli infermò gravissimamente. Onde, veggendo che l’opera dei medici non gli recava punto di conforto o di profitto e che di quella infermità gli conveniva morire, chiamati a sè dui suoi figliuoli che senza più aveva, a quelli puntalmente l’inganno de l’edificio e come i marmi si devessero levare e poi riporre con molte parole manifestò, e non molto dapoi se ne morì. I figliuoli, che erano giovini e desiderosi in poco di tempo e con poca fatica d’arricchire, morto il padre, non tardarono troppo, presi i loro ordigni, di metter in essecuzione il desiderio loro. Il perchè una notte andarono al luogo e, fatta esperienza de la cosa, molto facilmente le ingannevoli pietre smossero de l’ordine loro e dentro il ricco albergo se n’entrarono, involando quella quantità d’oro che più loro fu a grado. Racconcie poi le pietre come di prima stavano, carchi di preda a casa ritornarono. Aveva per costume il re assai spesso tutto solo entrar in quella ricca stanza e quivi per buono spazio di tempo diportarsi, pascendo la vista de la varietà de le medaglie de l’oro, de le monete, dei vasi d’oro maestrevolmente fabricati e de la copia de le gemme che quivi dentro erano, tenendosi esser beato in terra e non aver re alcuno che tanto oro possedesse. Soleva poi, quando ambasciatori d’altri prencipi a casa gli venivano o vi capitavano personaggi alcuni di grado, la prima cosa che faceva, condurgli al predetto luogo e mostrar loro i suoi grandissimi tesori. Era certamente cosa di meraviglioso piacere a contemplar la copia grandissima di tanto oro quanto quivi in mille modi lavorato dagli orefici si vedeva, perciò che v’erano statue di puro oro, d’alcuni dei re passati rappresentanti l’effigie, con le corone d’oro carche de le più ricche e preziose perle e gemme che l’Oriente mandi. V’erano poi tutti i dèi formati in quelle figure ne le quali per paura si trasformarono quando per la tema che ebbero dei giganti, come fingono gli antichi, se ne fuggirono in Egitto, e chi si nascose sotto la forma de la simia, chi del cane, chi de la cicogna, chi del becco, chi del cocodrillo, chi del gatto e chi degli altri animali. V’era Anubi, dio dagli egizii molto onorato, con capo di cane. V’era Iside e tutta la favola sua, quando di donna fu trasformata in vacca e, poi che Mercurio ebbe ucciso Argo, fu per comandamento di Giove data per dea, come scrive Luciano, agli egizii a ciò che gonfiasse il Nilo ed inacquasse il paese, facesse soffiar i venti ed avesse in protezione i naviganti. Ma se io vorrò dirvi tutte le imagini dei dèi che in quel luogo erano, io averò troppo che fare. Insomma, quel tesoro era il maggiore che si sappia esser stato messo insieme in alcun tempo già mai. Ora, dopo che i dui fratelli ebbero fatto il furto, il re secondo che era consueto entrò colà dentro, ed a caso aprendo alcuni vasi che sapeva esser colmi d’oro, quelli ritrovò scemi, e restò pieno di grandissima meraviglia e di stupore, con ciò sia che vestigio alcuno non si vedeva che uomo del mondo fosse quivi dentro entrato. E perchè costume suo era suggellar tutte le serrature che a la porta erano, non le avendo trovate guaste, non sapeva che imaginarsi. Ma poi che due e tre volte i fratelli ci tornarono, sempre scemando i vasi, chiaramente il re conobbe che erano ladroni che il rubavano, ed entrò in openione che i malfattori avessero avuto modo di far fare chiavi contrafatte e falsi suggelli, ed a quel modo entrassero dentro, a man salva pigliando e rubando ciò che loro più era in grado. Onde, trovato un fabro, che era uomo d’acutissimo ingegno, fece fabricar un laccio tanto maestrevolmente che era cosa molto meravigliosa a vedere, e tanto forte che non solamente un uomo averebbe affermato, ma anco un bue; nè senza la chiave che il re appo sè teneva era possibile snodar gli intricati e fortissimi nodi. Il laccio fece il re in modo tra i vasi disporre, che necessario era che subito che uno lo toccava rimanesse alora alora prigione. Egli poi ogni dì se ne veniva a veder se il ladro era ne la rete incappato. I fratelli, che nulla de l’ordito inganno sapevano, una notte, secondo il lor solito levate le ingannevoli pietre, dentro entrarono, e credendo a salvamano involare, uno di loro diede d’un piè nel laccio ed incontinente rimase prigione, trovandosi le gambe indissolubilmente avvinchiate. E quanto più si scuoteva per uscire del laccio egli tanto più s’annodava. Voleva l’altro fratello porgergli aita e discioglierlo, ma non poteva, e ogni volta che s’ingegnava l’inestricabile catena disciorre vie più l’annodava e stringeva i lacci. Il perchè colui che prigione si trovava veggendo che a la sua vita nè scampo nè rimedio dare era possibile, poi che insieme col fratello ebbe cotanta sciagura amaramente pianto e rammaricatosi con pietose parole de la malignità de la fortuna, così gli disse: – Fratel mio, come tu vedi io sono in modo da questo stretto laccio preso, che senza la chiave di chi il laccio ha fabricato quindi non sarà mai possibile che tu nè altri mi levi. E se io qui rimango ed il re mi ci truovi, come senza dubio veruno venendo stamane mi vi ritroverà, sarò conosciuto, e il nostro ingannevol ingegno resterà scoperto. Io ne morrò, prima tormentato per manifestar chi meco è stato a far i furti che fatti abbiamo. Se io potrò senza palesarti sofferire gli aspri tormenti che mi daranno, io nondimeno morrò e tu rimarrai in sospetto d’esser stato meco; oltra che subito il re manderà a casa nostra e ritroverà l’oro, indizio manifestissimo che noi di compagnia l’abbiamo involato. Arrogi poi che nostra madre è vecchia e consapevole dei nostri notturni furti, onde anco ella caderà nosco ne la medesima pena. E così tutti saremo crudelissimamente morti. Pertanto a me pare, anzi dico esser necesssario, che di tanti mali quanti apparecchiati ci sono noi debbiamo senza indugio eleggere il minore. Io a ogni modo morto mi conosco, nè ci è rimedio a liberarmi. Il perchè, fratel caro, non perder più tempo, e non si stia più a bada in parole che nulla montano e senza recarne profitto ne potrebbero dar grandissimo danno. Fa adunque buon animo e tagliami via il capo dal busto e spogliami, a ciò che io da chi in questo laccio mi troverà non possa in modo veruno esser conosciuto. Poi, quanto di questi tesori con le mie vestimenta ed il mio teschio tu puoi portar su le spalle, portane senza indugio via non perdendo tempo. Ma metti ben mente a ciò che ti dico: sia questa l’ultima volta che tu ci torni, perciò che tornandoci tu potresti di leggero esser preso, e non ci sarebbe chi ti porgesse aita. Nè ti fidar, per cosa che sia, a prender compagno alcuno a così perigliosa impresa, chè, ancora che tu non cadessi ne la trappola, il tuo compagno per scusar se stesso ed ottener dal re perdono, al re ti accuseria, o vero si confiderebbe di chi si sia che forse non terrebbe il fatto segreto. Sì che non ci ritornar mai più, nè ti fidar di persona. – Udendo l’altro fratello il vero e fedelissimo conseglio che lo sfortunato suo fratello amorevolmente gli dava e conoscendo non ci esser altra via a salvarsi, dirottamente si mise a piangere nè sapeva risolversi a ciò che far devesse. Troppo empia e sceleratezza senza fine grande stimava a divenir del proprio ed unico suo fratello micidiale, ed in modo alcuno accordar non vi si poteva deliberando correr una medesima fortuna col preso fratello. Ma l’altro tanto gli predicò e sì lo seppe persuadere che a la fine, avvicinandosi l’aurora, e stringendogli i cintolini a dosso, egli, tuttavia amarissimamente lagrimando, al prigione con un coltello tagliata la testa e nei panni del morto involta, carco d’oro, sovra modo dolente, fuori uscì e le pietre al luogo loro maestrevolmente rimise. Tornato a casa pieno di lagrime, il successo pietoso caso a la madre contando, quella colmò di pianti e di sospiri. Seppellirono poi il teschio in casa e le sanguinolenti vesti lavarono. Il re, la matina dentro il luogo del tesoro entrato, veggendo l’ignudo corpo senza testa, rimase stordito, e non veggendo segno alcuno nè vestigio del ladro che comprender si potesse nessuno essere in quel luogo entrato, non sapeva che imaginarsi. Risguardato poi diligentissimamente il corpo e per tutte le parti ben considerato, e non potendo conoscer fattezza che si fosse, era per uscir di se stesso, perciò che avendo ritrovati i suggelli delle serrature intieri, e per le finestre, che di spesse e fortissime ferrate erano concie ed in parte alcuna non tócche, sapendo che entrar non si poteva, non sapeva altro imaginarsi se non che ci fosse alcun mago che per via d’incantesimi avesse i suoi tesori involati. Del che ne restava molto di mala voglia. Fatto poi cavar il corpo e messo in publico e promesso gran premio a chi conosciuto l’avesse, fu esso cadavere da molti considerato; ma nessuno al vero s’appose già mai. Fece alora il re, molto lontano dal ricco edificio in un praticello vicino a la strada publica alzare un paio di forche e sovra per i piedi appiccarvi il cadavere, e vi pose sei uomini a la guardia, strettissimamente a quegli comandando che con buona custodia di giorno e di notte l’impiccato guardassero; minacciando loro che se quel corpo gli era involato, che egli tutti li farebbe senza pietà porre in croce. Gli impose ancora che mettessero mente a chi per la strada passava andando o venendo, e se alcuno veduto il corpo piangeva, sospirava, si condoleva o mostrava in altro modo aver de l’impiccato compassione, che subito il pigliassero ed a lui fosse incontinente condotto. La madre del ladro, che senza ricever consolazione aveva pianto la morte del figliuolo, intendendo quello così ignominiosamente esser per i piedi come traditore a le forche attaccato, non sapendo questa percossa di fortuna avversa con pazienza e prudenza sofferire, chiamato l’altro figliuolo, tutta turbata e sovrapresa da la passione in questa guisa disse: – Tu hai ammazzato tuo fratello, mio figliuolo, ed a quello come a rubello e mortal tuo nemico mózzo il capo, e a me hai fatto vedere che per salvezza de la vita tua era necessario che tu così facessi, adducendomi una certa favola d’un inestricabil laccio ove egli era incappato. Io non so come la cosa sia passata e che tra voi fatto vi abbiate. Chi sa che tu per restar solo possessore de l’oro rubato non l’abbia miseramente ucciso, e a me poi mostri il bianco per il nero? Ora che il re il corpo di quello così vituperosamente ha fatto appiccare, io vo’ e ti comando che fra dui o tre dì a la più lunga tu me lo rechi di notte a casa, perchè io intendo dargli sepoltura. Ed a questo non mancare in modo alcuno. Io conosco in vero che di doglia morirei se troppo lungamente quel corpo su le forche dimorasse, sì che provedi che io l’abbia, altrimenti tien per certo che io i furti tuoi al re discoprirò. – Il giovine, che sapeva quel corpo con solennissima custodia esser guardato, intendendo la fiera proposta de la madre, si sforzò assai con evidenti ragioni levarla da sì periglioso intento, mostrandole la manifesta rovina di se stesso ed appresso di lei, perciò che non ci vedeva modo a rubar quel corpo che non fosse preso. E venendo in mano del re, i furti si sarebbero senza dubio scoperti, e come ladro egli impiccato, e come consapevole ella e consenziente, punita de la medesima pena che da lui si soffrirebbe. Molte altre ragioni disse il figliuolo a la madre per rimuoverla da la detta openione. Ma il tutto fu indarno, e cosa che sapesse dire e mostrarle i manifesti perigli nulla giovarono. Ella, più ritrosa ed ostinata che un cavallo restìo, mai non volle cangiar openione, anzi come forsennata gridava tuttavia che se egli non faceva ciò che comandato gli aveva, che al re il tutto direbbe. E con questa conchiusione lasciò il figliuolo fieramente smarrito e pensoso. Egli è per certo pure una gran cosa quando una donna si mette una frenesia nel capo e che delibera di voler le cose a suo modo o siano ben fatte o male; e per il più de le volte sono più ostinate in una openione trista e falsa come se la ficcano in capo, che non sono ferme nel ben operare. Ma io mi voglio raffrenare, nè vo’ che questa vecchia ribambita mi faccia dir mal de le donne, ancor che ella meriti tutti i biasimi che si possono dare a una malvagia e rea femina, volendo ad ogni modo por se stessa ed il figliuolo proprio a rischio di morte. Ora, quando il giovine vide pure che la madre s’era ostinata e voleva per ogni via che egli recasse il corpo del fratello a casa, e che a volerle contradire era lavar un maton non cotto, si mise a pensare e ripensare che mezzi userebbe a dar effetto al disordinato appetito de la ribambita madre. E poi che assai ed assai ebbe farneticato, di mille mezzi che chimerizzato aveva deliberò provarne uno, che a lui parve il più facile a fare e men periglioso a conseguir l’intento suo. Aveva egli in casa dui asini che per bisogni di quella teneva. Onde, avendo alloppiato quattro utri d’ottimo e soavissimo vino, di quello gli asini caricò. Venuta poi la notte andò non molto lontano dal luogo ove il fratello stava appiccato. Ed essendo circa la mezza notte, fingendo venir di lontano se ne tornò per la strada che dritto a le forche il conduceva. Ove essendo già vicino, disgruppate alcune funi che gli utri legavano, cominciò a gridare e domandar ad alta voce aita. I guardiani del corpo tutti vi corsero, e veggendo che gli utri erano per andar per terra, tutti vi misero le mani e sostenendoli furono cagione che il giovane, che si mostrava grandemente di mala voglia, come credendo che il vino si devesse versar fuori e perdersi, di nuovo racconciò gli utri su gli asini; e ringraziando coloro che aiutato l’avevano disse loro: – Buon soldati, io vi sono molto tenuto, chè se qui non eravate, per lo capo del dio Anubi, io perdeva questo mio vino, che sarebbe stato a me di grandissimo danno, perchè io con questo traffico che faccio sostengo me e la mia povera famiglia. Io de l’aita a me prestata ve ne resto ubligatissimo e senza fine ve ne ringrazio. E per pagar alcuna particella del debito voglio che di compagnia beviamo di questo buon vino, che so che vi piacerà. – E tratto fuor d’una sua bisaccia pane e carne, ne diede a tutti ed egli anco si mise a mangiare e dar loro da bere. Come quei soldati gustarono la dolcezza e soavità del vino, vi so dire che ne tracannavano gran bicchieri, nè troppo stettero tuttavia bevendo che furono da gravissimo sonno presi, e cadendo in terra tutti restarono addormentati. Il giovine, che bevuto non aveva sapendo la vertù del vino, come vide questo, prese il corpo del fratello, ed in luoco di quello v’appiccò uno degli utri ed a casa se ne tornò tutto lieto. Ma prima che si partisse agli addormentati guardiani la barba dal canto destro tagliò. Il re la mattina, intendendo il fatto, si meravigliò senza fine de l’ingegno del ladro e lo commendò per audace ed astutissimo. E perchè spesso avviene che molti per dar compimento a’ lor desideri non si curano far di quelle cose che disoneste sono e vituperose, si deliberò il re di voler sapere chi fosse questo scaltrito ed avvisto ladro e tenne questo modo. Egli aveva una bellissima figliuola da marito di diciotto in dicenove anni. Fece il re bandire esser a ciascuno lecito andar la notte a giacersi con la figliuola ed amorosamente prender di lei piacere, mentre che prima le giurasse per la deità d’Iside di narrarle, avanti che la toccasse, tutte le cose che astutamente fatte aveva. Mise poi la figliuola in una casa privata ove l’uscio stava aperto, ed a quella diede commissione di tener forte colui il quale le dicesse di aver involati i tesori, troncata la testa al ladro, deposto il corpo di quello da le forche ed ingannati i guardiani. Non vi pare egli che questo balordo, ben che fosse re avesse un disordinatissimo appetito, assai più strano che quelli che vengono a le donne gravide? Ma poi che io per una vecchia insensata non volli dir mal de le donne, senza altrimenti agli uomini lavare il capo d’altro che di sapone, me ne passerò via leggermente confidandomi nei giudicii vostri, chè tale lo giudicarete quale egli si merita. Poi che il re ebbe questo ordine publicato e fatto solennemente bandire, il giovine che il tesoro rubato aveva e fatte l’altre cose sopra dette, s’imaginò appunto la cosa come era. Il perchè deliberatosi anco in questa cosa beffare il re, ebbe al desio suo la fortuna favorevole, perciò che essendo quel dì stato da la giustizia morto un assassino e squartato, egli, venuta la notte, dispiccò uno dei bracci del malfattore e con quello se n’andò ove la figliuola del re stava aspettando per metter in essecuzione il comandamento fattole dal padre. Entrato dentro ed accostatosi al letto, disse a la fanciulla che era venuto a giacersi seco. Ella gli rispose che fosse il ben venuto, ma che prima osservasse ciò che nel bando del re si conteneva. Onde egli puntalmente il tutto le narrò. E volendo l’ardita fanciulla porgli a dosso le mani, lo scaltrito giovine le porse il troncato braccio de l’assassino e via se ne fuggì, lasciando quella di spavento piena e di meraviglia, per ciò che ella si pensava al ladro avere strappato il braccio. Il re, conosciuta questa altra astuzia, giudicò chi fatta l’aveva uomo di grandissimo ingegno e molto animoso e degno d’esser tenuto in prezzo. Onde fece far un publico bando, che chiunque le cose dette commesse aveva liberamente si palesasse, perchè il re senza eccezione alcuna li perdonava il tutto, ed oltr’a questo gli daria tal ricompensa che si contentaria. Il giovine alora al re andato, a quello di punto in punto tutta la istoria dei suoi ladronecci narrò. Di che il re meravigliatosi ed assai commendatolo, gli diede la figliuola per moglie e il fece uno dei primi baroni d’Egitto. E così avviene che molti sono chiamati nobili, la cui nobiltà cominciò per commesse sceleraggini, non per opere vertuose. Così questo fratricida e ladrone di vil sangue nato divenne barone e signore di gentiluomini.
Quanto saria bene che alcune consuetudini che sono in quei mondi nuovi, che tutto il dì si dice che gli spagnuoli e i portoghesi trovano, essendo però dagli italiani prima a quelli aperta la via, fossero in queste nostre contrade, a ciò che tutto il male che si fa cessasse e non si sentisse ogn’ora: – Il tale ha morta la moglie, perchè dubitava che non lo facesse vicario di Corneto; quell’altro ha soffocata la figliuola, perchè di nascosto s’era maritata; e colui ha fatto uccider la sorella, perchè non s’è maritata come egli averebbe voluto. – Questa è pur certamente una gran crudeltà, che noi vogliamo tutto ciò che ci vien in animo fare, e non vogliamo che le povere donne possino far a lor voglia cosa che sia, e se fanno cosa alcuna che a noi non piaccia, subito si viene ai lacci, al ferro ed ai veleni. Ma quanto ci starebbe bene che la rota si raggirasse e che elle governassero gli uomini! Pensate pur che farebbero la vendetta di quante ingiurie e torti sono loro dagli uomini crudeli stati fatti. Ci saria ben questo almeno, che, essendo naturalmente pietose e dolci di core, si placarebbero di leggero e sariano pieghevoli a ricever le nostre preghiere, perchè di sangue, di veleno, di morti e di lagrime la lor pietosa natura non è troppo vaga. E nel vero, grave sciocchezza quella degli uomini mi pare che vogliono che l’onor loro e di tutta la casata consista ne l’appetito d’una donna. Se un uomo fa un errore, quantunque enorme, per questo il suo parentado non perde de la sua nobiltà. Se un figliuolo traligna da l’antica vertù dei suoi avoli, che furono uomini prodi, per questo non perdono la degnità loro. Ma noi facciamo le leggi, l’interpretiamo, le glossiamo e le dichiariamo come ne pare. Ecco, quel conte, – io tacerò il nome, – pigliò la figliuola d’un suo fornaio per moglie, e perchè? Perchè aveva roba assai, e pur nessuno l’ha ripreso. Un altro, pur conte nobilissimo e ricco, ha presa per moglie una figliuola d’un mulattiero senza dote, non per altro se non che gli è piacciuto così fare, ed ella ora tien luogo e grado di contessa ed egli è pur conte come prima. Questi giorni una figliuola