Notizie biografiche di Luigi Randanini

Filippo Chiappini

Francesco Sabatini (filologo) 1890 Indice:Francesco Sabatini - Il volgo di Roma - 1890.pdf Notizie biografiche di Luigi Randanini Intestazione 15 settembre 2024 75% Da definire

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NOTIZIE BIOGRAFICHE

scrittore romanesco.


Nel tempo in cui il Belli, intento a dipingere gli usi e i costumi della plebe romana, componeva i maravigliosi sonetti che hanno reso illustre il suo nome, un suo concittadino, molto discosto da lui per potenza d’ingegno, ma ricco di spirito e d’acuta osservazione, si era dato a scriver commedie in linguaggio romanesco che, con felice successo, venivano rappresentate nei teatri di Roma. I nostri vecchi, che conservano le memorie dei tempi passati, parlano spesso di coteste commedie, ne rammentano i titoli, gli intrecci, le scene caratteristiche, citano i nomi degli attori, che le recitavano, ma niuno è fra loro che, interrogato, sappia rispondere chi ne fosse l’autore. Ciò avviene perchè colui che componeva que’ lavori teatrali, nel darli alle scene, non volle mai acconsentire che vi si apponesse il suo nome. Oramai è un quarto di secolo ch’egli [p. 104 modifica]è sceso nel sepolcro, e nessuno ha mai parlato di lui. Io che conobbi cotesto scrittore negli anni miei giovanili, ed ebbi con lui domestichezza non solo, ma intimità di amicizia, avrei desiderio che il suo nome non fosse ignorato dai cultori della nostra letteratura popolare, poichè, se egli non fu tale da potersi paragonare col gran poeta romanesco, fu pur degno di lode per la fedeltà e l’efficacia con cui seppe ritrarre il linguaggio e l’aspetto della plebe di Roma quali essi erano sui primi anni di questo secolo. Per tal motivo io mi credo in dovere di dare un cenno di lui e dei suoi scritti su queste pagine destinate a raccogliere le memorie del nostro volgo e di coloro che le illustrarono.

L’autore di quelle commedie si chiamava Luigi Randanini. Egli nacque in Roma il 30 marzo dell’anno 1802 da Gaspare e da Teresa Cantoni. La sua famiglia, per parte di padre, apparteneva alla nobiltà romana, ma era priva d’ogni bene di fortuna. Suo padre, colto latinista, come attestano le varie iscrizioni da lui composte per l’aula del palazzo senatorio del Campidoglio,1 e verseggiatore italiano non dispregevole,2 era costretto per campare la vita a prestar l’opera sua [p. 105 modifica]in qualità di gentiluomo nelle corti cardinalizie.

Egli diede a suo figlio la prima istruzione e l’inviò quindi all’Accademia di S. Luca a studiare il disegno, col desiderio di tirarlo avanti per la pittura. Ma Luigi, sebbene disegnasse discretamente, non era inclinato a maneggiare i pennelli. Egli deliziavasi della lettura delle commedie, segnatamente delle commedie di Carlo Goldoni, delle quali imparatene molte scene a memoria, si compiaceva di recitarle da sè solo chiuso nella sua camera, posponendo a questa occupazione qualsivoglia divertimento. La sua passione era il teatro; egli era nato per fare il comico.

Giovanissimo si ascrisse all’Accademia degli Imperiti,3 società filodrammatica assai riputata nella nostra città, nella quale, dopo un brevissimo noviziato, gli furono assegnate le parti di caratterista per cui mostrava singolar propensione. Quivi ebbe campo di far conoscere le sue felici disposizioni all’arte di recitare interpretando i principali caratteri del suo prediletto Goldoni. Alcuni vecchi, intendentissimi di teatro, che rammentavano di averlo veduto su quelle scene sotto le spoglie di Geronte nel Burbero benefico, di Ottavio nel Vero amico, di don Filiberto nel Curioso accidente, narravano che, sebbene in giovane età, [p. 106 modifica]egli non temeva il confronto di vecchi comici di professione, che si segnalavano in quelle parti tanto difficili. Una sera il famoso caratterista Luigi Gattinelli, avendolo inteso recitare il Poeta fanatico, corse ad abbracciarlo sul palcoscenico, dichiarandogli che in quella commedia egli aveva toccato il sommo dell’arte.

A Luigi sorrideva il pensiero di provare il suo ingegno in un campo più vasto e di sceglier l’arte comica per sua professione, ma a far ciò si opponeva un pregiudizio che sul principio del nostro secolo era radicato più che altrove nella nostra città. L’arte teatrale a quel tempo non era in onore come al presente. I commedianti erano applauditi sul teatro, ma fuori di esso non godevano la stima delle persone per bene. Si ripeteva ogni momento ciò che s. Carlo Borromeo aveva scritto contro il teatro; si rammentava la sentenza del padre Concina, il quale aveva detto che «il teatro e lo star sul teatro era contro i buoni costumi», e a tali lumi di luna il giovane filodrammatico non avrebbe certo da suo padre avuto il consenso di aggregarsi a una compagnia comica, poichè il buon vecchio non era, nè poteva essere superiore ai pregiudizi del suo tempo. Un uomo iscritto nel ceto dei nobili, un cerimoniere di cardinali avrebbe egli potuto soffrire che suo figlio facesse il commediante?

Nondimeno era scritto che il valoroso interprete di Goldoni dovesse tentare almeno per poco [p. 107 modifica]la prova della pubblica scena. Mancato il caratterista in una compagnia drammatica venuta a recitare al teatro di Torre di Nona, il capocomico invitò Randanini a voler prender quel posto, e Randanini accettò ingaggiandosi in quella compagnia per un’intera stagione, senza saputa della sua famiglia. Suo padre ne fu addoloratissimo, e, non potendo ottenere ch’egli sciogliesse il contratto che aveva sottoscritto, interpose la mediazione di autorevoli personaggi affinchè il nome di suo figlio non apparisse sui manifesti che si affiggono alle cantonate. In conseguenza di ciò, mentre ogni giorno si annunziavano al pubblico i nomi degli attori che prendevano parte alla recita, il nome di Luigi Randanini veniva supplito con le lettere N. N. Quella stagione, come era da prevedersi, fu un trionfo pel giovine artista, ma un breve trionfo, però che, finiti i suoi obblighi, egli si ritrasse dalla scena, e, per obbedire a suo padre, rinunziò per sempre all’arte drammatica che gli prometteva il più lusinghiero avvenire.

Necessitato a procurarsi un’occupazione che gli desse da vivere, chiese ed ottenne un posto di segretario in una delle presidenze regionarie di Roma, specie di tribunali che giudicavano delle piccole cause economiche e s’ingerivano in pari tempo della tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica. Le presidenze erano quattordici, cioè una per rione, e Randanini fu segretario prima [p. 108 modifica]in quella del rione Ponte, poi in quella del rione Regola, due compartimenti della nostra città molto abitati dal basso popolo. Dalla natura di siffatti tribunali facilmente si rileva quali fossero le persone che più di frequente vi ricorrevano.

Erano padroni di case che convenivano inquilini morosi, erano artigiani e venditori di merci che citavano debitori ostinati, erano comari che si gravavano di parole ingiuriose dette, loro da qualche vicina: in una parola tanto i querelanti, quanto i querelati, che mettevano il piede nelle presidenze, erano per la massima parte persone del volgo. Randanini, esercitando il suo ufficio, cominciò a porre attenzione ai discorsi di questa gente, a notare le loro frasi, le loro arguzie, i loro spropositi, e, ridendo spessissimo dei futili motivi di molte loro querele, pensò che con quegli elementi si sarebbero potute comporre commedie romanesche a imitazione delle commedie popolari di Carlo Goldoni.

Il teatro romanesco, nato pochi anni innanzi, non possedeva alcun lavoro in cui si rispecchiassero i popolani moderni. Esso non contava nel suo repertorio che quattro produzioni, cioè: il Meo Patacca, diviso in tre commedie, raffazzonate da un tal Annibale Sansoni sul noto poema del Berneri4 e la Didona abbandonata, traduzione romanesca del dramma omonimo del Metastasio, [p. 109 modifica]fatta dall’abate Alessandro Barbosi. Il Meo Patacca poneva in iscena popolani di tempi remoti senza quel colorito che sarebbe stato necessario per rappresentare i costumi del loro secolo; la Didona abbandonata faceva ridere presentando dei rozzi plebei sotto le spoglie degli eroi da tragedia, ma non era un quadro di genere, perchè non riproduceva nè il carattere, nè i costumi, nè alcuna circostanza della vita del popolo. A Randanini era venuto in mente di portare sul teatro i popolani veri, i popolani dei suoi giorni, e di farli parlare nel loro schietto linguaggio come egli l’udiva dalle loro bocche, e con questa intenzione si accinse a comporre qualche commedia romanesca.

Scrisse dapprima una commedia in due atti da servire di Prologo alla Didona abbandonata, la quale, rappresentata al Pallaccorda (ora Teatro Metastasio) nel carnevale del 1838 dalla compagnia di Giambattista Trabalza, ebbe l’onore di molte repliche. Nell’anno seguente compose per lo stesso teatro Er matrimogno de Ciavattella, commedia in tre atti di graziosissimo intreccio, in cui, fra le altre cose, rappresentò le ottobrate del nostro popolo, e anche questa fu replicata e applaudita per molte sere. Vennero appresso due produzioni satiriche, l’Arrivamento de la gran maravija der ballo e l’Urtimo salutamento a la gran maravija der ballo, con cui pose in ridicolo il fanatismo destatosi in Roma in ogni classe di cittadini per [p. 110 modifica]la famosa ballerina Fanny Cerrito. Queste due produzioni, poste in iscena al teatro Alibert, nel carnevale del 1844, dove la celebre silfide avea l’anno innanzi raccolto i suoi allori, fecero le spese dell’intera stagione. Nello stesso anno 1844 voltò in romanesco due commedie goldoniane, cioè Il Campielo, che intitolò: La Piazzetta, e I Rusteghi, che chiamò: Li Quattro scontenti, e ambedue queste traduzioni meritarono gli applausi degli intelligenti, perchè, conservando in esse tutte le bellezze originali, egli seppe atteggiarle in maniera da farle parere cosa nostra. Certi scrittori, che hanno dato un cenno delle origini del nostro teatro popolare, hanno detto che il Sansoni fu il primo che tentò di tradurre il Goldoni in romanesco, ma essi in ciò hanno sbagliato, perchè il Sansoni non fece lavori di questo genere, e il primo che vi pose mano fu Luigi Randanini.

Benchè pochi di numero, i lavori teatrali del nostro scrittore sono sufficienti per dimostrare la sua valentia, non dirò tanto nell’immaginare una favola, quanto nel riprodurre con iscrupolosa esattezza le scene della vita del nostro volgo. Nei suoi dialoghi non vi è parola che non sia tolta dalla bocca del popolo, nei suoi personaggi non vi è carattere che non sia fedelmente copiato dal vero. Qua e là egli scolpisce i suoi tipi con tocchi d’artista che rivelano l’acuto osservatore e il conoscitore profondo degli effetti scenici.

[p. 111 modifica]Nel Matrimogno de Ciavattella, Menicuccio fa all’amore con Nina, e Ciavattella vuol supplantarlo. Ciavattella, incontrandosi con Nina, le dice male di Menicuccio. Questi ascolta le sue ultime parole, si fa avanti pian piano, afferra il suo rivale per le spalle e lo volta verso di sè.

Men. A la grazzia, sór Cciavattella.
Ciav. Chi tte cognosce? 5 li porchi?
Men. (risoluto) Abbottate.6
Ciav. A cchi? Te spanzo io.
Men. (cavando un coltello) Abbottate, sinnò
vve fo mmagna’ un parmò de lama.
Ciav. (schermendosi ) Giù er cortello.
Men. (va per dargli) Ah ssanguaccio d’un cane...
Ciav. (gonfia le guance con rabbia, facendo un
visaccio, e Menicuccio gliele sgonfia con la
mano).
Men. A vvo’! (lo volta, gli dà un lattone sul cappello e un calcio dietro) Annate a ccasa, e zzitto, e ssi vv’arivortate ve sottèrro.
Ciav. (va via fremendo) Me je vojo succhià’ er core comme ’na bbrugna.

[p. 112 modifica]La crudele umiliazione, che l’amante offeso impone al suo rivale in questa scena brevissima, rappresenta vivo e maniato il carattere fiero del romanesco .

Di queste scene caratteristiche, ciascuna delle quali vale un disegno del Pinelli, son tutti intessuti i lavori del nostro autore. Marco Monnier, quel francese nostro benevolo, che scrisse il libro: L’Italia è dessa la terra dei morti?, avendo visto rappresentare il Prologo della Didona dalla compagnia romanesca di Filippo Tacconi, nell’anno 1858, lo giudicò «la più dilettevole delle scene popolari». Curioso di sapere chi ne fosse l’autore, il cortese straniero si recò sul palcoscenico e lo domandò allo stesso Tacconi, il quale gli rispose umilmente che l’autore era lui. Il Monnier, congratulandosi col Tacconi, gli strinse la mano, e, tornato in patria, scrisse il suo elogio e lo pubblicò nel suddetto libro.7 E così vengono in fama i ciarlatani che si fanno belli della roba degli altri.

Randanini tralasciò di scrivere per il teatro perchè, morto il caratterista Negroni, ch’era il Taddei del suo genere, e, allontanatosi dalle scene il capocomico Giambattista Trabalza, non vi furono più attori capaci di recitare le sue commedie. Ma non per questo depose la sua penna [p. 113 modifica]romanesca; anzi continuò a esercitarla collaborando nei varî giornali che già da tempo pubblicava qui in Roma il suo amico e cognato Francesco Gasparoni. Questo valente architetto e valentissimo scrittore di cose d’arte, noto ai Romani pel suo stile arguto e satirico col quale fece rivivere la critica del Milizia, si era proposto con le sue pubblicazioni di porre un argine alla decadenza dell’architettura e di promuovere il miglioramento materiale e civile della nostra città. Riservata per sè la parte artistica, egli affidò al Randanini ciò che concerne la polizia urbana, e il suo congiunto, scrivendo di questa materia, usava spessissimo il vernacolo romanesco dando al soggetto un movimento scenico che ricordava le sue graziose commedie.

Per dare un esempio di questo genere, riferisco un suo dialoghetto, il più breve che mi viene alle mani, in cui egli riprende una vecchia usanza romana che la civiltà moderna ha fatto sparire.

Sono interlocutori: Scardafone, carrettiere; Grugno-strappato, cenciaiuolo, e Tira-piommo, ciabattino.

Gru. - str. (gridando alla sua maniera) Chi ha stracci, chió8 ferrà’... Dolori! Te piji ’na saetta in de lo stommico.
Scard. Co’ cchi l’hai, se pò’ ssapë’?
Gru.-str. L’ho ppropio có’ tte, ll’òne.

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Scard. Se’ gnente matto?
Gru.-str. Ce vo’ puro9 ave’ rraggione, brutto beccamorto.
Scard. Mo’ mmó’, si ffa’ ’n’antra parola, te do er manico de la scopa in d’una ganassa.
Gru.-str. Eh ssi cche nun te stampo er pomo de la stadera su la muscola der naso.
Scard. Provece ’n po’.
Gru.-str. Fatte sotto.
Scard. Sangue d’un cane.
Tir.-piom. (s’alza dal banchetto e si frappone) Arto! Arto! Che-d-è? Ch’è stato?
Scard. So’ mmórto io! M’accimenta.
Gru.-str. Pozzi10 mori’ de puzza de lume! Sguercete varda comme m’ha’ fatto carino! So’ ddiventato tutta fanga. La camicia, er corpetto, è ’ no scenufreggio.
Tir.-piom. È vvero pe’ èsse’: ma, ccomm’è ssuccesso?
Gru.-str. Comm’è ssuccesso, comm’è ssuccesso? Passavo accanto ar carretto, e stammazzato, páffete, ha ttirato ’na palata di monnezza pe’ mmettélla su la cormatura, m’è schizzata tutt’addosso; m’ha atturato un occhio e mm’ha ffatto diventà’ ’na chiavica e mmez’ z’a. Ha’ capito móne? So’ mmatto adesso? Che tte meriterissi...
Tir.-piom. Statte zzitto; che cce vò’ fa’?

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Scard. Abbi pacenza: nun t’ho vvisto; stavo dall’antra parte. Ma nun è gnente: lassel’asciuttà’, e ppo’ cór una scopetta...
Gru.-str. Ce vo’ antro! Nun abbasta er cardo der matarazzaro pe’ llevá’ ttutto ’ sto patume.
Tir.-piom. Ma vvo’-antri11 puro, propio a cquest’ora avete da riccoje la monnezza! A un’ora prima de mez’ z’oggiorno, quanno tutta la ggente cammina: si passava ’na paina cor chicchirichi in testa, la facevi bbella, la facevi. ’Ste cose che cquine se fanno la matina a bbon’ora.
Scard. No’ che cci - avemo che ffa’? Sémo commannati.
Tir.-piom. Se vede bbè’ cche cchi vve commanna s’arza tardi, o vva in carrozza.

      Collaborando nei detti fogli, Randanini scrisse moltissimo anche in lingua italiana, e questi suoi scritti in materia di pulizia urbana meriterebbero di essere raccolti, perchè conservano il ricordo di molti usi ed abusi del nostro volgo, i quali oggi sono scomparsi per la civiltà progredita, ma che sono importanti a conoscersi per lo studio dei tempi passati. I varî periodici in cui si trovano cotesti scritti sono: Il giornale degli archiletti (1846-47); Il girovago farfalla (1847-48); Le fabbriche ( 1850-52); Cento e un ragguaglio d’arte (1856), e finalmente l’opera a fascicoli intitolata Arti e Lettere (1860-65), la quale, incominciata da Francesco Gasparoni, fu continuata [p. 116 modifica]da suo figlio Gasparoni e da lui convertita nel Buonarroti, periodico artistico e letterario, che si pubblica tuttora per cura del chiaro letterato Enrico Narducci. Tali scritti non portano il nome dell’autore, ma è facile riconoscerli dallo stile che, sempre ameno, sempre improntato di una novità capricciosa, non può confondersi con quello di nessun altro scrittore.

Cotesto stile era in Randanini così naturale, ch’egli lo adoperava non solo negli articoli che dava alle stampe, ma in tutti gli scritti che uscivano dalla sua penna, non esclusi quelli appartenenti al suo ufficio.

Cito ad esempio una sua lettera di raccomandazione diretta al presidente del rione Regola:

«Eccellenza,

«B..., prototipo dei seccatori, che seccherebbe le paludi Pontine, presenta novamente questa istanza, e l’accompagna con un’orchestra su tutti i tuoni di sbadigli, di sospiri e di singhiozzi da far venire il malumore alla stessa allegria.

«Si armi dunque V. E. della veste di Giobbe e veda di consolare questa piagnolente mummia».

Com’egli era ameno nello scrivere, così era giocondissimo nel conversare. Narrava aneddoti e fatti ridicoli con una serietà che ricordava l’antico caratterista; dipingeva con parole efficacissime i luoghi e le persone che voleva metter [p. 117 modifica]sott’occhio; parlava con garbo e naturalezza non solamente il dialetto romanesco, ma quasi tutti i dialetti della nostra lingua; le arguzie e le facezie gli piovevano dalla bocca senza che l’una aspettasse l’altra, tanto che in sua compagnia si passavano le ore senza avvedersene.

Era facile agli epigrammi, e di questi ne rammenterò qualcheduno.

Uno scrittorello, che si credeva nato col bernoccolo del commediografo, gli presentò un giorno un suo lavoro teatrale pregandolo di leggerlo e di notare con una croce tutti quei passi che per avventura non gli fossero piaciuti. Randanini scorse il manoscritto e lo restituì all’autore senza averci fatto alcun segno.

— Come! - gli domandò il commediografo — non ci ha fatto nessuna croce?

— Amico mio — gli rispose il brav’uomo se cominciavo a far croci, ti riducevo il copione un cimiterio.

Una sera gli avvenne di trovarsi al teatro Valle alla prima rappresentazione di una tragedia di un poeta romano, i cui amici, sparsi per la platea, si sbracciavano per applaudirlo. All’udire un guerriero che, partendo pel campo coi suoi compagni, pronunziava con enfasi queste parole:

Ritorneremo o vincitori o estinti,

l’uditorio entusiasmato proruppe in uno scoppio di applausi, e chiamò fuori l’autore. Quando [p. 118 modifica]questi venne al proscenio, Randanini, che stava in piedi vicino all’orchestra, serio come un satrapo, si mise a cantare in falsetto:

Ah! li morti non tornano più.


Un’altra sera un maestro di musica della vecchia scuola, un tal Bandelloni, discorrendo con lui delle opere di Rossini, gli disse che questo maestro gli grattava le orecchie. Randanini gli rispose: «Se Rossini ti gratta le orecchie, si consumerà le unghie, e non te le gratterà tutte».

Fu lui che, indignato per le ridicole correzioni fatte ai lavori teatrali negli ultimi anni del governo pontificio, cambiò il nome al censore politico che le faceva. Era questi l’avvocato Curbastro, e Randanini lo chiamò l’avvocato col basto. Questo nome divenne popolare.

La perizia ch’egli aveva nelle cose di teatro lo rendeva carissimo ai filodrammatici, i quali erano ben lieti quando potevano averlo per loro direttore, alla qual opera egli prestavasi volentierissimo, usando nell’esercitarla un’arte tutta sua propria. Valga un esempio.

Una signorina, che faceva la parte d’amorosa, non riusciva ad esprimere con naturalezza un atto di sorpresa, Randanini, colto il momento ch’essa stava sopra pensiero, le si avvicinò e le disse all’orecchio:

— Se è vero che mi vuoi bene, non occorreva che me lo scrivessi; potevi dirmelo a voce.

[p. 119 modifica]— Io!... — esclamò la signorina — io non le ho scritto nulla; mi meraviglio di lei.

Benissimo! — le replicò Randanini — ecco in qual modo si deve esprimere la sorpresa.

Ma, chi lo crederebbe? Quest’uomo che nello scrivere aveva una vena inesauribile di riso, quest’uomo che nel conversare era così allegro e gioviale, in certe ore di solitudine si dava in preda alla più nera malinconia, talchè i tetri pensieri che gli si affollavano nella mente gli toglievano il sonno e gli impedivano di riposare le membra affrante dalla fatica. Come si spieghi questo fenomeno lo sanno i filosofi; ma il fatto è ch’esso si verifica assai di sovente negli scrittori di cose amene, e in genere nelle persone che fanno professione di far ridere altrui: per citar nomi illustri, basta rammentare Alessandro Tassoni, Gaspare Gozzi, e fra gli stranieri il celebre autore del Tartufo.

Randanini, essendo in età già matura, si unì in matrimonio con una signora romana, dotta cultrice delle lettere greche e latine, la signora Semiramide Delicati, il cui nome per la sua modestia sarebbe ignorato, se il chiaro poliglotta professore Antonio Mezzanotte non lo avesse celebrato colle sue rime.12 Ebbe da essa due figli: un maschio ed una femmina, il primo dei quali mori fanciulletto, l’altra gli [p. 120 modifica]sopravvisse, ma per iscomparire dal mondo nel fiore degli anni. Fu affezionatissimo alla sua famiglia, talchè per la perdita del suo bambino si temè che uscisse di senno. Fu del pari tenerissimo degli amici, fra i quali, negli ultimi anni della sua vita, ebbe carissimi l’avvocato Domenico Bonanni letterato e poeta, Ludovico Muratori, onore della scena romana, e l’oscuro scrittore di queste pagine, al quale, in pegno della sua amicizia, volle far dono dei suoi manoscritti. Nei pubblici uffici che tenne quasi per trentacinque anni, prima segretario e poi vicepresidente, si mostrò sempre benevolo ai poveri, i quali accolse non con arcigna faccia e severa, ma con urbani modi e cortesi, cercando di soccorrerli, di consolarli, di metter pace nelle loro famiglie. Fu nobile di nascita, e non se ne vantò; fu povero, e non se ne dolse.

Ebbe giusta statura, faccia piena, di colore piuttosto olivigno; occhi neri, vivacissimi, naso grande alquanto schiacciato, fronte spaziosa; capelli, rari nel mezzo della testa, cadenti in due ciocche sopra le orecchie; fisonomia seria, ma d’uomo bonario. Avvicinandosi alla vecchiaia fu costretto ad appoggiarsi al bastone. A volte si soffermava tra via, stralunava gli occhi, si stropicciava le tempia e mille atti faceva come di uomo che molto soffre. Interrogato se si sentisse male, rispondeva di no; ma un male interno lo tormentava e gravissimo, ed egli cercava [p. 121 modifica]dissimularlo, specialmente ai parenti, perchè, poco fidente nell’arte medica, non voleva sottoporsi a inutili cure e dolorose. Giacque in letto tre giorni, e la mattina del 13 gennaio 1866 cessò di vivere per paralisi polmonale fra le braccia della consorte e della figliuola.

Quale fosse la sua fede, si può argomentare da queste parole colle quali egli chiudeva alcune memorie che furono trovate fra le sue carte:

«Mio Dio! Io vi ho conosciuto, onorato, amato. La mia condotta ne fa prova ferma, irrefragabile. La giustizia vostra non può obliarmi, la vostra misericordia mi accolga».

Il suo corpo fu seppellito nel Campo Verano in un modesto monumento su cui si legge la seguente iscrizione:

HIC IN PACE Px      REQUIESCIT
ALOISIUS GASPARIS F. RANDANINI
EQUESTRI NOBILITATE
PRAESES VICAR. POT. REGIONIS VIII
VIR PIETATE MORIBUS
TUTELA PAUPERUM AMORE IUSTITIAE
FAMILIAE ET CIVIBUS PROBATUS
INGENII ACUMINE AMOENITATE
SENTENTIARUM LEPORE ET VERBORUM
OMNIBUS IUCUNDISSIMUS
DEC. IBID. IAN. AN. M DCCC LXVI
AETAT. LXIII BONA CUM SPE
MARIANNA SEMIRAMIS DELICATI UXOR
GELTRUDE FILIA FECERUNT
CONIUGI PARENTI DILIGENTISSIMO
CUIUS ANIMAE BENE SIT.

[p. 122 modifica]Lo scrittore di quest’epigrafe, che fu monsignor Felice Giannelli, sapeva che Randanini aveva composto molte cose in dialetto romanesco, ma non credette di ricordarlo sulla sua lapide, perchè stimava che da così fatti lavori non potesse venire alcun onore al suo nome.

Tal era in genere l’opinione dei vecchi letterati. Ma se il dialetto può servire alla manifestazione dell’arte, come Randanini lo provò coi suoi scritti, a me pare che per questo titolo, più che per nessun altro, possa ancora meritare un ricordo il nome di quest’uomo che passò sconosciuto dai suoi concittadini.



  1. Una di queste iscrizioni ricorda il ritorno di Pio VII in Roma, altre due rammentano le nomine a senatori del marchese Patrizi e del principe Corsini .
  2. Cfr. Versi di Gaspare Randanini; Roma, tipografia Puccinelli, 1835.
  3. L’Accademia degli Imperiti, da cui uscì il famoso caratterista romano Nicola Pertica, aveva sede nel palazzo Melchiorri in via della Palombella, dove è ora la scuola superiore femminile «Erminia Fuà Fusinato».
  4. Il Meo Patacca, ovvero Roma in feste nei trionfi di Vienna.
  5. Voce antiquata; ora il romanesco usa conosce.
  6. Gonfiate le guance. È uno scherzo che i popolani romaneschi usano coi fanciulli, ai quali, fatte gonfiare le guance, gliele sgonfiano con un colpo secco della mano semiaperta. Questo giuoco doveva essere in uso anche in Toscana, perchè Benvenuto Cellini ricorda che il granduca ci si divertiva alle spese del sensale Bernardone, quando questi andava ad offrirgli l’acquisto di un gioiello (Vita di B. Cellini, 1. II, § lxxxiv).
  7. Marco Monnier, L’Italia è dessa la terra dei morti? trad. ital.; Venezia, 1863, art. xv: «Il teatro popolare» .
  8. Grido dei cenciaiuoli romaneschi.
  9. Ci vuoi pure.
  10. Possa. Ora si dice possi.
  11. Voce fuori d’uso; ora si dice vojantri.
  12. Nuove poesie, Montepulciano, 1846.