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le erano mai venuti in mente. Donde sorgevano? Forse dal fondo dell’incosciente, rievocati dal canto nostalgico delle campane, in quel primo Natale d’esilio:

Sognar le verdi mie primavere,
Sognar le feste del mio villaggio...

Ella li ripetè parecchie volte fra sè, con monotona cantilena: e finì d’addormentarsi. Sognò di trovarsi a casa sua: la sorellina suonava «Stefánia» sul mandolino, del quale Regina rivedeva distintamente l’intarsio raffigurante un trovadore con la mandola; il gattino nero stava ad ascoltare un po’ annoiato, sbadigliando forzatamente; fuori cadeva la sera d’un grigio violaceo, vellutata e silenziosa. Ma ad un tratto un viso perplesso, con due occhiali che parevan di ghiaccio, apparve dietro i vetri. Regina rise tanto forte che Antonio si svegliò.

— Che hai?

— Sua Eccellenza... — diss’ella in sogno.


*


— Stanotte ridevi: ora piangi! Si può sapere che hai? — domandò Antonio la mattina dopo, svegliandosi e accorgendosi che Regina piangeva.

— Nulla.

— Nulla! — egli disse adirato. — Tu piangi! perchè piangi? Io non ne posso più, sai! Perchè mi tormenti così?

Ella gli prese una mano e se la passò sugli occhi: egli s’intenerì.

— Ma che hai? Ma che hai, dimmelo; dim-