Nella nebbia/Vecchioni increduli

Vecchioni increduli

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Inutile! Intuizioni oscure

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VECCHIONI INCREDULI.


U
na diecina circa di grandi piante ricche di frondi sorgevano nel vasto cortile, mitigando l’arsura e l’intenso calore che le pietre esalavano dopo una lunga giornata di sole.

A due, a tre, a frotte, i vecchioni scaturivano dal fondo del portico che si apriva sul cortile con grandi arcate a tutto sesto.

Venivano, le donne da una parte, coi grembiali bianchi, le pezzuole bianche incrociate sul petto; gli uomini dall’altra, colle loro giubbe a coda di rondine e i berrettini a visiera.

Chi strascicava i piedi, chi tossiva, chi pareva piegato in due, chi si teneva rigido, intirizzito per non perdere l’equilibrio.

Quà e là alcune figure svelte, robuste, non domate dagli anni, nè dalle sventure, uomini imponenti, di aspetto nobile, dall’espressione concentrata, come rinchiusi in un pensiero, nella contemplazione di una imagine interna, lontana, vivi materialmente, e già fuori della vita con tutta l’anima, — solitarî in mezzo alla folla dei rimbambiti, dei burloni, de[p. 20 modifica]gli egoisti raffinati o grossolani, degli indifferenti, degli ebeti....

Le donne parevano assai più uniformi, come se la vecchiaia scendesse più livellatrice sulle femmine, forse per la vita meno variata, più chiusa, meno soggetta a grandi travolgimenti: tra esse non si vedeva quasi nessuna figura eccezionale: tutte piccolette, come raggricchiate, secche, umili.

Era l’ora della passeggiata dopo l’ultimo pasto.

Venivano a prendere una boccata d’aria, passeggiando sotto alle piante, o seduti sulle panchette: avevano mangiato e bevuto ed erano nel miglior momento della loro giornata. Anche la stagione li aiutava.

Chi aveva ancora un po’ di sangue e di midollo, si sentiva come un barlume di gioventù. Le vecchie amicizie rinverdivano, qualche simpatia si manifestava, con certe timidezze inconscie, certe squisitezze, a cui non avevano forse mai pensato da giovani.

Si scambiavano dei piccoli doni: il tabacco da naso e da fumare, le pastiglie per la tosse, le frutta e i dolci che ricevevano in dono dai parenti o da qualche amico di fuori.

Certe povere donne, avvezze a bere acqua tutta la vita, tiravano fuori una bottiglietta in cui avevano messo il loro bicchier di vino e la porgevano al loro miglior amico.

Una di queste, una vecchiettina sottile, dai folti capelli tutti bianchi, dal viso affilato e gli occhi dolci — una di quelle faccie che fanno pensare a certe povere caprette malate e spaurite — traversò lentamente il portico e la corte per avvicinarsi ad un uomo che sedeva appartato sur [p. 21 modifica]un panchettino addossato ad un tronco. Era anche lui un vecchio asciutto, malaticcio, ma alto, dalla ossatura forte e ben proporzionata; e negli occhi e nelle linee della bocca aveva una espressione di intelligenza e di tenacità.

Un’aria di superiorità inconsapevole traspariva da tutta la sua persona.

— Come va, Sandro, oggi? Poco bene mi pare, eh?...

C’era in questa voce di donna vecchia una gran soggezione, appena mitigata da una espressione di umile affetto, e una gran dolcezza.

Egli non rispose subito. Senza togliersi la pipa di bocca masticò una bestemmia.

— Sempre questa maledetta ferita che si rifà viva!

Ella sospirò. Lentamente cavò dalla borsa che aveva infilata nel braccio una piccola bottiglia piena di vino.

— C’è anche quello del desinare — disse con un sorriso.

Egli prese vivamente la bottiglia e tracannò il vino, mentre la vecchia lo guardava con manifesta soddisfazione.

L’uomo, quand’ebbe bevuto, rese la bottiglia e si rimise a fumare rispondendo per monosillabi alle domande che lei andava facendogli senza inquietarsi di quel contegno, nè aversi a male delle tronche risposte.

Era quello il fare del suo uomo nei giorni torbidi, dopo le tante disgrazie, le persecuzioni, la morte dell’unico figlio, portatogli via da una palla austriaca; la brutta miseria, i malanni!...

Erano anche stati separati un bel po’ di tempo, ma non per mal volere, tutt’altro! Non avevano casa, non avevano [p. 22 modifica] roba; lei era a padrone; lui campava facendo dei piccoli servigi... come dovevano fare a stare insieme?...

Finalmente, quand’era piaciuto a Dio, si erano ritrovati in quella «casa grande» dei poveri vecchi, e rivivevano in pace, come quarantotto anni addietro, quando il suo Sandro l’aveva sposata, con tutto che lui fosse un signore — il signor maestro comunale di Limito — e lei una povera contadina... niente brutta per altro!...

Ella raccontava queste cose alle sue compagne, ridendo e sospirando, con una sorta di ironia intenerita, propria di certe vecchiette.

E le compagne che l’ascoltavano con piacere, le dicevano allegramente di badar a campare ancora quei due anni, che le avrebbero fatto una gran festa per le sue nozze d’oro.

— Due anni!...

Le parevano molto lunghi due anni: impossibile che loro campassero tanto tempo ancora... E il viso affilato di capretta malata si faceva più pallido.

Alessandro Fantini, ex-maestro di scuola, ex-garibaldino, ex-impiegato in una pubblica amministrazione, era sempre stato un uomo di carattere ruvido, buon patriota e libero pensatore, un po’ troppo franco per i tempi che correvano. Queste erano le cause delle persecuzioni a cui alludeva sua moglie.

Avvenuta la liberazione, partiti gli stranieri, egli si era creduto a posto. Nel regno della libertà e della giustizia, i galantuomini e i liberi pensatori dovevano, secondo lui, trovarsi finalmente in casa propria.

Per disgrazia, queste sue speranze erano state deluse; [p. 23 modifica] e i suoi modi ruvidi e la troppa franchezza nel manifestar le sue idee troppo radicali, avevano cooperato a suo danno.

Da qui l’amarezza incurabile del suo carattere, da qui il bisogno irresistibile di diffondere le sue idee pessimiste e ribelli da per tutto, a costo di tutto: una sorta di manìa, che gli aveva cagionato sempre nuovi tormenti.

Nell’ospizio Trivulzio, Sandro Fantini aveva, oltre che la moglie, un amico intimo, un correligionario dal quale era amato e venerato come un profeta, e sebbene costui non fosse altro che un povero vecchio marionettista, battezzato col nomignolo di «Gerolamo» perchè aveva sempre fatto parlare la maschera di questo nome, il garibaldino lo teneva in gran conto.

Erano sempre insieme e esercitavano una certa autorità nel gruppo dei loro amici e aderenti.

«Gerolamo» però era molto più allegro, molto più amabile e non disdegnava di interrompere le dispute filosofiche per divertire la brigata.

In quelle serate tiepide, i vecchioni si mettevano spesso a sedere in semicerchio, le donne nel centro, gli uomini dalle parti, e chiamavano «Gerolamo» perchè li facesse un po’ stare allegri.

Se «Gerolamo» tardava, si mettevano a batter le mani e a pestare i piedi come qualunque pubblico civile.

Allora il bravo piemontese, che era ancora un uomo robusto con un faccione rosso e le spalle larghe, si lasciava condurre sotto all’albero più alto e centrale — il suo palcoscenico — e cominciava la recita.

Senonchè invecchiando «Gerolamo» era diventato sen[p. 24 modifica] timentale — strana metamorfosi — e invece delle farse nelle quali la sua maschera nazionale aveva avuto tanto successo sulle fiere e nei teatrini per fanciulli, egli si ostinava a recitare squarci lirici della Francesca da Rimini, e di altre tragedie del tempo romantico.

Forse anche lui aveva passata la vita facendo un mestiere che non era di suo genio, applaudito in un arte che disprezzava: condannato a far parlare le marionette divertendo i ragazzi e il popolo, mentre si sentiva capace di recitare come un Modena, commovendo fino alle lagrime le persone più intelligenti. Ora se ne vendicava come poteva.

Disgraziatamente, il suo uditorio composto di mezzi sordi e di sordi affatto, gustava poco la lirica, e contentandosi di afferrare la mimica del declamatore, rideva e si divertiva come se avesse dette le cose più buffe.

Ad ogni fine di atto «Gerolamo» gridava al macchinista immaginario: «Giù la tela» e a questo segnale le donne, sempre espansive, sempre giovani per chi sa divertirle, applaudivano a tutto spiano.

Alla fine però nessuno poteva trattenerle dal gridare insieme agli uomini:

— La farsa! «Gerolamo», vogliamo la farsa!

— Peccato che sono sordi e che non intendono i versi! — diceva il marionettista all’amico suo più intimo nei momenti di suprema confidenza. — Quanto al talento dell’artista lo sanno apprezzare meglio di tanti!...

— Hanno voglia di ridere — rispondeva l’amico sottolineando la frase con sottile ironia.

Finita la rappresentazione, mentre la maggioranza dei vecchi in buona salute recitava il rosario, o l’ufficio dei [p. 25 modifica]morti, se vi era un morto nel deposito; i due amici passeggiavano insieme o sedevano l’uno accanto all’altro, discorrendo delle cose passate, dei rancori passati, non dimenticati mai.

Il caustico Alessandro parlava quasi sempre lui; e rinvangando le ingiustizie, le vigliaccherie, ritornava con accanimento sui fatti più dolorosi della sua dolorosa esistenza.

Egli stesso non sapeva dire come fosse vissuto negli ultimi anni prima di entrare nell’ospizio.

Dopo la morte del suo figliuolo, caduto in uno degli ultimi scontri del quarantanove, aveva cercato di andare in Piemonte, ma non gli era mai riescito. Aveva passati vent’anni, non sapeva come; sicuro soltanto che erano stati anni di angoscie e di tormento, di fame e di malattie. Tre volte era stato all’ospedale, una volta in punto di morte — e se non si confessava non gli davano da mangiare, e lui aveva detto al prete: «Sa, mi confesso per questo, ma io non credo niente!»

— Quattro volte in prigione, senza che si potesse capire perchè!...

Poi era venuto finalmente il gran giorno, il giorno della redenzione, e lui era partito un’altra volta coi volontari, e la sua gioia era stata così grande che per poco non diventava spiritualista — sì, perchè gli pareva impossibile, ovvero gli faceva troppo male a pensare che il suo povero figliuolo, morto per la patria, a diciott’anni, un amore di figliuolo, non dovesse saper nulla, non dovesse goder nulla di quel trionfo, di quella gioia suprema!...

Più tardi, si era dato del pazzo, dell’asino. Si era accorto che i preti comandavano sempre, che quelli che erano stati amici degli austriaci venivano accarezzati, trattati con ri[p. 26 modifica] guardo, mentre i poveri diavoli come lui, che avevano dato il proprio sangue per la libertà, erano dimenticati, anche disprezzati, come lui!...

Quando Alessandro Fantini si lasciava trascinare a questo punto, dai suoi ricordi, finiva sempre col levare dall’interno dell’abito, dove lo teneva posato sul cuore, un lembo di giacchetta forato da una palla austriaca.

E lo baciava e i suoi occhi si empivano di lagrime. La vecchia madre piangeva, e le altre donne presenti domandavano il permesso di baciare anch’esse quella reliquia — la reliquia del libero pensatore.

Ma Sandro s’inteneriva di rado; il suo carattere lo portava a ribellarsi contro ogni manifestazione di debolezza. Di solito imprecava agli ipocriti, ai vili e faceva la propaganda delle sue idee, con l’impeto e l’energia di un giovane apostolo.

Nemmeno a quell’ultima tappa — come egli chiamava il pio albergo — il suo spirito voleva darsi vinto.

I compagni burloni lo chiamavano l’Anticristo, ma gli volevano bene.

Chi non gli voleva bene certo era il rettore — in quegli anni c’era ancora un rettore spirituale nella vecchia casa di ricovero — e questo rettore — dicono le cronache — era prete un po’ ficcanaso e non molto rispettabile, ma molto portato a fare il tiranno. I vecchi in massa non lo vedevano di buon occhio e spesso si intrattenevano delle marachelle di don Tinazza; ma in tali occasioni abbassavano la voce e i sordi erano esclusi dalla conversazione.

Il solo Alessandro osava gridare e proclamare la sua opinione — si sarebbe vergognato di fare come gli altri. [p. 27 modifica]

Quand’egli si metteva in mezzo a un crocchio, con la sua figura da ispirato, la testa circondata da un’aureola di capelli bianchi, gli occhi neri, ancora vivi, lampeggianti, la voce penetrante e sonora, pareva veramente un apostolo dei nuovi tempi.

La folla dei sordi, dei rimbambiti, dei burloni, degl’indifferenti, lo guardava con piacere. Essi lo ascoltavano con inconscia ammirazione, i più senza intendere o senza rendersi conto di quello ch’ei diceva.

Scandalezzate, palpitanti, per quella misteriosa e dolce paura che le donne più semplici hanno cara come una carezza d’amore, le vecchie se lo mangiavano con gli occhi e lo amavano.

Ma se la sottana di don Tinazza sventolava in lontano, l’oratore rivoluzionario perdeva immantinente tutto il suo uditorio. Chi non poteva allontanarsi abbastanza presto, fingeva di dormire.

Nell’autunno Alessandro cadde malato, e la moglie gli si mise al fianco da una parte, «Gerolamo» dall’altra.

Addio gaie recite sotto agli alberi verdi! Addio buone chiacchierate al sole!

Già coi primi freddi di ottobre molti dei più vecchi se ne erano andati. Nuovi ospiti arrivavano, nuovi balestrati dall’esistenza, in cerca di un ultimo rifugio.

«Gerolamo» non si allontanava mai dal letto dell’amico infermo e l’infermeria era piena di malati spediti, moribondi.

Tossivano, gemevano, rantolavano, infine partivano ad uno ad uno. [p. 28 modifica]

I preti stazionavano ora a un letto ora all’altro. E da mattina a sera si sentiva un continuo biascicamento di preghiere latine fatte da bocche senza denti.

— Lo sai, io non voglio il prete — disse un giorno Alessandro all’amico suo.

— Non temere: ci sono io.

La vecchietta che sedeva dall’altra parte tutta tremante, indovinò più che non intese, e non potè frenarsi.

— Sandro! Sandro! per carità!...

Il morente, per uno sforzo energico della sua volontà sollevò la testa e ficcò gli occhi ardenti di febbre in quelli della moglie.

— Sono un uomo io! Un soldato!... Sono libero....

Ricadde spossato.

E il povero viso, sempre più scarno, sempre più affilato, sempre più caprino della infelice vecchia, inondato di lagrime, fu coperto dalle mani tremanti, ingranchite.

Dovette uscire un momento per singhiozzare liberamente.

Quando ritornò, il marito la guardò sorridendo con dolcezza.

— Ti raccomando la nostra reliquia! Quando vedi che dò di volta, prendila tu.... E quando verrà il tuo giorno, e sentirai che non puoi stare in piedi, prima di metterti a letto, bruciala, o falla bruciare, da «Gerolamo»... Ma se lui non ci fosse più non ti fidare di altri.... Potrebbero avere il capriccio di tenerla.... e io non.... voglio che profanino....

Ella promise piangendo....

Poco dopo si presentò il prete.

— Non voglio — disse il malato con voce ferma.

Il prete fece un grand’atto di meraviglia e di collera. [p. 29 modifica]

— Delira?... — domandò volgendosi verso il marionettista.

— No, non delira: non vuole il prete, e noi siamo qui perchè la sua volontà sia rispettata.

Il prete guardò la donna.

— E voi che ne dite?...

— È la verità — rispose la misera compiendo l’atto più coraggioso della sua vita.

Il libero pensatore morì tranquillo, pensando al suo figliuolo così giovane, così bello, che lo aveva preceduto da tanti anni.

La moglie e l’amico lavarono il cadavere, e lo accompagnarono nel deposito — uno stanzone sotto il portico, con un gran tavolato appoggiato al muro, pendente in declivio, su cui giganteggiava un gran Crocifisso di legno con la barba di lana, brutto lavoro del Seicento.

Altri cinque vecchioni erano morti nella giornata, e giacevano nudi sul tavolato, coperti a mala pena da vecchie coltri.

L’apostolo ateo fu collocato nel miglior posto.

— Oh! Dio mio! povero il mio Sandro! — esclamò la vecchietta singhiozzando, vinta da superstizioso terrore.

I becchini prepararono le sei casse, strettissime, di rozzo legno....

La domenica seguente, alla solita predica dopo l’evangelo, nell’aria fredda e grigia della fine di novembre, mentre i poveri vecchioni stavano tutti intirizziti nei banchi dell’oratorio, mezzi sbalorditi dalle continue morti, dai continui [p. 30 modifica]funerali di quella settimana, Don Tinazza si mise a inveire tutto a un tratto, con voce tonante, contro gl’irreligiosi, contro i miscredenti, contro il garibaldino che non aveva voluto saperne de’ suoi sermoni.

Da principio nessuno capiva.

La folla dei sordi che nulla sapeva, che nulla intendeva, si guardava intorno sbigottita, interrogando i volti dei vicini.... Gli ebeti sorridevano beatamente divertiti da quel gridìo, da quei gesti concitati come quando «Gerolamo» recitava la Francesca da Rimini, o l’apostolo ateo imprecava alla ingiustizia e alla ipocrisia.

Ma a poco a poco senza sapere, tutti furono vinti da un vago terrore, da un’inquietudine tormentosa. E la vedova sconsolata piangeva, e il suo corpo consunto tremava come tremavano le foglie secche al vento autunnale.

Seduto presso alla porta, guardando fuori nel vuoto, con gli occhi arsi, il marionettista invaso dalla collera stringeva i denti per non scattare.