Nella nebbia/Intuizioni oscure

Intuizioni oscure

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Vecchioni increduli Un desinare

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INTUIZIONI OSCURE.


L
a carica di maestro di cappella che il Ponchielli aveva nella chiesa di Santa Maria Maggiore a Bergamo, lo chiamava abbastanza spesso in quella città, ed anche, tratto tratto, nei paeselli della provincia. Vi era un organo da collaudare? Un concorso da decidere? Il comune invocava subito l’aiuto del celebre maestro.

Ritornando da quelle gite, egli aveva sempre qualche cosa da raccontare.

Una volta fra l’altre, essendo stato in Albino, credo per giudicare di un organo nuovo messo nella chiesa parrocchiale, egli restò molto impressionato da un suo incontro con quattro donne velate. Era nello studio di un fabbriciere. Le quattro donne sedevano su quattro sedie addossate al muro; mute, immobili, vestite di nero, il capo coperto da fitti veli neri che celavano in parte il viso e scendevano in ricche pieghe lungo la persona.

Ponchielli entrò, fu fatto sedere presso al fabbriciere e la conversazione cominciò, abbastanza animata e diffusa. Durò circa un’ora.

Per tutto quel tempo le quattro donne non si mossero, non alzarono gli occhi, non pronunciarono sillaba; nè mai il fabbriciere si occupò di loro, nè le guardò. Parevano [p. 34 modifica] quattro cariatidi; così indifferenti, così morte al mondo, che non valesse la pena di prenderle in considerazione.

Chi erano? Che cosa aspettavano?

Mistero; buio profondo, come i loro abiti, come i loro veli, come i loro visi.

Il maestro non osò interrogare, convinto che nessuno gli avrebbe risposto. E partì, non senza avere ben frugato con gli occhi penetranti quelle quattro sfingi, e portando seco l’immagine incancellabile di quella scena.

Un anno più tardi, poco prima della sua morte, arrivando a Bergamo secondo il solito per una grande solennità religiosa, il maestro seppe che l’amico presso cui albergava in quelle occasioni era casualmente fuori di città.

Egli si preparava a recarsi all’albergo, allorchè un cospicuo fabbriciere di Santa Maria Maggiore gli offrì cortesemente la propria casa, pregandolo di accettare.

Il fabbriciere abitava in Bergamo alta, dalle parti di via Salvecchio, una di quelle antiche case dall’aspetto medioevale, che serrano il cuore al solo vederle.

Era la vigilia della festa.

Fatte alcune visite in Bergamo bassa, due o tre giri sul Sentierone, il maestro salì, verso il tramonto, alla casa del suo ospite.

Ma, fosse l’ora, fossero i nervi, od altre cause fisiologiche o psicologiche, Ponchielli fu impressionato come in nessuna altra occasione, dalla tristezza e dalla desolazione dell’antica città.

Egli saliva malinconicamente quelle vie deserte, ascoltando il rumore dei propri passi, rimbombanti nel silenzio; saliva, avviluppato da quella tetraggine medioevale che gli penetrava le viscere. Le rare persone che incontrava gli parevano [p. 35 modifica] ombre vagolanti piene di mistero: ombre di creature scampate miracolosamente alla fiera pestilenza che doveva avei distrutto quel popolo, deserte quelle case.

Di tratto in tratto egli si fermava a guardare l’erba cresciuta tra pietra e pietra, in certe piazzette, in certi cortili umidi, freddi; e gli usci chiusi, le finestre sbarrate.

Qua e là, una bottega sepolta nel sonno e nell’ombra, aspettava invano un compratore.

E a lui veniva voglia di essere quell’aspettato, di entrare e chiedere un abito completo del tempo della prima crociata. Dovevano averne di genuini, ed egli si figurava di girare per Bergamo, in quell’abito medioevale, assai più intonato con l’ambiente.

Nella casa del fabbriciere, casa vasta, antica e rimbombante, il pranzo fu succolento grave e lungo. I convitati, due preti ed un altro fabbriciere, collega del padrone di casa, mangiavano con raccoglimento e bevevano sodo, da buoni bergamaschi. Di tratto in tratto qualche frizzo pesante come le vivande, sollevava le grasse risate.

Finalmente, arrivata l’ora di ritirarsi, l’ospite accompagnò il maestro in una ampia camera, dov’era un letto immenso, e pochi mobili severi.

L’ombra era interrotta da quattro candele di cera, alte, da catafalco, con effetto funereo.

Inconsciamente il maestro rabbrividì. Si vide morto in quel letto; ebbe il senso aspro della fine suprema; una intuizione profonda del nulla.

Presto però il suo spirito arguto riprese il sopravento, ribellandosi alle tetre immagini. Sorrise, pensando come avrebbe raccontata quella scena agli amici; e, trovato un [p. 36 modifica] pezzo di candela stearica dimenticata, accese quel lume più umano, spegnendo i quattro ceri suscitatori di incubi.

Poco dopo si coricò con la speranza di riposare e dimenticare le fastidiose impressioni.

Ma la sua speranza fu vana.

Appena in letto cominciò a voltarsi e rivoltarsi.

Quel letto enorme, quell’aria di camera disabitata, e i colpi di tosse straziante che venivano dalla casa vicina, non lo lasciavano neppure appisolare o appena appisolato lo risvegliavano.

Quella tosse era di donna che non ha speranza!

Il maestro l’ascoltava tristamente, pensando a quella esistenza desolata di donna ignota, che passava nella fantasia di lui quale un fantasma di dolore e di morte.

Come doveva essere triste di trovarsi inchiodati in un letto, coi polmoni logorati, intendendo tutto, avendo la piena coscienza del proprio stato!

Riaccese il lume.

Era inquieto, nervoso. Gli pareva di trovarsi in un monastero e di non poterne più uscire.

Sepolto vivo!....

Il mozzicone di candela era agli sgoccioli; il lucignolo languiva in fondo al candelliere, mandando fiochi bagliori.

Ponchielli chiudeva gli occhi, cacciava tutte le immagini, implorava il sonno; ma un momento dopo li riapriva in sussulto e balzava a sedere sul letto.

Ora non gli restava altra alternativa che le tenebre o le candele mortuarie.

Tutto a un tratto gli parve di non essere più solo.

Le quattro donne di Albino erano entrate nella camera coi lunghi abiti neri, i veli fitti sui visi arcigni. [p. 37 modifica]

Egli le vedeva distintamente, sedute ai quattro angoli del letto enorme.

Lo guardavano fisso traverso ai complicati ricami dei loro veli, mute, immobili, sinistre. Egli li sentiva nelle proprie carni quegli sguardi ardenti; e il pallore di quelle faccie consumate dall’ascetismo gli faceva provare un senso d’ignoto terrore.

Invano chiudeva, per la centesima volta gli stanchi occhi; le vedeva lo stesso traverso le palpebre chiuse; sentiva la loro letale presenza, nelle folte tenebre.

Avrebbe voluto interrogarle, spinto da un’ardente curiosità, ma non osava, come quel giorno in Albino. E rimaneva immobile, soggiogato, ipnotizzato.

A poco a poco, la visione, o sogno, o fantasia, mutò forma.

Le quattro donne cominciarono a ingrandire. Su... su... salivano vertiginosamente; diventavano gigantesche, immense, indefinite. E gli ampi veli dalle pieghe pesanti si agitavano intorno ad esse come grandi ali nere.

Finalmente, le misteriose figure parevano disciogliersi, confondersi col tenebrore universale, e il maestro aveva la strana sensazione di essere portato via, avvolto in quei veli, sempre più lontano, sempre più in alto.

Tutto ciò durò un tempo che a lui sembrò lunghissimo.

Improvvisamente i fantasmi si dileguarono; le grandi ali nere non lo sostennero più; abbandonato in mezzo allo spazio infinito, egli si sentì precipitare da un’altezza vertiginosa in un baratro senza fondo.

Svegliatosi di soprassalto, balzò dal letto, si vestì in fretta e andò a passeggiare sulle mura deserte.