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timentale — strana metamorfosi — e invece delle farse nelle quali la sua maschera nazionale aveva avuto tanto successo sulle fiere e nei teatrini per fanciulli, egli si ostinava a recitare squarci lirici della Francesca da Rimini, e di altre tragedie del tempo romantico.

Forse anche lui aveva passata la vita facendo un mestiere che non era di suo genio, applaudito in un arte che disprezzava: condannato a far parlare le marionette divertendo i ragazzi e il popolo, mentre si sentiva capace di recitare come un Modena, commovendo fino alle lagrime le persone più intelligenti. Ora se ne vendicava come poteva.

Disgraziatamente, il suo uditorio composto di mezzi sordi e di sordi affatto, gustava poco la lirica, e contentandosi di afferrare la mimica del declamatore, rideva e si divertiva come se avesse dette le cose più buffe.

Ad ogni fine di atto «Gerolamo» gridava al macchinista immaginario: «Giù la tela» e a questo segnale le donne, sempre espansive, sempre giovani per chi sa divertirle, applaudivano a tutto spiano.

Alla fine però nessuno poteva trattenerle dal gridare insieme agli uomini:

— La farsa! «Gerolamo», vogliamo la farsa!

— Peccato che sono sordi e che non intendono i versi! — diceva il marionettista all’amico suo più intimo nei momenti di suprema confidenza. — Quanto al talento dell’artista lo sanno apprezzare meglio di tanti!...

— Hanno voglia di ridere — rispondeva l’amico sottolineando la frase con sottile ironia.

Finita la rappresentazione, mentre la maggioranza dei vecchi in buona salute recitava il rosario, o l’ufficio dei