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e i suoi modi ruvidi e la troppa franchezza nel manifestar le sue idee troppo radicali, avevano cooperato a suo danno.

Da qui l’amarezza incurabile del suo carattere, da qui il bisogno irresistibile di diffondere le sue idee pessimiste e ribelli da per tutto, a costo di tutto: una sorta di manìa, che gli aveva cagionato sempre nuovi tormenti.

Nell’ospizio Trivulzio, Sandro Fantini aveva, oltre che la moglie, un amico intimo, un correligionario dal quale era amato e venerato come un profeta, e sebbene costui non fosse altro che un povero vecchio marionettista, battezzato col nomignolo di «Gerolamo» perchè aveva sempre fatto parlare la maschera di questo nome, il garibaldino lo teneva in gran conto.

Erano sempre insieme e esercitavano una certa autorità nel gruppo dei loro amici e aderenti.

«Gerolamo» però era molto più allegro, molto più amabile e non disdegnava di interrompere le dispute filosofiche per divertire la brigata.

In quelle serate tiepide, i vecchioni si mettevano spesso a sedere in semicerchio, le donne nel centro, gli uomini dalle parti, e chiamavano «Gerolamo» perchè li facesse un po’ stare allegri.

Se «Gerolamo» tardava, si mettevano a batter le mani e a pestare i piedi come qualunque pubblico civile.

Allora il bravo piemontese, che era ancora un uomo robusto con un faccione rosso e le spalle larghe, si lasciava condurre sotto all’albero più alto e centrale — il suo palcoscenico — e cominciava la recita.

Senonchè invecchiando «Gerolamo» era diventato sen-