Naufragio
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VIII
NAUFRAGUS
NAUFRAGIO
1. Bench’io non possa sanza lacrime e dolore ricordarmi della gravissima iniuria quale io ricevetti dalla fortuna, o amici miei, pur deliberai ubbidirvi. Racconterovvi el naufragio nostro, come mi dite ch’io faccia, e udirete da me cosa degna di memoria e molto maravigliosa. E quando arete inteso quanto io sia stato offeso dagl’impeti della avversa fortuna, o omini ottimi, credo iudicarete la fortuna esser come altrove così e molto in mare da temerla. Vorrei per eloquenza potere mostrarvi quanto fu el nostro naufragio da piangerlo, qual noi per prova lo sentimmo pessimo esser e troppo terribile, tale che non solo el mare ci è odioso, e simile è navigli ci sono a vederli molesti, ma e ancora el nome del navicare ne perturba, e tanto mi dispiace ogni cosa marittima che io non amo chi navica e iudicolo inimico di sé stessi e di sua salute. Ma poich’io vi vedo molto apparecchiati a udirmi, narrarò la cosa quanto potrò breve.
2. Trecento omini eravamo in una nave ben fornita e salda. Navicavamo colle vele piene tutti iocosi verso el porto quale già innanti ne appariva. Alcuni di noi, e in prima una fanciulla molto dilicata quale fra noi sposa andava alle nozze apparecchiateli dal suo marito, si vestiva e adornava con panni e gemme; e fra noi compagni erano chi constituiva la sera e l’altro dì avere in quel porto molto piacere in cene e in feste, e così tutta la nave brulicava di letizia in questi apparecchi. O fragile speranza de’ mortali! Per grave e atrocissima tempesta quale ruppe subito, mutati e’ venti, con troppa nostra miseria fu suvvertita la nave in modo che di tanta moltitudine solo omini tre rimaseno in vita, io, quella fanciulla sposa e un barbero servo. Cosa maravigliosa e incredibile! Qual fusse fato non so, ma suvversa la nave, noi tre ci trovammo reposti presso alla poppe della nave in luogo non bene atto a riceverene perché era picciolo e ancora perché era pieno di ferramenti lì riposti al bisogno della nave. Adonque ivi non potevamo bene stare senza ricevere qualche ferita da que’ ferri, e più eravamo summersi tutte le spalle in l’acqua quale conveniva pelle fessure della nave tutta dalla tempesta quassata e aperta. E a queste difficultà vi s’agiungeva che spesso per el comuoversi della nave picciata dall’onde l’uno di noi urteggiava l’altro. Adunque miseri noi, molli e premendo l’un l’altro e ricevendo or una or un’altra tagliatura e puntura da que’ ferri, sofferavàno tuttora presente la morte. Pur la necessità a noi facea parere questo così sinestro luogo grato e assai troppo grande. Per questo pregavamo Dio almeno ivi ne fusse licito sperare qualche salute, e fra noi confortavamo l’un l’altro promettendoci men rea fortuna, ma d’uscire di tanta molestia per allora non era che aspettare a noi né che consigliarci. Né intendevamo dove in tanto mare fossimo traportati, e questo ne parea ottimo per allora quanto potavamo sopra l’acqua con tutto el capo alitare. In quale nostro misero stato, oimè, e quante morte vedevamo noi! Ogni onda veniva con nostro eccidio. Pur mai, cosa maravigliosa, mai in tanti pericoli la speranza abandonò l’animo nostro, né mai l’animo mancò a sé stessi. Sempre fummo in questa fortitudine che sempre ne promettavamo qualche bene. E a me, qual credea mai più potere rivedere questo sole e questa luce, tornava in mente quello che dicono e’ poeti che, quando gli altri dii salirono el cielo, solo la Speranza rimase a fare compagnia a’ mortali posti in miseria e oppressi dalle calamità. E così sola questa dea a noi infelicissimi era propizia, né ci lasciava soccombere a tanti mali.
3. Con lei durammo molte e molte ore per sino che ’l mare cominciò a meno esser aspero, onde questo luogo ove eramo inchiusi meno divenne acquoso. Non potavamo però pigliar modo di torci indi altrove, però che la nave era suvversa e piena d’acqua. Pur cominciammo a riaverci un poco, e nettammo el luogo da tanti ferri e gittammoli in molta parte fuori. Poi intenti pelle fessure guardavamo se da parte alcuna ne si presentasse alcun lito, e in questo guardare ogni onda che verso noi venia c’impauriva a morte. Parseci vedere qualche monte a lungi; quinci in noi nacque tanto desiderio di condurci in terra che fra tante molestie questa fu la maggiore, e dove testé sommersi in acqua sino al mento non più credavamo che solo potere respirare, ora da quello ultimo pericolo liberi non potavamo patire le veste indosso molli. Nudammoci in molta parte, e in quella fortuna perduto ogni cosa lodavamo Idio che avamo da potere assederci benché maldestri. Sarebbe istoria lunga raccontare quante varie memorie e ragionamenti nei nostri animi e fra noi in quello spazio soveniano. Eravi el dolore delle cose perdute, eravi la letizia della già presso veduta terra, eravi speranza insieme e paura d’ogni cosa futura, tale che quasi eravamo alieni e fuori d’ogni nostra mente. Conferivavi la lunga vigilia, el digiuno, el freddo, per quali eravamo si può dire spacciati, tale che ciascuno di noi e pe’ suoi mali e per la misericordia de’ compagni posti in simile calamità nulla quasi potavam di noi stessi.
4. In questo modo stemmo due dì, fra quali mali solo uno era quello che noi atterrava, la fame. Pareaci meglio già prima essere periti che ora vivere in tanto desiderio di saziarsi. E in prima quel barbaro nostro compagno in tanti infortuni, di natura feroce e d’ingegno bestiale e audacissimo, arse in tanta sevizia che e’ tentò cosa inaudita, incredibile e degna di biastemarlo. Porsesi a me presso alla orecchia tutto interriato nel viso, coll’alito tremitoso, e denteggiando, e prima susurrando cominciò pregarmi e pregandomi alzò la voce persino a garirmi, dimandandomi ch’io lasciassi ucciderli quella infelicissima fanciulla compagna mia in questa acerbissima fortuna, per pascersi. La fanciulla che sentiva que’ ragionamenti, aimè, non posso dire quanti pianti fussero e’ suoi! E a me tanta atrocità di questo barbaro, e la misericordia di questa pura e tenera fanciulla, ah, e quanto mi perturbò! Temea per lei, temea e per me stessi, e cominciai a ripensare molte e molte cose, e dicea: siamo noi servati da tanta e sì rabbiosa tempesta per esser cibo a questo barbaro? Piansi. Pur con parole rattenea quel bestiale da tanta crudelità. Ma quel barbaro già già fiameggiava rabbia con gli occhi e gridava: «Occidianla». Io col tempo subito consigliato, gittai ogni resto di que’ ferramenti ch’ivi restavano, acciò che quel mostro non potesse quanto e’ cercava. Eimè! E chi referirà te, o misera fanciulla, quale avevi ogni tua salute posta solo in lacrime e preghiere? O pietà, che non solo a me qual sono pietosissimo, ma e ancora a quel barbaro vidi movesti le lacrime! Io adunque, volto alla fanciulla, dissi pigliasse buono animo, non bisognar quivi lacrime ma virtù; adonque stesse meco in piè e non giacesse in quel dolore, che se bisogno accadesse, potessimo due con fermo petto ossisterli, che sarei col favore di Dio galiardo combattitore contro tanta immanità, e a Dio esser comendata la nostra piatà.
5. All’ultimo, ove quella bestia non restava, io irato: «O sceleratissimo», dissi, «non cesserai tu da tanta iniuria contro a questa misera fanciulletta, qual piange, prega, qual è stata e ora è con noi in tanta mala sorte doppo tanti casi? Tu omo, tu vorrai farti pasto un corpo umano, tu pascerti delle membre vive? Ramentiti tu esser o no omo? Qual tigre sarà mai simile a te? Qual animale affamato, voracissimo non perdona a simili a sé? Tu fai questa tua fame maggiore non ben sopportandola. Témperati, ché certo meglio la porterai, e gioveratti sperare meglio. Né per certo siamo dalli dii servati da tanti mali a questa crudelità, ma per loro pietà a salute siamo e a testificare la loro benignità servati; ché se così non fusse, terzo fa dì con gli altri saremmo periti. Ora se saremo piatosi, questa speranza quale li dii piatosi ci hanno mostra, sarà con grato ed espettato bene». E così adonque dava io opera di distorre quel barbaro da tanta immanità. Ma voi, o amici miei ottimi, che animo credete fusse el mio mentre ch’io dicea? Qual’erano cose ch’io meno volessi prima che vedermi innanzi quella belva con quel fronte aspero e apparecchiata d’ogni parte a crudelità? Ma sostenea me stessi con l’animo presente, e curava ogni salute di quella fanciulla. Questo ultimo troppo mi comosse quando con un grande urlo quel barbaro gridò: «Un di voi convien che muoia». Ed esasperato infuriò tanto che biastemò Iddio, e colle mani già me opprimea. O spettaculo durissimo! La fanciulla impaurita mi si getta a’ piedi, pregami. El barbaro già presto e arrabbiato cominciava essequire la crudelità. Io in mezzo consolava costei, sgridava quest’altro e me straccava. Quel pessimo barbaro, quanto io più li distoglieva ogni suo brutto incetto, allora più ardeva in rabbia. Oimè, alla fanciulla già erano mancate le lacrime, e a me apresso questa bestia non più erano preghiere. Questo furioso rompe e con tutte le forze si getta a questa misera fanciulla per strangolarla. Qui benché stracco e languido pe’ sofferti sinistri, pur da tanta indignità mi nacquero forze, e presi questo arrabbiato quale ora verso la fanciulla ora verso di me con morsi, con pugni si inasperiva, sudai tanto ch’io glielo tolsi da dosso. Presi con tutte due le mani mie la sua destra mano e svolsigliela drieto alle spalle con tanto impeto che pel dolore egli urlò. Tennilo tanto che la fanciulla m’aitò e presegli l’altra mano e simile la svolse. Contenemmolo tanto che stracciata la camicia della fanciulla e fattone una e un’altra fascia legammo drieto le mani a questa bestia quale per sino alle tavole della nave co’ denti e con urti schiantava e fracassava.
6. Scrivono le storie di Sagonto, di Ierosolima, di Cassilino essere stato chi rose le funi, le scorze de’ legni, le pelle delli scuti, chi mangiò erbe pestifere e chi per fame mangiò e’ figliuoli, essere stato chi si gittò in fiume, chi si precipitò da’ muri per tedio della fame. Visto quello ch’io vidi, ogni cosa e più ne credo. E voi, amici miei, pregovi insieme con meco ripensiamo qual fusse allora la nostra sorte e condizione. Da quanta speranza, da quanta lieta espettazione in ultima desperazione cademmo noi! Da quanto gaudio in quanto pianto e miseria! Noi che con sì secondi venti poco innanzi venavamo a casa, a’ quali la fortuna promettea ogni bene, guadagno, festa, piaceri, quali speravamo abracciare e’ padri, la moglie, amate nostre e care anime, a’ quali non parea navigando più potere altra facilità dalla fortuna altrove domandare, — noi subito vedemmo toltoci dinanzi e’ nostri benivolentissimi compagni e fedelissimi amici. Noi, quali la fortuna avea coniunti in pari caso, tra noi divenimmo capitali inimici, e tanta ne fu mala avversità che a pena ne fu licito piangere la nostra miseria. Ma lasciamo questi pianti che non ci basterebbe el dì.
7. Adonque era el barbaro legato come dissi; noi pur pieni stavamo di paura che se si sciogliesse di nuovo, non bisognasse cominciare nuova zuffa. In questo sopragiunsero alcuni pescatori da’ quali el tronco nostro della nave era stato da lungi veduto. Noi ch’eravamo intenti a guardarci dal nimico bestiale conchiuso con noi, udite le voci de’ pescatori, non posso dire quanta allegrezza ne impiette. Per letizia perdemmo la voce, stemmo muti tanto che que’ pescatori, non vedendo guadagno da quella squassata nave nostra, deliberavano partirsi. Ivi noi ne accogliemmo e quanto potemmo con gran voce pregammo aito. Accostoronsi a noi, a’ quali fu di tutte le cose nulla primo che domandargli che solo ne porgessero che mangiare. Aresti veduti que’ di fuori lacrimare, e que’ dentro siniozzando aresti udito con troppa umilità pregare. Dolce era all’uno e all’altro queste lacrime e questa pietà. Quelli ne confortavano, noi fra noi ne abbracciavamo pieni di tenerezza. O Iddio, quanta e quanto subita mutazion in noi d’ogni animo! Costui quale la fame avea fatto nostro atrocissimo inimico, quale appetiva nostro sangue e vita, questo barbaro quale con tanti sudori avamo colligato, quale tanto temavamo, odiavamo, costui ci fu subito conciliatissimo e in tanta sofferta con noi miseria agiuntissimo, costui ci fu ora slegato caro abbracciarlo. Che se forse sarà chi dica che mali tempi generano mali costumi, e facile essere a’ beati e ben fortunati usar pietà, forse non errarà. E’ pescatori non aveano ivi pane, ma per le fessure della nave pinsero alcuni pescetti. Accuso el mio, se così vi pare, mal costume. Subito mangiai quel crudo. La fanciulla per questa profertali salute quasi essanimata fuor di sé stava. Ma quel barbaro, - non so la cagione, sannola e’ fisici, - el quale poco inanzi parea potesse divorare uno uomo intero, testé né pur potea mordere un pescetto.
8. Comincioron que’ pescatori in ogni modo a volerci aprire da uscirne. Non poterono, ché altro non avean che remi atti a rompere e’ tavolati. Adonque «Addio», dissero, «siate di buona voglia. Qui saremo subito con molti ferri, e con noi verrete». Noi, benché conoscessimo quella essere nostra salute, non è facile dire in quanto merore cademmo da molta letizia vedendoli partiti; e tanta ne tenea cupidità d’uscirne che dimenticammo ogni da noi sofferto pericolo accusandoci stolti che gittammo que’ ferri co’ quali testé apriremmo via a uscirne. Così non levavamo occhi da dosso a que’ pescatori quali per salvarci da noi si partiano. E parte ci dolea meno vedere chi ne salvava, e parte desideravamo ne fuggissero prestissimo per salvarci. Ed eravamo lieti insieme e mesti. E più preghiere allora al mare pacifico facemmo e più voti per la navigazion de’ pescatori che non avamo in la nostra tempesta fatte per noi. Aspettammogli parecchie ore agitati da tanti sospetti che io posso affermare che queste sole ore a noi furono più gravi che tutti e tre passati tempestosi dì.
9. Pur rivennero a noi e’ pescatori presso a sera con liete voci qual fanno chi torna trionfando a’ suoi cittadini. Noi non potavamo languidi e attriti referire loro pari letizia colle voci. Adonque in fretta rotto el lato della nave ne riceverono in quella barca sua, ove doppo un poco soluti da maggior cure guardammo l’uno l’altro. O Dio, quali erano e’ nostri visi! El naso fatto acuto, le labbra flappe pendeano, gli occhi fuggiti ed evacuati, la barba setosa, le guance squalide, tutti osceni e simili o più sozzi in vista che que’ che già tre dì fussero stati morti. Tanto indizio in noi era della nostra sofferta calamità. Que’ pescatori, quando ne guatavano, per pietà lacrimavano. Noi fra noi, credo, pazzeggiavamo per letizia, beffavamo e’ nostri visi, e insieme domandavamo a cui fusse la faccia più atta a nozze. In questa ecco in una barchetta a remi velocissima el marito nuovo della nostra fanciulla, ch’avea udito della nave trovata entrovi chi e’ dubitava. Avea costui in dito l’anello, entrovi una gemma rara e conosciuta, quale solea portare el mio carissimo fratello perito in quel nostro naufragio: avealo questo sposo avuto da chi trovò el corpo esposto sul lito. Abbraccioronsi quelli sposi. La fanciulla ricevuta in seno del suo dolcissimo amatore tutta svenne in bràccioli. Io, che vidi in dito dello sposo l’anello del mio ottimo fratello, per desiderio ancora svenni. Credo che chi ci vide molto si comovesse non so se più a piangere e’ nostri mali e a misericordia e dolore, che a gaudio e letizia di tanta comutazion di nostra fortuna. Indi imparai, amicissimi miei, a nulla mai disperarmi. Siate felici.