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naufragio 361



7.     Adonque era el barbaro legato come dissi; noi pur pieni stavamo di paura che se si sciogliesse di nuovo, non bisognasse cominciare nuova zuffa. In questo sopragiunsero alcuni pescatori da’ quali el tronco nostro della nave era stato da lungi veduto. Noi ch’eravamo intenti a guardarci dal nimico bestiale conchiuso con noi, udite le voci de’ pescatori, non posso dire quanta allegrezza ne impiette. Per letizia perdemmo la voce, stemmo muti tanto che que’ pescatori, non vedendo guadagno da quella squassata nave nostra, deliberavano partirsi. Ivi noi ne accogliemmo e quanto potemmo con gran voce pregammo aito. Accostoronsi a noi, a’ quali fu di tutte le cose nulla primo che domandargli che solo ne porgessero che mangiare. Aresti veduti que’ di fuori lacrimare, e que’ dentro siniozzando aresti udito con troppa umilità pregare. Dolce era all’uno e all’altro queste lacrime e questa pietà. Quelli ne confortavano, noi fra noi ne abbracciavamo pieni di tenerezza. O Iddio, quanta e quanto subita mutazion in noi d’ogni animo! Costui quale la fame avea fatto nostro atrocissimo inimico, quale appetiva nostro sangue e vita, questo barbaro quale con tanti sudori avamo colligato, quale tanto temavamo, odiavamo, costui ci fu subito conciliatissimo e in tanta sofferta con noi miseria agiuntissimo, costui ci fu ora slegato caro abbracciarlo. Che se forse sarà chi dica che mali tempi generano mali costumi, e facile essere a’ beati e ben fortunati usar pietà, forse non errarà. E’ pescatori non aveano ivi pane, ma per le fessure della nave pinsero alcuni pescetti. Accuso el mio, se così vi pare, mal costume. Subito mangiai quel crudo. La fanciulla per questa profertali salute quasi essanimata fuor di sé stava. Ma quel barbaro, - non so la cagione, sannola e’ fisici, - el quale poco inanzi parea potesse divorare uno uomo intero, testé né pur potea mordere un pescetto.


8.     Comincioron que’ pescatori in ogni modo a volerci aprire