Pagina:Alberti, Leon Battista – Opere volgari, Vol. II, 1966 – BEIC 9707880.djvu/365


naufragio 359

fascia legammo drieto le mani a questa bestia quale per sino alle tavole della nave co’ denti e con urti schiantava e fracassava.


6.     Scrivono le storie di Sagonto, di Ierosolima, di Cassilino essere stato chi rose le funi, le scorze de’ legni, le pelle delli scuti, chi mangiò erbe pestifere e chi per fame mangiò e’ figliuoli, essere stato chi si gittò in fiume, chi si precipitò da’ muri per tedio della fame. Visto quello ch’io vidi, ogni cosa e più ne credo. E voi, amici miei, pregovi insieme con meco ripensiamo qual fusse allora la nostra sorte e condizione. Da quanta speranza, da quanta lieta espettazione in ultima desperazione cademmo noi! Da quanto gaudio in quanto pianto e miseria! Noi che con sì secondi venti poco innanzi venavamo a casa, a’ quali la fortuna promettea ogni bene, guadagno, festa, piaceri, quali speravamo abracciare e’ padri, la moglie, amate nostre e care anime, a’ quali non parea navigando più potere altra facilità dalla fortuna altrove domandare, — noi subito vedemmo toltoci dinanzi e’ nostri benivolentissimi compagni e fedelissimi amici. Noi, quali la fortuna avea coniunti in pari caso, tra noi divenimmo capitali inimici, e tanta ne fu mala avversità che a pena ne fu licito piangere la nostra miseria. Ma lasciamo questi pianti che non ci basterebbe el dì.