Naja Tripudians/XIX
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XIX.
Il dottor Harding fece assai buona accoglienza a Laurence Wilmer, e anche la temibile Jessie, messa al corrente di tutto, lo salutò con molti sorrisi.
Il dottore non volle che si parlasse di lasciarlo ripartire quella sera stessa, e gli fu preparata una cameretta gaia e imbiancata alla calce, da cui, per fargli posto, Jessie portò via molte provvigioni di mele, di pere e di cipolle.
La colazione fu assai allegra. La zia Marianna, come le fanciulle continuarono a chiamare il loro ospite, aveva molte cose divertenti da narrare riguardo alle sue molteplici attività giornalistiche. Parlò brevemente della sua giovinezza, dei suoi sogni d’arte troncati dalla morte di suo padre — tragica ed improvvisa morte che lasciava senza risorse la madre delicata e sofferente. Parlò delle sue speranze per l’avvenire.... quell’avvenire di cui, ormai, poteva dirsi sicuro....
Dati questi brevi ragguagli biografici, la zia Marianna non parlò più di sè, ma riuscì a far parlare tutti: la timida Myosotis, il riservato dottore, e Leslie, ridente e ritrosa. Anche la bisbetica Jessie, portando il caffè, si attardò a prender parte alla conversazione generale.
Dopo colazione le fanciulle lo condussero sull’aia a far conoscenza delle otto galline — gonfie e immobili pel freddo — e dei tre conigli bianchi e neri scampati alla truculenza di Whisky e di Soda e alla ferocia culinaria di Jessie....
Quindi gli venne presentato anche un piccolo maiale, convalescente dall’influenza, sdraiato sotto un mucchio di paglia dorata.
— È stato molto male, poverino, — sospirò Leslie colla sua dolce voce di colombella; — bisognava vederlo! Era tutto rosso per la febbre!... allora papà ha ordinato che gli si facessero due tagli nella coda, per cavargli il sangue.
— Sventurato! — disse Wilmer scotendo il capo con gravità.
— Sì, era terribile, — disse Leslie. — Figuratevi che i tagli glieli ha fatti Jessie, colle forbici. E lui gridava tanto che faceva star male tutti. Allora papà ha pregato Myosotis di suonare il pianoforte, perchè non si udissero quegli strilli.
La zia Marianna rise. — E che cosa ha suonato, signorina? — chiese, rivolto a Myosotis.
— L’inno reale, — disse Myosotis, tutta arrossente; e rise anche lei.
— Con molto pedale! — soggiunse Leslie.
Allora tutti risero; e il convalescente grugnì, rallegrato da quel piacevole suono.
In quell’istante passò accanto all’orecchio di Wilmer un insetto, volando con sonoro ronzio.
— Oh, guarda! un «fioralato!» — esclamò Leslie.
— Che cos’è? — domandò Wilmer.
— Ma, veramente, — spiegò Myosotis, — il loro nome giusto non lo sappiamo. Sono delle strane bestiole, che quando sono ferme sembrano dei fiorellini verdi. Perciò le chiamiamo così.
— Pensate, — disse Leslie, congiungendo infantilmente le mani in atto di pietà, — che non possono fare che un volo, uno solo! in tutta la loro vita! Appena hanno volato, muoiono.
— Già. — soggiunse Myosotis, volgendo a Wilmer gli sguardi luminosi: — le abbiamo tanto osservate: stanno dei giorni e dei giorni ferme, o quasi ferme, su un sasso o sul muro, come se pensassero: «Adesso.... dove volerò?», E si muovono appena, adagio, adagio, come piccoli bruchi senz’ali. Poi, d’improvviso si decidono e spiccano un gran volo!... E appena si posano, sono morte.
— Strano destino, — osservò Wilmer.
— Voi, — chiese Leslie, col suo dolce sorriso di bambina, — al loro posto che cosa fareste? Volereste? O stareste fermo per non morire?
Wilmer riflettè un istante.
— Credo che volerei subito, — dichiarò.
— Anche noi! — dissero insieme le due chiare voci giulive....
Oh, dolci, miti discorsi! A Wilmer pareva di tuffare lo spirito in una fresca fonte d’acqua montanina....
Il dottor Harding, da tanti anni esule volontario da ogni consorzio sociale, udendo quelle voci allegre uscì e si accompagnò a loro.
Un po’ più tardi le fanciulle rientrarono in casa, chiamate dalla severa Jessie per qualche faccenduola domestica; ma i due uomini rimasero insieme a discorrere su molti e svariati argomenti.
Il dottore condusse Wilmer nel suo laboratorio e, lieto di avere un ascoltatore intelligente, gli espose ampiamente le sue teorie sulla profilassi e la cura della lebbra. L’enciclopedico giornalista che aveva una conoscenza superficiale anche degli argomenti prediletti dallo scienziato, s’interessò vivamente agli studi e alle esperienze di lui.
Con anche maggiore curiosità ascoltò le drammatiche narrazioni che il dottor Harding gli fece riguardo ai temibili serpenti velenosi dei tropici.
— Guardi — diceva il vecchio scienziato, curvo sopra una grande boccia di spirito che una enorme cobra riempiva dei suoi sinuosi avvolgimenti: — è questa la più formidabile e la più funesta delle colubridi; questa, la subdola e silente apportatrice di morte, dal bel nome femmineo: «Naja Tripudians!». Guardi che meravigliosa grazia sinuosa, che forma simmetrica, pura nelle sue curve come la voluta di un violino.... «Naja Tripudians....» — E la voce del dottore si attardò quasi con voluttà sulle sillabe che, nei ricordi, lo riportavano alla sua giovinezza nelle Indie, allorquando, invocato e adorato dagli indigeni come un dio, aveva creduto alla sua missione, aveva sognato di poter alleviare tante sofferenze, aveva sperato di liberare l’umanità da un mostruoso flagello....
— Ah! è questa la famosa Naja egiziana! — esclamò Wilmer chinandosi per meglio osservarla.
— Sì, Naja Tripudians, — ripetè il dottore, — quel nome getta il panico nelle popolazioni dei tropici. Ricordo il caso di un negro ch’era stato morsicato da un rettile perfettamente innocuo, ma che, udendo pronunciare da un mio marinaio quel nome, morì quasi istantaneamente di terrore.
Wilmer Laurence, chino accanto al dottore, contemplava il sinistro rettile.
— Il primo effetto del veleno, — continuò Harding, — è uno strano senso di ubbriachezza; la vittima inciampa e traballa come se fosse ebbra. Poi ammutolisce, per paralisi della lingua e della laringe.... Finalmente cessa il respiro. E lo sventurato è morto. È morto; ma il suo cuore, strano a dirsi, batte ancora....
E il dottore prese allora a parlare degli studi e delle ricerche che da trent’anni gli riempivano spiritualmente l’esistenza; e quand’ebbe finito di parlare dei veleni ofidici, tornò ad enumerare i suoi esperimenti sui lebbrosi del Malabar.
D’un tratto si accorse che il suo interlocutore, pensieroso, non gli rispondeva.
— Forse l’annoio con queste disquisizioni, — fece il dottore con un piccolo sospiro. — È naturale che lei non si interessi soverchiamente a questi argomenti.
E si accinse a rimettere a posto ogni cosa per lasciare il laboratorio.
— No — protestò Wilmer, — non è questo. Non è questo che pensavo....
Il dottore chiuse a chiave la porta del laboratorio e si avviò, a fianco del suo ospite, per il viale del giardino, verso la casa. Davanti a loro Whisky e Soda si rincorrevano traverso le sfiorite aiuole stellate soltanto qua e là da margherite invernali, da asteri viola e pallidi crisantemi.
— Che cosa pensava? — chiese finalmente il dottore sostando a guardare i rami brulli e melanconici contro il grigiore del cielo.
— Pensavo, — disse Wilmer volgendo sul volto fine e stanco dello scienziato i suoi occhi vividi, — pensavo che mentre noi cerchiamo i rimedi alla lebbra e ai veleni di vipere in terre lontane, qui, nel nostro paese, qui, nelle nostre città, infierisce un morbo psichico, dilaga una infezione morale che contamina e corrompe tutto ciò che ci sta intorno. Pensavo, mentre lei parlava della Naja egiziana, alle vipere umane che amano mordere nelle carni pure, avvelenare le anime innocenti! Pensavo alle «naie» sociali delle nostre grandi città, di cui è tripudio il contaminare e corrompere ciò che ancora di candido, di sano e di sacro è nel mondo....
Il dottore si era fermato in mezzo al viale e contemplava il compagno cogli occhi ceruli un poco appannati; i suoi capelli bianchi e fini ondeggiavano, mossi dal freddo vento autunnale.
— Noi, — continuò Wilmer, — noi viviamo oggi in mezzo a questa lebbra morale e non ne temiamo il contagio; noi, ad ogni passo, sfioriamo un rettile umano che sprizza il tossico e la morte, e non lo distruggiamo, non gli schiacciamo la testa col piede. No. Passiamo oltre, cercando rimedio a tutti gli altri mali: alle infermità fisiche, alla miseria, alle rivoluzioni sociali, ad ogni guaio fisico e materiale.... Ma alla contaminazione dello spirito, alla cancrena dell’anima che in quest’epoca nefanda ci invade — chi porrà rimedio?... Questo io pensavo, dottore.
Si erano fermati in fondo al viale; il vento dell’est, freddo e rabbioso, faceva turbinare ai loro piedi le foglie morte dei roveri e degli ontani.
Il vecchio dottore ebbe un brivido.
— È triste ciò che voi dite, — mormorò.
Poi, rivolto verso il ponente (e giù, lontano, in fondo alla valle la nebbia si stendeva come una coltre sudicia sulle lontane città):
— Fa freddo, — disse. — Entriamo.
L’indomani all’alba Laurence Wilmer partì. Come egli stesso aveva messo per condizione, nessuno — eccetto la vecchia Jessie, che sempre si alzava all’alba — scese per salutarlo. Quando uscì dall’aia, pronto alla partenza, vide che le finestre della casetta erano ancora tutte chiuse.
Whisky e Soda sbucarono da sotto un gran mucchio di fieno, stirandosi, cogli occhi rossi, gli vennero incontro, scodinzolando, e lo accompagnarono per un tratto di strada, giù per la ripida discesa. Indi sparirono nella brughiera.
Ai suoi piedi il mondo dormiva, avviluppato nella nebbia.
Giunto all’ultima svolta, Wilmer si fermò e si volse indietro a guardare Rose Cottage, addossato alla collina. Il cancello era aperto sul giardino autunnale, coi suoi rosai spogli, i cespugli nudi, gli asteri e i crisantemi.
E Wilmer pensò che in primavera vi sarebbero le rose....
Sorrise a quel pensiero.
Indi si volse e riprese la strada ripida che scendeva nella vallata.