Questa pagina è stata trascritta, formattata e riletta. |
— 112 — |
I padrini si scostarono per lasciare il posto al medico; il conte Gastone di Spa, stava ritto, pallidissimo appoggiato al tronco d’un albero, Raul bianco cogli occhi aperti, le mani raggrinzite, agonizzava, la palla gli aveva rotto la clavicola e forato il polmone: il dottore lo fece portare adagio nella carrozza, mentre un fiotto di sangue gli usciva a stento dai denti stretti, colando sulla camicia, sull’abito, in terra. Il lento, triste convoglio attraversava la campagna silente, velata d’una nebbia densa, azzurrina. Raul guardava fuori dello sportello, cogli occhi spenti, cercando di acuire tutta la sua facoltà visiva, per scorgere il palazzo Santelmo; con un delirio di moribondo credeva che fosse là, in quell’angolo desolato di terra brulla. Gastone colla testa fuori del cristallo seguì cogli occhi la carrozza di Raul, finchè potè vederla, poi si rincantucciò tremando provando tutto lo spasimo tremendo del delitto. La sua debolezza di carattere ritornava a dominarlo; quell’uomo fatuo, nullo, aveva ucciso un uomo ed aveva paura.
Appena il sangue calmò il suo sbocco, Raul cominciò a parlare, lentamente, interrompendosi, esalando a poco a poco l’anima colle parole.
— Dite alla soave..... santa Costanza..... che mi perdoni..... che preghi..... che mi scordi..... fui vile, è giusto ch’io muoia..... ditele che quella donna..... Elena..... mi era entrata nel cuore..... lentamente..... ubbriacandomi a poco a poco di tutti i suoi fascini morbosi, di tutti i suoi in-